È diventato un modo di dire di molti politici “responsabili”, economisti “realisti” e giornalisti “obiettivi” affermare che la “transizione ecologica” sarà “un bagno di sangue” per le imprese e quindi per l’occupazionale. Lo dicono sfacciatamente per allarmare i ceti sociali più deboli e cercare di metterli contro il processo di cambiamento auspicato anche dalla Commissione europea con il Green Deal, la legge sul clima, il Fit for 55. Ma, se non vogliamo cadere nel loro cinico gioco, sarà bene, da parte nostra, riconoscere che per rientrare nei limiti planetari della sostenibilità molti apparati produttivi inquinanti ed energivori oggi in funzione sono destinati ad andare fuori mercato, se non direttamente fuori legge, perché nocivi alla salute oltre che all’ambiente.
Qualsiasi serio
processo di riconversione degli apparati produttivi in chiave ambientale non
può non avere come primo obiettivo quello di ridurre drasticamente i prelievi
di materie prime e il rilascio nell’ambiente di materiali di scarto non
metabolizzabili dai cicli naturali. E non è garantito che tale processo possa
avvenire mantenendo un bilancio economico e occupazionale positivo all’interno
di ogni singola azienda, gruppo industriale o settore produttivo. La compensazione tra perdite e benefici (una just transition che non penalizzi
nessuno) potrà avvenire solo nel contesto di un riassetto complessivo del
sistema socioeconomico. Come è stato detto più volte, sarà possibile realizzare
una green economy solo nel
contesto di una green society. È
quindi drammaticamente vero che senza politiche sistemiche e contestuali di
riconversione industriale e rifinalizzazione dei sistemi sociali di garanzia e
tutela del lavoro potremmo assistere a licenziamenti di massa ed esuberi a
danno dei lavoratori meno tutelati.
Il
sistema non si può più riparare
Molte delle “crisi
industriali” sul tavolo di governo e sindacati sono la dimostrazione della
mancanza di politiche organiche e di lunga prospettiva di trasformazione
ecologica e sociale. Dovremmo,
infatti, mettere in conto che il processo di “sostituzione” delle posizioni di
lavoro più obsolete con nuove attività “verdi”, ecosostenibili, non avverrà
automaticamente, né con la stessa velocità e per le stesse quantità. Le logiche
spontanee di mercato, infatti, non rispondono alle esigenze della
sostenibilità, ma solo a quelle dell’incremento esponenziale del valore delle
merci immesse sul mercato. Comporre questa divergenza non è una mera questione
aritmetica, di spostamento di alcune poste di bilancio da una tecnologia ad un’altra,
dalle rendite finanziarie agli ammortizzatori sociali, dai profitti immediati
alla preservazione di lunga durata del territorio, ma richiede un cambio dei
criteri generali di valutazione del bene comune economico e sociale. Una
efficace “transizione ecologica” non potrà scaturire da una impossibile
giustapposizione di logiche inconciliabili, dal tracciare una via di mezzo tra
l’accumulazione permanente di capitali e una vita decorosa di tutti gli
abitanti del pianeta. Non pare
esistano più margini di manovra tali da poter aggiustare il sistema economico
dominante. Serve una vera rivoluzione del modo di concepire “questa
economia [che] uccide” (Bergoglio), dell’idea di ricchezza e di benessere che
discrimina e scarta, della politica asservita alla crescita dei rendimenti
monetari. Insomma, una nuova forma di civilizzazione mai concepita prima.
È molto
probabile che le azioni più efficaci per evitare la rovina ecologica e “guarire
il pianeta” siano semplicemente quelle nature
base solutions (rinaturalizzazione, afforestazione, rewilding, ecc.)
che non richiedono, né grandi investimenti, né pesanti interventi umani, ma, al
contrario, un drastico contenimento delle attività antropiche trasformative. Ha
scritto Stefano Mancuso: “Eppure la
soluzione per diminuire la concentrazione di CO2 esiste ed è semplice: piantare
alberi. Non pochi: ne dovremmo piantare mille miliardi. Ma non è davvero
un’impresa impossibile. I costi sarebbero irrilevanti rispetto ai
benefici” (la Repubblica 23 settembre). È la stessa cosa che hanno scritto gli
scienziati su Nature (Internazionale
4 dicembre 2020): riportare allo stato naturale il 15 per cento delle terre
oggi compromesse dalle attività antropiche servirebbe a evitare il 60 per cento
delle estinzioni previste di specie animali e a catturare centinaia di miliardi
di tonnellate di anidride carbonica.
Difficile immaginare
una sostenibilità ecologica senza uscire dal produttivismo e dal consumismo. È necessario entrare nell’ordine di idee che per
rimanere nei limiti della sostenibilità ecologica (ricordiamoli, non sono solo
quelli climatici, ma riguardano anche i cicli dell’acqua, del fosforo e
dell’azoto, l’acidificazione degli oceani, ogni forma di inquinamento e, in
generale, la capacità di rigenerazione delle forme di vita animale e vegetale)
sarà necessario ridurre drasticamente lo sfruttamento del “capitale naturale”
non rinnovabile e l’utilizzo dei suoi “servizi ecosistemici”. Per dirla chiaramente,
sarà necessario ridurre lo “sforzo produttivo” antropico diminuendo le quantità
di beni e servizi da immettere nei circuiti dei mercati e dei consumi. Si suole
dire che la sfida ecologica è quella di riuscire a “fare di più con meno”. O
meglio: soddisfare i bisogni di ciascuno senza compromettere le risorse
naturali e umane. In ultima istanza il raggiungimento dell’obiettivo della
sostenibilità coincide con la diminuzione della quota di “lavoro vivo
socialmente necessario” alla riproduzione del sistema economico. Le politiche economiche e sociali dovrebbero
quindi realizzare una svolta epocale: liberare spazio e tempo da riservare ai
cicli naturali e agli stessi esseri umani.
La
riduzione del lavoro
È stato calcolato senza timore di errori che i prelievi
di materie grezze è continuato a crescere in quantità vertiginose negli ultimi
decenni, anche in presenza di politiche degli stati rispondenti agli obiettivi
dello “sviluppo sostenibile”. Pensiamo alla deforestazione e al “consumo” di
suolo. Pensiamo alla quantità di oggetti inerti che l’umanità prosperosa sta
accumulando sulla crosta della Terra, tanto da superare in peso quella della
biomassa (animale e vegetale). La cosiddetta “economia circolare” riesce a
riciclare le materie prime solo per frazioni modeste e non indefinitivamente.
Dal punto di vista della sostenibilità nemmeno la “green economy” è priva di
impatti ambientali negativi. Pensiamo al litio e al cobalto delle batterie, ai
minerali preziosi e rari che servono per gli apparecchi elettronici. Pensiamo
al semplice fatto che la
“digitalizzazione” richiede una quantità di energia che ha superato già oggi
quella dell’intero settore aereonavale. Il paradosso studiato
dell’economista William Stanley Jevons – più di centocinquanta anni fa – continua
ad essere vero: in un contesto
macroeconomico di tipo capitalistico i miglioramenti tecnologici che aumentano
l’efficienza di una risorsa fanno aumentare il consumo di quella risorsa.
Allora era il carbone utilizzato dalle macchine a vapore, oggi riguarda tutte
le materie prime e ogni tipo di tecnologie.
Insomma,
se vogliamo entrare in un processo virtuoso dobbiamo mettere nel novero delle
cose che non tutta la capacità lavorativa disponibile (i “posti di lavoro”
attualmente attivi) potrà essere impiegata nei processi produttivi di un nuovo
mondo ecologicamente sostenibile. Ma questa eventualità non dovrebbe essere
vissuta come una disgrazia per nessuno, poiché una vera transizione ecologica
deve contenere in sé – pena il suo stesso fallimento – l’obiettivo della diminuzione del lavoro umano necessario al buon
vivere dell’umanità. In tal modo, finalmente, obiettivi ecologici e
sociali si salderebbero: lasciare più spazio alla natura e liberare più tempo
di vita degli esseri umani.
Per realizzare questo sogno non serve tornare al genero
di Marx, Paul Lafargue, e alle sue tesi radicali sul “diritto
all’ozio”, basterebbe tornare al moderato Keynes che auspicava di
“mettere in comune il lavoro superstite” e quindi prevedeva una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro (“tre
ore al giorno potrebbero senz’altro bastare”) necessario a soddisfare le
esigenze primarie. Una illusione fin tanto che le innovazioni tecnologiche
saranno subordinate al dispositivo del profitto e non a ridurre le fatiche dei
lavoratori. Liberati
dall’ossessione di produrre sempre più cemento e acciaio, di scavare miniere e
sintetizzare nuovi materiali, di assemblare, confezionare e distribuire in
tempo reale oggetti inutili e dannosi… potremmo pensare ad altro: alla cura di
noi stessi, degli altri, del pianeta.
Quel
micidiale strumento di alienazione e distruzione
Vista così, la transizione ecologica non dovrà essere
solo una riconversione degli apparati produttivi, ma una trasformazione sociale
profonda capace di mettere in discussione cosa, quanto, come, dove e verso
quali esigenze umane indirizzare la cooperazione sociale e la conoscenza
scientifica. Non solo. Dovrà cambiare anche il sistema di riconoscimento
sociale e di remunerazione (diretto, indiretto, simbolico) delle attività umane
di produzione e riproduzione. Come ha scritto Laura Pennacchi (il manifesto 14
settembre 2021) dovremo riscoprire la triplice valenza del lavoro:
antropologica ed etica, oltre che economica. Vale a dire: il lavoro deve servire a realizzare le proprie
capacità, a relazionarsi con gli altri, a produrre benessere per tutti e tutte.
Costretto nel giogo
del lavoro salariato, eterodiretto dagli interessi del capitale, il lavoro
umano subordinato è diventato un micidiale strumento di alienazione personale e
di distruzione della natura.
L’unico modo per ridare centralità al lavoro è quello di riconsiderare la sua
funzione sociale. La “transizione ecologica” potrebbe essere il punto di
appoggio di una leva trasformativa dei rapporti sociali a partire da quelli di
produzione.
Molte delle vertenze aziendali che segnano la
“ripartenza” post-covid, sono originate fondamentalmente dalle contraddizioni
generate da catene di creazione del valore allungate a dismisura (favorite
dagli accordi di libero scambio) che portano a delocalizzare le attività povere
e sporche nei Sud del mondo, da una parte, e a importare bastimenti di merci a
basso prezzo per alimentare i mercati dei paesi ricchi, dall’altra. Un
equilibrio che in un modo o nell’altro pagano i lavoratori e gli abitanti di
ogni parte del mondo e che conviene solo ai pochi conglomerati (finanziari e
industriali) transnazionali che controllano anche la ricerca scientifica, le
innovazioni tecnologiche e le politiche di welfare degli stati.
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