giovedì 21 febbraio 2013

Ina-case, quando l’utopia divenne (quasi) realtà – Carlo Olmo


Cosa è stato il piano Ina-Casa? L’immagine forse più chiara la si ha da un aereo che atterra a Torino, Milano, Roma, Bari o, se fosse possibile, a Carbonia, a Capri o a Cannobio. Al di là della città storica, le uniche parti della città contemporanea, quella della dispersione insediativa, che, ancora oggi, hanno forma sono quelle pubbliche: e dentro queste ancor più i quartieri realizzati nei quindici anni (1949-1963) dell’Ina Casa. Approvata il 24 febbraio 1949, dopo un iter parlamentare di otto mesi, preceduta e accompagnata da molti, altri piani o proposte – da quella di Puggioni a quella di Miniati, da quella di Bottoni a quella di Diotallevi e Marescotti – il piano prende avvio il 7 luglio dello stesso anno con il primo cantiere a Colleferro. Nel maggio dell’anno successivo sono già avviati 414 cantieri. A pieno regime il piano realizzerà settimanalmente 2800 alloggi, assegnando ogni sette giorni casa a 560 famiglie. Dal 1950 a tutto il 1962 i 20 mila cantieri del piano hanno impegnato 102 milioni di giornate lavorative, corrispondenti a 40 mila lavoratori edili l’anno. Dei 17 mila architetti e ingegneri italiani attivi in quegli anni, un terzo è coinvolto nel piano. Numeri importanti che nascondono scelte e soluzioni ancor più interessanti. Perché dal nostro aereo in atterraggio si coglie così tanto la differenza tra città pubblica e città e se vogliamo, privata, il contrario dell’ideologia del mercato instillataci ormai da decenni?

Il piano Ina-Casa nasce da storie individuali e collettive di un’Italia in guerra: le storie di Amintore Fanfani e di Filiberto Guala, di Arnaldo Foschini e di Corrado Bozzoni, per non fermarsi che ai principali responsabili della legge e della sua attuazione. Ma anche le storie del cristianesimo sociale, del socialismo di impronta Fabiana, del comunitarismo Olivettiano, del collettivismo comunista, per non citare che i più importanti movimenti di pensiero coinvolti nel dibattito che precede e accompagna l’approvazione della legge. La gestione decentrata dei progetti individua poi su un’ipotetica carta d’Italia, dove e come le diverse matrici hanno maggiormente influenzato le realizzazioni. Con, però, alcune radici comuni.

Pensare la città per quartieri non è certo un’idea originale. Nasce alla fine dell’Ottocento, ma si consolida, a partire soprattutto dalla Germania prenazista, attraverso l’esperienza che si chiamerà architettura razionalista. Al centro di quelle esperienze, come del Piano Ina, ci sono alcuni principi: la progettazione integrale di esterno ed interno, la centralità della distribuzione – che nasce dalle infinite discussioni sulla casa minima – l’importanza dell’integrazione tra casa e servizi per poter parlare di un abitare e non solo… di un posto per dormire, la centralità dello spazio pubblico, dei luoghi di incontro per realizzare davvero un’idea di cittadinanza e non solo di residenza. Idee tutte che si ritrovano, in maniera certo diseguale, nei progetti che l’ufficio, diretto sino al 1952 da Adalberto Libera, doveva insieme indirizzare con normative tipo e poi approvare. Idee che spiegano come al momento delle scelte dei responsabili del Piano, siano stati interpellati e cerchino di fare parte del gruppo che ne indirizzava gli esiti, personaggi forse inattesi come ad esempio Giò Ponti a Milano, Gabetti e Isola e Mollino a Torino, Quaroni a Matera e a Roma…

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