lunedì 11 maggio 2015

L' occhio del leopardo - Henning Mankell

uno dei libri "africani" di Mankell, uno dei primi scritti e pubblicato solo recentemente.
anche qui, come per tutti i suoi libri, qualsiasi sia il numero delle pagine, non ti annoi mai.
due storie che stanno insieme, parallele, le gioventù in Svezia, e poi l'Africa, che non è quella da cartolina.
come in Mia Couto (qui), gli animali hanno un ruolo fondamentale.
astenersi chi cerca letteratura d'evasione - franz





Qual è il sottile anello di congiunzione tra un rigido inverno nevoso svedese e il tripudio di colori di un tramonto africano? Su due piedi saremmo portati a dire che non esiste, che non può esistere nulla che leghi due mondi così diversi. Hans Olofson, protagonista dell’ultimo romanzo di Henning Mankell, L’occhio del leopardo, ci dimostra l’esatto contrario.
Hans cresce in Svezia, con l’unica compagnia del padre ex marinaio; la madre non l’ha mai conosciuta, è scappata via quando lui era ancora troppo piccolo per capire. Già da piccolo Hans sa che non potrà restare a lungo nella sua terra natia: ha troppa voglia di scoprire quelle terre esotiche e lontane che il padre gli ha fatto conoscere tramite racconti dei suoi viaggi. E a un certo punto della sua vita questo desiderio diviene necessità impellente. Inseguendo un sogno non suo, Hans decide di fare le valigie e partire per lo Zambia, verso la missione umanitaria di Mutshatsha…

Forse per parlare dell’Africa di oggi, delle sue temperature estreme e della sua profonda disperazione, c’era bisogno di una voce alternativa. Uno svedese, ad esempio, avvezzo ai climi freddi e alla desolazione, alle immense distanze e all’aridità di certi ambienti e di certe famiglie. Hans Olofson è finito in Africa per caso. Dopo aver passato l’infanzia e l’adolescenza in un piccolo villaggio lontano dal mare, in una vecchia e scricchiolante casa di legno, con lo spettro di una madre mai conosciuta e il relitto di un padre boscaiolo e alcolizzato, decide a un certo punto di mettersi in viaggio. Quando compie questo suo primo passo verso l’ignoto, Hans ha diciotto anni e della vita non sa nulla. Anche le sue informazioni sull’Africa sono sommarie e intrise di luoghi comuni. Il sentiero che si è prefissato di seguire non è il suo cammino, ma quello sognato da una sua grande amica, Janine, che lo ha accompagnato lungo un tratto scosceso della sua adolescenza e che, prima di morire, sognava di raggiungere la missione di Mutshatsha, in Zambia. 
Hans è solo un ragazzino che ha perso tutto, che anzi non ha mai avuto nulla, e sta inseguendo il sogno di un’altra persona, eppure verrà stregato dall’Africa, dalle profonde contraddizioni della sua popolazione costantemente altalenante tra la sottomissione e la ribellione, ma anche dalla grandiosità dello spirito selvaggio dell’Africa, che come gli occhi di un leopardo appostato nella boscaglia, ti trafigge e ti lascia senza fiato. In quel continente ferito e lacerato Hans rimarrà diciotto anni, troverà un’occupazione in una fattoria di Lusaka, al servizio di uomini bianchi, figli di coloni che non vogliono più andar via nonostante l’indipendenza del Paese e il pericolo di morte. Ma non smetterà mai di inseguire il demone nero dell’Africa, la sua malattia che gli fa ribollire il sangue e che lo fa naufragare come un vecchio marinaio, su un letto sfatto e febbricitante di malaria. 
Hans Olofson, come Henning Mankell, ha un piede nella neve e uno nella sabbia rovente africana e vive, come il protagonista di questo suo racconto, in equilibrio tra la Svezia e l’Africa. L’autore infatti a 22 anni ha intrapreso il suo viaggio di formazione attraverso il continente nero approdando a Maputo, in Mozambico, dove oggi dirige il Teatro Avenida. Noto per la sua serie poliziesca dedicata al commissario Kurt Wallander e soprattutto per aver dato avvio in Italia al filone del “GialloSvezia”, Mankell dispiega in queste pagine vibranti tutta la sua abilità di scrittore a tutto tondo, inserendosi pienamente nella tradizione del romanzo psicologico e di formazione. Il racconto si sviluppa infatti su due piani narrativi che si alternano, entrambi scritti in prima persona, uno dal punto di vista dell’adolescente che è cresciuto tra i boschi della Svezia, l’altro dal punto di vista del bwana, l’uomo bianco africano. Un racconto che rasenta le altezze di Céline e Conrad, quando racconta della malaria e del naufragio spirituale dell’uomo, ma anche la profondità di pensiero di Lobo Antunes, quando si interroga sulla lenta agonia del continente africano.

…Entretejida con la trama africana, el autor intercala los recuerdos de la niñez de Olofson: la ausencia de la madre que le abandona a poco de nacer, el padre marinero que echa el ancla para cuidar de él amarrándose a la bebida, Sture, el compañero al abandona por timidez cuando más lo necesita y Janine, la predicadora sin nariz marginada dentro de la propia ciudad.
Las idas y venidas de la narración entre pasado y futuro son continuas formando dos líneas temporales que van resolviendo uno a uno todos los misterios de la narración que finaliza de una forma redonda, plena, sin flecos. UnMankell inmenso crea unos personajes tan vivos y con una vida interior tan consecuente que nos parece estar leyendo las memorias de unos seres reales.
La crítica social subyace tras todo el relato. Como es propio de autores suecos reniega del papel salvador de los nórdicos en el mundo y desnuda la corrupción política, moral, social y económica de sus compatriotas tanto en su país como en las supuestas ayudas al desarrollo africano.
Resumiendo, una novela de conciencia, didáctica, instructiva, desgarradora que nos abre los ojos de la realidad africana y nórdica en alta definición. Las vísceras que Mankell enseña no gustarán a muchos pero de ellas estamos hechos. El equilibrio perfecto entre literatura y compromiso social.

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