Le case dei killer di Abu Khdeir non saranno demolite, quelle palestinesi sì
Le case degli assassini di Mohammed Abu Khdeir, estremisti israeliani, non saranno demolite. Lo ha stabilito ieri la Corte Suprema israeliana, in linea con il diritto internazionale che vieta la punizione collettiva come forma di rappresaglia.
Perché è una notizia? Perché
nello stesso giorno le famiglie di quattro palestinesi responsabili di attacchi
con i coltelli hanno ricevuto ordini di demolizione delle proprie abitazioni. L’ennesimo caso di una giustizia, quella
israeliana, che distingue sulla base dell’appartenenza etnica. A ricevere
gli ordini di demolizione sono stati i familiari di tre giovani palestinesi che
il 16 giugno hanno compiuto un attacco con un coltello alla port di Damasco,
uccidendo una soldatessa israeliana: il 18enne Baraa Ibrahim Saleh, il 18enne
Adel Hassan Ahmad Ankush e il 19enne Usama Ahmad Ata.
Il
loro villaggio, Deir Abu Mashaal, vicino Ramallah, fu sottoposto a giorni di
coprifuoco, chiusure da parte dell’esercito israeliano e raid, che portarono a
pesanti scontri tra residenti e soldati.
La richiesta di demolizione
delle case dei tre killer di Mohammed era stata mossa dalla famiglia Abu
Khdeir: Yosef
Haim Ben David condannato all’ergastolo e al pagamento di un
risarcimento di circa 42mila dollari e due minorenni, uno condannato a vita e
l’altro a 21 anni di prigione. Ieri
la Corte Suprema ha detto no, giustificando la sentenza con il tanto tempo
trascorso da allora. I giudici hanno specificato che la legge israeliana
autorizza la demolizione di case di proprietà di persone “sospettate di atti di
terrorismo” e quelle dei loro complici, che si tratti di israeliani o
palestinesi.
Così
in realtà non è: delle decine di abitazioni demolite in questi anni nessuna
appartiene a cittadini israeliani ebrei ma solo a palestinesi. E in ogni caso si tratta di una misura
punitiva vietata dal diritto internazionale perché forma di punizione
collettiva contro persone che non hanno commesso alcun crimine. Una
forma punitiva che Israele ha usato più volte nella sua storia e criticata
spesso anche dai alcuni esponenti dei vertici politici e militari che non la
considerano affatto un deterrente, quanto piuttosto un ulteriore strumento di
accensione delle tensioni.
Sono trascorsi esattamente tre
anni dall’omicidio del giovane Mohammed Abu Khdeir, adolescente palestinese di
16 anni residente a Shuafat, Gerusalemme. Erano i giorni caldi e violenti che
precedettero l’offensiva militare israeliana su Gaza: l’esercito israeliano dai primi di giugno stava
compiendo una pesante campagna militare contro i Territori Occupati, a seguito
del rapimento di tre coloni israeliani a Halhul, vicino Hebron.
Solo
dopo emerse che il governo e l’esercito israeliani sapevano
già che i tre erano già morti, rendendo quella campagna di
ricerca una scusa per stringere la morsa sui Territori e preparare l’attacco
contro Gaza. Tra le vittime di quella violenza anche Mohammed: il primo luglio fu rapito di
fronte alla sua casa a Shuafat da un gruppo di israeliani, portato in un bosco,
costretto a ingerire benzina e poi dato alle fiamme.
Una
morte atroce che creò sdegno e che lo crea ancora oggi. Il clima di
rappresaglia e violenza nei confronti della popolazione palestinese era
fomentato dalla classe politica israeliana e fomentato da manifestazioni e
attacchi contro i palestinesi, in particolare a Gerusalemme.
Lo scorso anno il padre di
Mohammed, Hussein, accusò la giustizia israeliana di due pesi e due misure dopo
che il tribunale aveva emesso la sentenza a 21 anni di carcere per il secondo
minorenne: “Le corti israeliane –
disse – hanno due facce: una per i palestinesi e una per gli israeliani. Se un
bambino palestinese lancia una pietra viene condannato ad anni di prigione, ma
quando un colono israeliano brucia vivo un palestinese prende 21 anni”.
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