Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il
suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza.
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi
più impellenti è una civiltà ferita.
Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così
come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i
due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del
proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione»
come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di
giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa,
tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.
L'Europa è indifendibile.
Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli
strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.
Grave è il fatto che «l'Europa» è moralmente e spiritualmente
indifendibile.
Oggigiorno poi, risulta che non sono soltanto le masse popolari europee che
la incriminano, ma l'accusa viene mossa a livello mondiale da milioni di uomini
che dalle cave della schiavitù si ergono a giudici.
Si può ammazzare in Indonesia, torturare nel Madagascar, imprigionare in
Africa Nera, seviziare nelle Antìlle. I colonizzati sanno ormai di disporre,
nei confronti dei colonialisti, di un vantaggio: sanno che i loro «maestri»
provvisori mentono.
Che i loro maestri sono perciò deboli.
E dato che oggi mi è stato chiesto di parlare della colonializzazione e
della civilizzazione, affrontiamo direttamente la menzogna principale dalla
quale proliferano tutte le altre.
Colonizzazione e civilizzazione?
Il rischio più comune in questa materia è quello di essere vittima in buona
fede di una ipocrisia collettiva, abile a porre i problemi in modo sbagliato
per legittimare meglio le soluzioni odiose che propone.
Riteniamo dunque che l'essenziale in questo momento, consiste nel vedere
chiaro, pensare con chiarezza, impegnarsi ad intendere con coraggio, rispondere
in modo esauriente alla semplice domanda iniziale: che cos'è propriamente la
colonizzazione? Si tratta di convenire su quello che essa non può essere; né
evangelizzazione, né impresa filantropica, né volontà di combattere le
frontiere dell'ignoranza, malattie, tirannia, né propagazione dell'opera
divina, né estensione del diritto. Bisogna ammettere, in modo definitivo, senza
temere per le conseguenze, che il tutto è opera di avventurieri, di pirati, di
commercianti di spezie, di armatori, di cercatori d'oro e di mercanti spinti da
appetiti vari, dalla fame, dalla forza e dall'ombra malefica di una forma di
civiltà che, per costrizioni interne ad un punto della sua storia, è stata
obbligata a stendere su scala mondiale la concorrenza delle sue economie
antagoniste.
Il seguito della mia analisi trova che l'ipocrisia è di data recente. Né
Cortez che scopre il Messico dall'alto del grande Téocalli, né Pizarro
davanti a Cuzco, (ancor meno Marco Polo di fronte a Cambaluc),
si propongono come furieri di un ordine superiore, anche se uccidono,
saccheggiano, esibiscono elmi, lance, cupidigia; i baveur (1)
sono arrivati più tardi; il maggior responsabile di questo è il pedantismo
cristiano che ha posto le equazioni disoneste:
cristianesimo = civiltà; paganesimo = barbarie,
dalle quali si sono poi sviluppate le abominevoli conseguenze coloniali e
razziste le cui vittime dovevano per forza essere gli indiani, i gialli, i
negri.
Chiarito questo, affermo che mettere in contatto tra di loro diverse
civiltà sia una cosa buona; che mettere insieme mondi diversi sia eccellente;
che una civiltà appassisce se si ripiega su se stessa, per quanto forte risulti
la sua potenza intrinseca; che, in questo contesto lo scambio funge da ossigeno
e che la fortuna maggiore dell'Europa è di essere stata un incrocio; che
l'essere stata il luogo geometrico di tutte le idee, il ricettacolo di tutte le
filosofie, il punto di accoglienza di tutti i sentimenti, ha fatto di lei, la
migliore ridistributrice di energia.
A questo punto, la domanda che mi viene è la seguente: la colonizzazione ha
davvero favorito il contatto o se preferite, tra i vari modi
di stabilire il contatto era il migliore?
Io dico di no.
E dico che dalla colonizzazione alla civilizzazione la distanza è infinita;
che da tutte le spedizioni coloniali, da tutti gli statuti coloniali elaborati,
da tutte le circolari spedite, non si riuscirebbe a ricavare un solo valore
umano.
Innanzitutto, bisognerebbe studiare come la colonizzazione lavora per decivilizzare il
colonizzatore, per abbrutirlo nel senso proprio del termine, per degradarlo,
per risvegliare i suoi istinti più nascosti come l'invidia, la violenza, l'odio
razziale, il relativismo morale, e mostrare che ogni volta che in Vlet Nam una
testa viene mozzata e un occhio cavato e che in Francia si accetti la cosa, una
bambina violentata e che in Francia si accetti la cosa, un malgascio
suppliziato e che in Francia si accetti la cosa, è un valore acquisito per il
progresso della civiltà che diventa peso morto per la stessa civiltà, una
regressione universale che ha luogo, una cancrena che si sviluppa, un focolaio
infettivo che si estende, e che in fondo a tutti quei trattati violati, a tutte
quelle menzogne divulgate, a tutte quelle spedizioni punitive tollerate, a
tutti quei prigionieri costretti con legacci e «interrogatori», a tutti quei
patrioti torturati, in fondo a quell'orgoglio razziale incoraggiato, a quella
iattanza esibita, c'è il veleno istillato nelle vene dell'Europa e il progresso
lento ma sicuro dell'inselvatichimento del continente.
E così, un bel giorno, la borghesia viene svegliata da un formidabile
contraccolpo: le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i
torturatori inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti.
Ci si stupisce, ci si indigna. Si dice: «Come è curioso! Mah! È il nazismo,
passerà!». E si aspetta, si spera; si nasconde a se stessi la verità che è una
barbarie, la barbarie suprema, quella che corona, quella che riassume la
quotidianità delle barbarle; che è il nazismo, si capisce, ma che prima di
esserne stato vittima se ne è stato complice. Che lo si è sopportato — quel
nazismo — prima di subirlo, lo si è assolto, lo si è svisto e legittimato
perché finora era stato applicato ai soli popoli non europei; che quel nazismo
lo si è coltivato, e se ne è responsabili, e che esso assorda, perfora, pervade
goccia a goccia, prima di inglobare nelle sue acque rosse di tutti i crimini della
civiltà occidentale e cristiana
Sì, vale la pena di studiare, clinicamente, nei dettagli, le tattiche di
Hitler e dell'hitlerismo e di svelare al molto distinto, al molto umanista,
cristiano borghese del XX secolo, che custodisce in sé un Hitler nascosto, che
Hitler abita in lui ed è il suo demone, che se lo rifiuta, è per
mancanza di logica e che in fondo, ciò che non perdona ad Hitler, non è
il crimine come tale, il crimine contro l'uomo;
non è l'umiliazione dell'uomo in sé, ma il crimine contro l'uomo
bianco, il fatto di aver applicato all'Europa metodi coloniali finora riservati
agli arabi di Algeria, ai coolies dell'India e ai negri
d'Africa.
Questo è il grande rimprovero che indirizzo allo pseudo-umanesimo: di aver
troppo a lungo sminuito i diritti dell'uomo, di aver avuto e di avere ancora
nei riguardi dl questi, una concezione stretta, parcellizzata, parziale, da
partito preso e in definitiva, sordidamente razzista.
Ho parlato tanto dl Hitler perché lo merita; egli permette di ampliare la
visione, di cogliere il fatto che la società capitalistica, allo stato attuale,
è incapace di fondare un diritto delle persone, incapace altresì di fondare una
morale individuale. Che lo si voglia o no, in fondo al vicolo cieco Europa,
intendo l'Europa di Adenauer, di Schuman, Bidault e qualche altro, c'è Hitler.
In fondo al capitalismo, desideroso di succedersi, c'è Hitler. In fondo
all'umanesimo formale e alla rinuncia filosofica, c'è Hitler.
Infatti una delle sue frasi si impone: «non aspiriamo all'uguaglianza, ma
alla dominazione. Il paese di razza straniera dovrà ridiventare un paese di
servi, di braccianti agricoli, o di operai indistriali. Non si tratta di
sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e legittimarle».
Tutto ciò suona chiaro, altezzoso, brutale e ci piazza in piena barbarie
urlata! Ma facciamo un passo indietro.
Chi sta parlando? Ho vergogna a dirlo: è l'umanista occidentale, il
filosofo «idealista». È solo per caso che si chiama Renan e che questo sia un
brano tratto dal libro intitolato La Riforma Intellettuale e Morale,
che sia stato scritto in Francia all'indomani di una guerra voluta dalla
Francia, per fare trionfare il diritto sulla forza, la dice lunga sui costumi
borghesi.
«La rigenerazione delle razze inferiori o rese bastarde dalle razze
superiori sta nell'ordine provvidenziale dell'umanità. L'uomo del popolo, da
noi, è quasi sempre un nobile declassato; la sua mano pesante è concepita per
maneggiare la spada piuttosto che l'utensile servile. Piuttosto che lavorare,
egli sceglie di battersi, ritornando così al suo stato primario. Regere
imperio populus, ecco la nostra vocazione. Riversate questa divorante
attività sui paesi che come la Cina invocano la conquista straniera. Degli
avventurieri che disturbano la società europea, fate un ver sacrum,
uno sciame come quelli dei Franchi, dei Longobardi, dei Normanni, ognuno avrà
il suo ruolo. La natura ha fatto una razza di operai: la razza cinese, dotata
di una destrezza meravigliosa quasi del tutto sprovvista di sentimento di onore;
governateli con giustizia, prelevando per il bene di un tale governo una diaria
cospicua a vantaggio della razza conquistatrice, ed essa ne sarà soddisfatta;
una razza di lavoratori della terra è la negra; siate buoni ed umani nei suoi
confronti e tutto rimarrà nell'ordine. Un razza di maestri e di soldati è
quella europea. Riducete questa nobile razza a lavorare nell'ergastolo come
negri o cinesi ed essa si rivolterà. Da noi europei, ogni rivoltoso è in
qualche misura un soldato che ha mancato la sua vocazione, un essere fatto per
una vita eroica, che è stato destinato ad un lavoro contrario alla sua
natura, cattivo manovale, perfetto soldato. Sappiamo che la vita che spinge
alla rivolta i nostri lavoratori soddisferebbe un cinese, un fellah, esseri sprovvisti
di aspirazioni militari. Ognuno facesse ciò per cui è nato e tutto
andrà per il verso giusto».
Hitler? Rosenberg? No, Renan.
Ma facciamo ancora un altro passo indiero. È il politico demagogico.
Chi protesta? Nessuno che io sappia, quando il Signor Albert Sarraut, in un
discorso agli alunni della scuola coloniale insegna che sarebbe puerile opporre
alle imprese coloniali europee «un preteso diritto di occupazione e non so
quale altro diritto di feroce isolamento che farebbe morire in mani incapaci il
vano possesso di ricchezze non sfruttate».
Poi chi se la prende quando sente un certo R.P. Barde assicurare che i beni
di questo mondo, «se dovessero sempre rimanere ripartiti come lo sarebbero
senza l'influenza della colonizzazione, non risponderebbero né ai vari disegni
di Dio né alle giuste esigenze della collettività umana»?
Inteso, come lo afferma il suo confratello nel cristianesimo, il R.P.
Muller: «che l'umanità non deve, non può sopportare il fatto che l'incuria,
l'incapacità, la pigrizia dei popoli selvaggi lascino completamente
inutilizzate le ricchezze che Dio ha affidato loro affinché fossero messe al
servizio di tutti».
Nessuno dice niente.
Voglio dire: non uno scrittore riconosciuto, non un accademico, non un
predicatore, non un politico, non un crociato del diritto o della religione,
non un «difensore della persona umana».
Eppure, dalle bocche dei Sarraut, dei Barde, dei Muller e dei Renan, dalle
bocche di tutti coloro che giudicavano e giudicano lecito applicare ai popoli
extraeuropei e a beneficio delle nazioni più forti e meglio equipaggiate, «una
specie di esproprio per causa di utilità pubblica», era già Hitler che parlava!
Dove intendo approdare? A quest'idea: nessuno pratica la colonizzazione in
modo innocente nessuno colonizza impunemente; dico che una nazione che
colonizza, che una civiltà che giustifica la colonizzazione — quindi l'utilizzo
della forza — è già una civiltà malata, una civiltà moralmente colpita e che,
irresistibilmente di conseguenza in conseguenza, di negazione in negazione,
richiama il suo Hitler, ossia il suo castigo.
Colonizzazione: testa di ponte in una civiltà della barbarie dalla quale
può sbarcare la negazione pura e semplice della civiltà in qualunque momento.
[...]
Per me, richiamare alcuni dettagli di quelle schifose carneficine, non è il
segno di un piacere morboso, ma è perché di quelle teste umane mozzate, di
quelle raccolte di orecchie, di quelle case bruciate, di quelle invasioni
gotiche, di quel sangue che evapora, di quelle città che scompaiono sotto lame
di spade, non è facile sbarazzarsi. Sono la prova che la colonizzazione, lo
ripeto, rende disumano persino l'uomo più civile; che l'azione coloniale,
l'impresa coloniale, la conquista coloniale, fondata sul disprezzo
dell'indigeno e da questa giustificata, tende inevitabilmente a modificare
colui che la intraprende; che il colonizzatore che tranquillizza la propria
coscienza con l'abitudine a farsi dell'altro un'immagine da bestia, allenandosi
a trattarlo da bestia, tende in modo obiettivo a trasformare se stesso in
bestia. È quell'azione, quell'onda di ritorno della colonizzazione che era
importante segnalare.
Parzialità? Per niente. Tempo addietro di questi stessi fatti ci si vantava
e, sicuri di avere tutto sotto controllo, non si moderavano le parole. [...]
Sicurezza? Cultura? Formalismo giuridico? Aspettando la risposta, guardo e
vedo, ovunque si trovano faccia a faccia colonizzatori e colonizzati, la forza,
la brutalità, la crudeltà, il sadismo, lo scontro e, in parodia alla formazione
culturale, la produzione affrettata di funzionari subalterni, di servi, di
artigiani, di commessi operatori di commercio, di interpreti necessari al buon
andamento degli affari.
Ho parlato di contatti.
Tra il colonizzatore e il colonizzato, c'è posto solo per il lavoro duro,
l'intimidazione, la pressione, la polizia, l'imposta, il ladrocinio, lo stupro,
le imposizioni culturali, il disprezzo, Ia sfiducia, l'alterigia, la
sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse
avvilite.
Nessuno spazio per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di
sottomissione che trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in
guardia-ciurme, in frusta e l'indigeno in strumento di produzione.
Adesso tocca a me porre un'equazione:
colonizzazione=cosificazione
Sento la tempesta. Mi parlano di progresso, di «realizzazioni», di malattie
guarite, di innalzamento del livello di vita al di là delle aspettative.
Io parlo di società svuotate di se stesse, di culture calpestate, di
istituzioni minate, di terre confiscate, di religioni assassinate, di
magnificenze artistiche annientate, di straordinarie possibilità soppresse.
Mi portano a riprova le statistiche, i chilometri di strade costruite, i
canali, le ferrovie.
Io parlo di migliaia di persone sacrificate per la costruzione del
Congo-Océan. Parlo di coloro che, mentre sto scrivendo, stanno scavando con le
mani le fondamenta per il porto di Abidjan. Parlo di milioni di persone
allontanate con la forza dai loro dei, dalla loro terra, dalle loro abitudini,
dalla loro vita, dalla vita, dalla danza, dalla saggezza.
Parlo di milioni di persone alle quali si è inculcata abilmente la paura,
il complesso di inferiorità, il tremore, la genuflessione, la disperazione, il
servilismo.
Mi presentano trionfalmente tonnellate di cotone o di caffé esportate,
ettari di uliveti o di vigneti piantati.
Io parlo di economie naturali, di economie armoniose
e vitali, di economie a misura dell'uomo autoctono
disorganizzate, di colture di sussistenza distrutte, di sottoalimentazione
impiantata, di sviluppo agricolo finalizzato al solo beneficio delle metropoli,
di razzie di prodotti vari, di razzie di materie prime.
Sì vantano di avere soppresso gli abusi.
Anch'io parlo di abusi, ma per affermare che a quelli di prima — molto
realistici — se ne sono sovrapposti altri del tutto detestabili. Mi parlano di
tiranni autoctoni riportati alla ragione; io noto che, in linea generale, fanno
bella combutta con i nuovi e che comunque, dai precedenti ai nuovi, si è
stabilito a discapito dei popoli, un circuito di buoni affari e di complicità.
Mi parlano di civiltà, io parlo di proletariato e di mistificazione.
Per conto mio, faccio l'apologia sistematica delle civiltà paraeuropee.
Ogni giorno che passa, ogni diniego di giustizia, ogni manganellata della
polizia, ogni richiesta operaia affogata nel sangue, ogni scandalo insabbiato,
ogni spedizione punitiva, ogni cellulare delle forze speciali di sicurezza,
ogni poliziotto, ogni agente della milizia ci fa sentire il valore delle nostre
società tradizionali.
Erano delle società comunitarie, mai di tutti per il bene di pochi.
Erano delle società non solo ante-capitaliste come si sostiene, ma
anche anti-capitaliste.
Sono sempre state delle società democratiche, delle società cooperative e
fraterne.
Faccio l'apologia sistematica delle società distrutte dall'imperialismo.
Erano società di fatto senza pretesa ideologica alcuna. Non erano, malgrado
i loro difetti, né detestabili né condannabili. Si accontentavano di essere.
Per esse, non aveva senso né la parola fallimento né la parola disavventura.
Promettevano in modo integrale la speranza. [...]
Vado oltre e sostengo senza mistero che attualmente la barbarie dell'Europa
occidentale, incredibilmente grande, viene, in verità, sorpassata di gran lunga
da una sola: l'americana.
E qui no sto parlando di Hitler né del guardia-ciurma, né
dell'avventuriero, ma del «brav'uomo» della casa di fronte; non delle S.S., né
del gangster, ma dell'onesto borghese. Il candore di Léon Bloy si indignava
tempo addietro che degli imbroglioni, degli spergiuri, dei falsari, dei ladri,
dei prosseneti fossero incaricati di portare nelle Indie l'esempio di virtù
cristiana. Nel progresso di oggi, è proprio il detentore delle «virtù
cristiane» che — riuscendoci perfettamente — ha l'onore di amministrare oltremare
secondo i metodi dei falsari e dei torturatori.
Segno che la crudeltà, la menzogna, la bassezza, la corruzione, hanno
meravigliosamente invaso l'anima della borghesia europea.
Ripeto che non sto parlando né di Hitler, né delle S.S., né dei pogrom, né
dell'esecuzione sommaria, ma di quella reazione di sorpresa, di quel riflesso
ammesso, di quel cinismo tollerato, e se abbiamo bisogno di testimonianze, di
quella scena di isteria antropofagica alla quale ho potuto assistere
all'Assemblea nazionale Francese [...]
Or dunque, compagno, ti saranno nemici — in modo serio, lucido, e
conseguente — non tanto governatori sadici e prefetti torturatori, non solo
coloni flagellanti e banchieri ingordi, non solo truffatori politici
lecca-assegni e magistrati agli ordini, ma allo stesso modo, con la stessa
funzione, giornalisti fielosi, accademici gozzuti pieni di dollari e di
stupidagini, etnologi metafisicizzanti dogonnati, teologi strambi e belgi,
intellettuali ciarloni usciti ancora puzzolenti dalla coscia di Nietzsche o
paracadutati calender-figli-del-Re (2) da non si sa quale
Pleiade, i paternalisti, gli abbracciatori, i corruttori, i distributori di
pacche sulla spalla, i patiti di esotismo, i separatori, i sociologi agrari,
gli insonnicchiatori, i mistificatori, i diffamatori, i matagraboliseurs (3)
e in generale, tutti coloro che avendo un ruolo nella sordida divisione del
lavoro per la difesa della società occidentale e borghese, tentano in vari modi
e con l'uso dell'infamia di disgregare le forze del Progresso, — per poi negare
la possibilità del Progresso stesso — tutti sostegni del capitalismo, tutti
sostenitori dichiarati o vergognosi del colonialismo saccheggiatore, tutti
responsabili, tutti odiosi, tutti negrieri, tutti però, innestatoli
dell'agressività rivoluzionaria.
Spazziamo via tutti gli oscurantisti, tutti gli inventori di sotterfugi,
tutti i ciarlatani mistificatori, tutti i giostrai di parole. E non cerchiamo
di sapere se quei signori sono personalmente in buona o malafede, se hanno
buone o cattive intenzioni, se sono personalmente, intendo nella loro coscienza
intima, di Pietro o Paolo, colonialisti o no, l'essenziale è che la loro buona
fede soggettiva rimane scollegata completamente con la portata oggettiva e
sociale del cattivo lavoro che esercitano come cani da guardia del
colonialismo.
Note
(1) Coloro che invischiano con le loro
dicerie velenose.
(2) Personaggi de Le Mille e una
notte.
(3) Coloro che ruminano pensieri di
continuo nel cervello.
da qui
Nessun commento:
Posta un commento