(tradotto da Gianni Ellena)
(Versione abbreviata dell'intervento di John Pilger alla Palestine Expo di
Londra l'8 luglio 2017. Il suo film può essere visto qui sotto, in italiano, qui in inglese)
Una sera a cena chiesi di chi fossero le sagome di persone che vedevo in
lontananza, oltre il nostro perimetro.
“Arabi”, dissero, “nomadi”. Le parole erano quasi sputate fuori. Israele,
dicevano intendendo la Palestina, era stato per lo più una terra desolata e uno
dei grandi progetti dell’iniziativa sionista era stata quella di trasformare in
zona verde il deserto.
Usarono come esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, esportate in
tutto il mondo, quale trionfo sulla natura e sulla noncuranza umana.
Era la prima bugia. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti
appartenevano ai palestinesi che avevano lavorato il suolo ed esportato le
arance e le uve in Europa fin dal XVIII secolo. L’ex città palestinese di Jaffa
era conosciuta dai suoi abitanti precedenti come “la casa delle arance tristi”.
Nel kibbutz, la parola “palestinese” non si usava mai. Perché, chiesi. La
risposta fu un silenzio imbarazzato.
In tutto il mondo colonizzato, la sovranità reale dei popoli indigeni è
temuta da coloro che non possono mai del tutto coprire il fatto, e il crimine,
che stanno vivendo su terra rubata.
Il passo successivo è negare l’umanità della gente – come il popolo ebraico
sa fin troppo bene. Profanare la dignità, la cultura e l’orgoglio della gente
ne consegue logicamente, come pure la violenza.
A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel
Sharon nel 2002, ho attraversato strade piene di macchine schiacciate e case
demolite, per raggiungere il Centro Culturale Palestinese. Fino a quella
mattina vi si erano accampati i soldati israeliani.
Mi venne incontro la direttrice del centro, la scrittrice Liana Badr, i cui
manoscritti originali si trovavano sparsi e strappati sul pavimento. Il disco
rigido contenente la sua narrativa e una biblioteca di drammi e poesie erano
stati presi dai soldati israeliani. Quasi tutto era distrutto e insudiciato.
Non un solo libro si era salvato con tutte le pagine; non un singolo nastro
master di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.
I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sulle scrivanie, sui
ricami e sulle opere d’arte. Avevano spalmato le feci sui dipinti dei bambini e
scritto – con la merda – “Nato per uccidere”.
Liana Badr aveva le lacrime agli occhi, ma rimaneva indomita. Disse:
“Rimetteremo tutto a posto”.
Ciò che più fa infuriare quelli che colonizzano e occupano, rubano e
opprimono, vandalizzano e contaminano è il rifiuto delle vittime di
assecondarli. E questo è il tributo che tutti dovremmo pagare ai palestinesi.
Si rifiutano di abbassare la testa. Tirano avanti, aspettano – finché è ora di
combattere nuovamente. E lo fanno persino quando chi li governa collabora con
gli oppressori.
Nel bel mezzo del bombardamento israeliano di Gaza del 2014, il giornalista
palestinese Mohamed Omer non smise mai di comunicare. Lui e la sua famiglia
furono colpiti; lui si accodò per cibo e acqua e li portò tra le macerie.
Quando lo chiamavo, potevo sentire le bombe fuori dalla porta di casa sua. Si è
rifiutato di abbassare la testa.
Gli articoli di Mohammed, illustrati da fotografie esplicite, sono stati un
modello di giornalismo professionale che ha svergognato i reportage conformi e
vili del cosiddetto mainstream in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La nozione
di obiettività della BBC – che amplifica miti e menzogne delle autorità, una
pratica di cui è orgogliosa – viene ogni giorno smascherata da gente come
Mohamed Omer.
Sono più di 40 anni che testimonio il rifiuto del popolo della Palestina di
compiacere i suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione
Europea.
Dal 2008 solo la Gran Bretagna ha concesso permessi per l’esportazione di
armi e missili, droni e fucili da cecchino in Israele per il valore di 434
milioni di sterline.
Coloro che, senza armi, si sono ribellati a tutto questo, quelli che si
sono rifiutati di abbassare la testa, sono tra i palestinesi che ho avuto il
privilegio di conoscere: il mio amico, il defunto Mohamed Jarella, che lavorava
per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA, che nel 1967 mi mostrò un campo
profughi palestinese per la prima volta. Era una gelida giornata invernale e
gli scolari erano scossi dal freddo. “Un giorno…” mi disse. “Un giorno…”
Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane indiscussa, che descrisse la
tolleranza che esisteva in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a
quando, mi disse, “i sionisti hanno voluto uno stato a spese dei palestinesi”.
La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, il cui obiettivo era di
raccogliere fondi per la chirurgia plastica di bambini sfigurati da pallottole
e da schegge di proiettili israeliani. Il suo ospedale fu raso al suolo dalle
bombe israeliane nel 2014.
Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, le cui cliniche per bambini a Gaza –
bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.
Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio
vicino a Gerusalemme designato come “Zona A e B”, il che significa che la terra
è stata dichiarata per soli ebrei. I loro genitori vi avevano vissuto; i loro
nonni vi avevano vissuto. Lì oggi i bulldozer stanno costruendo strade per soli
ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.
Era passata la mezzanotte quando Fatima, incinta del secondo figlio, accusò
dolori di parto. Il bambino era prematuro. Quando arrivarono ad un posto di
blocco, con l’ospedale in vista, il giovane soldato israeliano disse che
avevano bisogno di un altro documento.
Fatima stava sanguinando copiosamente. Il soldato, ridendo, imitava i suoi
gemiti, poi disse: “Andate a casa”. Il bambino nacque lì, in un camion. Era blu
dal freddo e presto, senza cure, morì di ipotermia. Il nome del bambino era
Sultan.
Per i palestinesi, queste sono storie note. La domanda è: perché non sono
note a Londra e Washington, Bruxelles e Sydney?
La Siria, la più recente causa per liberali – una causa alla George Clooney
– è foraggiata generosamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, nonostante i
beneficiari, i cosiddetti ribelli, siano dominati da fanatici jihadisti, il
prodotto dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq e della distruzione della
moderna Libia.
Tuttavia, la più lunga occupazione e resistenza dei nostri tempi non è
riconosciuta. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si svegliano e
definiscono Israele uno stato dove vige l’apartheid, come è avvenuto
quest’anno, tutti s’indignano – ma non contro uno stato il cui “nucleo
fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione ONU che ha osato rompere
il silenzio.
“La Palestina”, affermava Nelson Mandela, “è la più grande questione morale
del nostro tempo”.
Perché questa verità è soppressa, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno
dopo anno?
Su Israele – lo stato dell’apartheid colpevole di crimini contro l’umanità
e di aver infranto più leggi internazionali di chiunque altro – il silenzio
persiste tra coloro che sanno e il cui compito è quello di dire le cose come
stanno.
Su Israele, il giornalismo è così intimidito e controllato da un pensiero
unico che richiede il silenzio sulla Palestina mentre il giornalismo corretto è
diventato dissidenza: un sotteraneo metaforico.
Una sola parola – “conflitto” – agevola questo silenzio. “Il conflitto
arabo-israeliano”, declamano i robot leggendo il telesuggeritore. Quando un
giornalista veterano della BBC, un uomo che conosce la verità, si riferisce a
“due narrative”, la stortura morale è completa.
Non c’è conflitto, né due narrazioni, con il loro fulcro morale. C’è
un’occupazione militare imposta da una potenza nucleare sostenuta dal potere
militare più grande sulla terra; e c’è un’ingiustizia epica.
La parola “occupazione” può essere vietata, cancellata dal dizionario. Ma
la memoria storica della verità non può essere bandita: l’espulsione sistemica
dei palestinesi dalla loro patria. “Piano D” lo chiamarono gli israeliani
nel 1948.
Lo storico israeliano Benny Morris racconta come a David Ben-Gurion, primo
primo ministro Israeliano, sia stato chiesto da uno dei suoi generali: “Cosa
dobbiamo farne degli arabi?”
Il primo ministro, scrive Morris, “fece un gesto energico e dispregiativo
con la sua mano”. “Scacciateli!” disse.
Settant’anni dopo, questo crimine è cancellato nella cultura intellettuale
e politica dell’Occidente. O è discutibile o semplicemente controverso.
Giornalisti profumatamente pagati accettano di buon grado i viaggi governativi
israeliani, l’ospitalità e l’adulazione, e poi sono aggressivi nelle loro
proteste di indipendenza. Il termine “utili idioti”, fu coniato per loro.
Nel 2011 mi colpì la facilità con cui uno dei più acclamati scrittori
britannici, Ian McEwan, un uomo immerso nel bagliore dell’illuminazione
borghese, accettò il “Jerusalem Prize” per la letteratura nello stato
dell’apartheid.
McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sud Africa dell’apartheid? Anche lì
danno via premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo atto con
alcune parole subdole sull’indipendenza della “società civile”.
Propaganda – come quella che McEwan ha elargito, con la simbolica
bacchettata sulle mani dei suoi ospiti felici – è un’arma per gli oppressori
della Palestina. Come lo zucchero, oggi si insinua dappertutto.
Comprendere e analizzare punto per punto la propaganda di stato e culturale
è il nostro compito più importante. Stanno facendoci marciare al passo dell’oca
verso una seconda guerra fredda il cui obiettivo finale è quello di
sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.
Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato privatamente per più di
due ore alla riunione del G20 ad Amburgo, a quanto pare sulla necessità di non
combattere tra di loro, gli obiettori più vociferi sono stati coloro che
avevano sequestrato il liberalismo, come lo scrittore politico sionista del
Guardian.
“Non c’è da meravigliarsi che ad Amburgo Putin sorridesse”, ha scritto
Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo obiettivo principale: rendere
nuovamente debole l’America”. Aggiungere il sibilo del malvagio Vlad.
Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco
imperiale della guerra. Ciò che Ian McEwan chiama “società civile” è diventato
una ricca fonte di propaganda correlata.
Prendiamo un termine spesso usato dai tutori della società civile –
“diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è
stato quasi del tutto svuotato del suo significato e del suo scopo.
Come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina
sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG aziendali che loro
stessi finanziano e che pretendono di avere un’autorità morale idealista.
Perciò, quando Israele è chiamato dai governi e dalle ONG a “rispettare i
diritti umani” in Palestina, non succede nulla, perché tutti sanno che non c’è
niente da temere; nulla cambierà.
Guardate al silenzio dell’Unione Europea, che fa i comodi di Israele,
mentre si rifiuta di mantenere i propri impegni nei confronti del popolo di
Gaza, come quello di tenere aperto un corridoio vitale al confine con la
frontiera di Rafah: una misura accettata come parte del suo ruolo nella
cessazione dei combattimenti nel 2014. Un porto marittimo per Gaza, un progetto
concordato da Bruxelles nel 2014, è stato abbandonato.
La commissione ONU che ho citato – il cui nome completo è la Commissione
Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto
Israele come, e cito, “progettato per lo scopo principale” di discriminazione
razziale.
Milioni lo capiscono. Quello che i governi di Londra, Washington, Bruxelles
e Tel Aviv non possono controllare è che l’umanità, di base, sta cambiando
forse come mai prima.
Le persone in tutto il mondo sono in fermento e sono più consapevoli che
mai, a mio avviso. Alcuni sono già in aperta rivolta. L’atrocità della Torre di
Grenfell a Londra ha unito le comunità in una vibrante resistenza quasi a
livello nazionale.
Grazie ad una campagna popolare, l’autorità giudiziaria sta oggi esaminando
le prove per un possibile procedimento penale nei confronti di Tony Blair per
crimini di guerra. Anche se questo dovesse fallire, è uno sviluppo cruciale,
che demolisce un’altra barriera tra il pubblico e il suo riconoscimento della
natura vorace dei crimini del potere di stato – il sistematico spregio per
l’umanità perpetrato in Iraq, nella Torre di Grenfell, in Palestina. Quelli
sono i puntini in attesa di essere collegati.
Per la maggior parte del XXI secolo, la frode del potere aziendale che si
fingeva democrazia è stata dipendente dalla propaganda della distrazione: in
gran parte per il culto del “me-ismo” progettato per disorientare il nostro
senso di guardare agli altri, di agire insieme, di giustizia sociale e
internazionalismo.
Classe, genere e razza sono stati dissociati. Il personale è diventato il
politico e i media il messaggio. La promozione del privilegio borghese è stata
presentata come politica “progressiva”. Non lo era. Non lo è mai. È la
promozione del privilegio e del potere.
Tra i giovani, l’internazionalismo ha trovato un nuovo e vasto pubblico.
Guardate al sostegno per Jeremy Corbyn e l’accoglienza che il circo del G20 ha
ricevuto ad Amburgo. Nel capire la verità e gli imperativi
dell’internazionalismo e nel rifiutare il colonialismo, possiamo comprendere la
lotta della Palestina.
Mandela affermava: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è
incompleta senza la libertà dei palestinesi”.
Nel cuore del Medio Oriente c’è la storica ingiustizia in Palestina. Fino a
quando non si risolve, dando ai palestinesi la loro libertà e patria, ed
uguaglianza di fronte alla legge di israeliani e palestinesi, non ci sarà pace
nella regione, o forse da nessuna parte.
Quello che Mandela intendeva dire è che la libertà stessa è precaria,
finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzare gli
altri, imprigionare e uccidere gli altri, nel nostro nome. Israele capisce di
certo la minaccia che un giorno potrebbe dover essere normale.
Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, conosciuto
ai giornalisti come un propagandista professionista e perché l'”enorme bluff”
delle accuse di antisemitismo, come lo ha chiamato Ilan Pappe, è riuscito a
scoordinare il partito laburista e minare Jeremy Corbyn come leader. Il punto è
che non ci è riuscito.
Ora gli eventi si muovono con rapidità. La notevole campagna di
boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) sta avendo successo, giorno per
giorno; paesi e città, sindacati e organismi studenteschi la stanno avallando.
Il tentativo del governo britannico di vietare ai consigli comunali di
applicare il BDS è fallito nei tribunali.
Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si alzeranno di
nuovo, e lo faranno, forse non ci riusciranno in un primo momento – ma infine
ci riusciranno, se noi capiremo che loro sono noi e noi siamo loro.
da qui
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