giovedì 13 luglio 2017

sulla morte di Doddore Meloni

forse avevano finito i braccialetti elettronici


La morte di Doddore Meloni è una sconfitta senza attenuanti per la magistratura sarda – Vito Biolchini

No, non si può certo dire che Doddore Meloni fosse un “leader indipendentista”: perché tutte le volte che negli ultimi anni era riuscito a mettere in piedi una lista prendeva letteralmente una manciata di voti, molti meno anche delle altre formazioni della grande galassia dell’autodeterminazione che pure non hanno mai brillato per consenso. La sua era piuttosto una battaglia solitaria, una avventura al limite dell’autolesionismo, suo e della causa che diceva di voler sostenere.
La Repubblica di Malu Entu, i Doddollari, i misteriosi rapimenti e altre trovate simili (molto amate dai giornalisti ma molto meno dai sardi, che alle urne lo hanno sempre, giustamente, snobbato), erano solo delle performances che paradossalmente finivano per riportare l’ideale indipendentista in quel ghetto dal quale faticosamente stava provando ad uscire. Non posso nascondermi che per anni ho pensato che se qualcuno avesse voluto screditare l’idea di indipendentismo, avrebbe dovuto fare esattamente quello che Doddore stava facendo. Cioè finire sempre sui giornali grazie a iniziative controverse, spesso dal sapore esclusivamente pubblicitario.
Ma questo era il personaggio: molti titoli, tante provocazioni (alcune sacrosante – come l’uso del sardo nelle aule giudiziarie -, altre meno), e alla fine sempre pochi, pochissimi voti.
Com’era possibile quindi avere paura di lui? Era evidente a tutti che se c’era qualcuno in Sardegna che non poteva rappresentare alcuna minaccia per lo Stato italiano, questo era proprio Doddore Meloni. Perché allora la magistratura sarda ha gestito la sua detenzione come peggio non si poteva?
Fin dalle modalità di arresto (assolutamente spropositate) si è capito che la permanenza in carcere di Doddore Meloni è stata approcciata in maniera discutibile. Non solo: una volta iniziato lo sciopero della fame e della sete, è apparso chiaro a tutti che la situazione rischiava di degenerare. E non si può dire certo che la politica e l’opinione pubblica abbiano taciuto: non solo le sigle indipendentiste ma anche altre (come Forza Italia) hanno chiesto alla magistratura di valutare l’opportunità che la detenzione di Meloni in carcere venisse sospesa.
Non solo: ci sono state delle associazioni che hanno detto chiaro e tondo che Doddore non poteva più stare in cella, ma ci sono stati anche dei magistrati che hanno messo nero su bianco il contrario. Chissà se stanotte prenderanno sonno.
Forse pensavano di avere a che fare con un personaggio; ma una volta finito in carcere Doddore Meloni è diventato semplicemente una persona: non un leader politico ma un uomo di 74 anni che aveva intrapreso uno sciopero della fame e della sete e che come tale doveva essere trattato. Ad essere preservata doveva essere innanzitutto la sua salute e non certo l’onore di uno Stato che, anche se Meloni si era dichiarato “prigioniero politico”, da lui non poteva subire alcun danno.
Questo sacrificio di Doddore Meloni non solo è inutile ma andava assolutamente evitato: perché non c’è niente di più prezioso della vita umana e lo Stato la deve sempre preservare. La magistratura isolana, colpita dalla sindrome di Creonte senza che davanti non ci fosse alcuna Antigone, è invece rimasta sorda alle sollecitazioni di chi chiedeva di affrontare questa situazione in maniera radicalmente diversa: più giusta e più umana.
Doddore Meloni non poteva e non doveva stare in carcere.
Così non è andata e la rabbia ora è tanta: un uomo è morto e la magistratura e le forze dell’ordine (a prescindere da ciò che dirà l’autopsia) non hanno capito che la situazione rischiava di degenerare: e questo è molto, molto grave. Adesso sarebbe opportuno che qualcuno fosse chiamato a risponderne, se non in sede giudiziaria, almeno in quella politica. A tutela di tutti i cittadini (e non solo degli indipendentisti) che con questo potere dello Stato devono fare i conti ogni giorno.
Condoglianze alla famiglia di Doddore Meloni e ai suoi compagni di strada.


Doddore Meloni è stato fatto morire in carcere


Meloni venne fermato mentre andava spontaneamente a consegnarsi al carcere di Massama. Dal giorno stesso aveva iniziato lo sciopero della fame e della sete dichiarandosi “detenuto politico belligerante”. Un'iniziativa che aveva fatto storcere il naso a molti, l'ennesimo episodio in cui l'eccentrico Doddore la “sparava grossa”. Come la volta che occupò l'isola di Malu Entu proclamando la “Repubblica Indipendente di Malu Entu”, dando comunicazione alle Nazioni Unite e stampando moneta propria, is “soddus sardus”, meglio noti come “doddollari”. Come quando finì inguaiato a processo con i Nuovi Serenissimi per averli aiutati, pare, a costruire il carro armato che occupò piazza San Marco raccogliendo la solidarietà di leghisti del calibro di Borghezio. Come la volta che nel 2013 denunciò di essere stato sequestrato per via della sua militanza indipendentista e costretto alla roulette russa dai “Guardiani della Nazione”, un gruppo eversivo legato e forze armate e fascisti, protetti dall'Arcangelo Michele.
Una figura irrecuperabile a qualsiasi martirologio ma tant'è, Doddore Meloni resta un uomo fatto morire in carcere. A inizio giugno era stato trasferito al carcere di Uta, vicino a Cagliari. Qui gli veniva forzatamente somministrato mezzo litro d'acqua al giorno. Alle numerose richieste degli avvocati difensori di tradurre Meloni agli arresti domiciliari il tribunale di Cagliari aveva ripetutamente risposto negativamente per mancanza di una relazione medica dal Carcere di Uta. Quando poi i medici di Uta hanno prodotto la loro relazione hanno dichiarato che le condizioni di Meloni, al cinquantesimo giorno di sciopero della fame, non erano incompatibili con il regime carcerario. A un primo ricovero al Ss. Trinità di Cagliari Doddore era stato poi ricondotto dietro le sbarre di Uta. Due giorni fa il coma e oggi la morte.
Solo nel 2017, al 30 giugno, sono 55 i morti nelle carceri italiane, di cui 23 suicidi. A maggio un detenuto cagliaritano si è impiccato nella sua cella nel carcere di Uta che, pur essendo considerata una struttura all'avanguardia (sic!), ospita più del doppio dei detenuti per i quali è attrezzata.
Il carcere fa schifo, lasciar morire in carcere come successo a Doddore Meloni è inaccettabile.


I giorni del golpe di Doddore Meloni nel racconto dell’ex “ministro” - Claudio Zoccheddu

Verso la fine dell’estate del 2008 a Mal di Ventre faceva caldo. I primi giorni della Repubblica di Malu Entu furono riscaldati da un sole implacabile. La tregua notturna abbassava la temperatura ma dormire era difficile al punto che Doddore Meloni iniziò a tramandare le sue memorie a uno dei seguaci più giovani, lo stesso ragazzo che il vecchio leader nominò, poi, ministro degli Esteri. E l’ex “ministro” Bruno Delussu ha deciso di raccontare quello che sarebbe dovuto diventare un libro prima che la morte di Doddore scombussolasse i piani.

Gli X-Files di Doddore. È un racconto che rivela i giorni del golpe separatista programmato per la notte di Natale del 1978. «Passavamo ore a chiacchierare – ricorda Delussu – io domandavo, lui rispondeva. Quello che si diceva del golpe era tutto vero ma molti dettagli non sono stati raccontati». La storia che ne viene fuori è la descrizione di un uomo pronto a tutto pur di realizzare il suo obiettivo: «Doddore aveva progettato un piano dettagliato con un amico di Bosa, di cui però non mi ha rivelato il nome ma diceva sempre che Bainzu Piliu non c’entrava nulla. L’idea era cavalcare l’onda indipendentista alzato dal Psd’az verso la fine degli anni 70 – continua Delussu – Decisero di fare un golpe sfruttando il braccio armato del loro movimento, ovviamente dopo che si erano allontanati dal Psd’Az. Potevano contare su un esercito di trecento sardi addestrati nei campi paramilitari libici, insieme a palestinesi e brigatisti. Era gente pronta a tutto». Il motivo per cui Doddore fosse così vicino alla Libia è una rivelazione: «Aveva un fratello di sangue nelle truppe di Gheddafi, si chiamava Tabet. Era lui il contatto con il Colonnello». Raggiungere la Libia, poi, era semplice: «Doddore si occupava di trasporti, aveva un ufficio a Genova e dal porto ligure imbarcava i suoi mezzi verso Bengasi. Alla guida c’erano i suoi “soldati” che riuscirono a contrabbandare in Sardegna un carico di armi che il padre nascose subito dopo l’arresto».

I rapporti con Gheddafi. Tra Doddore e il Colonnello scorreva buon sangue, perlomeno secondo Bruno Delussu: «Quando Doddore si addestrava in Libia sentiva ripetere tutti i giorni i versi del “Libro verde” che racchiudeva il pensiero politico di Gheddafi». Un testo che nei campi di addestramento nascosti nel deserto valeva quanto il Vangelo di cui Doddore conservava una copia particolare, quasi una prova: «Era autografata da Gheddafi perché mi raccontò di averlo incontrato e di aver ottenuto il suo appoggio».

Golpe e sequestri. L’obiettivo era la caserma della Brigata Sassari, a Macomer: «Volevano conquistarla la notte di Natale per poi interrompere la linea ferroviaria e aspettare la reazione dei sardi – racconta Bruno Delussu –. Erano convinti che la gente sarebbe stata con loro. Avevano l’appoggio di Libia e Somalia ed erano pronti a ricattare lo Stato italiano che, secondo Doddore, sarebbe sceso a patti». La sicurezza era giustificata dal mazzo di carte in mano ai golpisti: «C’era stato l’attentato alla sede della Tirrenia ma anche un blitz, mai rivendicato, dentro la base di Decimomannu. Doddore e suoi sabotarono diversi aerei da combattimento». Secondo Bruno Delussu gli indipendentisti erano pronti anche a far sparire alcuni militari: «Si trattava di due tecnici americani che lavoravano in una delle basi in Sardegna. Era tutto pronto, li avevano individuati e Doddore aveva già fatto la spesa in un supermercato di Sanluri dove aveva acquistato i generi necessari alla sopravvivenza degli ostaggi. Non gli avrebbero torto un capello, erano le pedine di un ricatto. Sarebbero stati nascosti nella miniere del Sulcis fino a quando la Sardegna non avrebbe guadagnato l’indipendenza».

Il fallimento. Il piano aveva diversi punti deboli, tra cui il numero di persone che ne erano a conoscenza. Fu proprio uno dei seguaci a tradire il silenzio che nascondeva il complotto separatista: «Saltò tutto quando fu arrestato Giampaolo Pisanu – ricorda il giovane ex ministro –. Lui era un militare ma non seppe dare spiegazioni plausibili quando venne trovato in possesso di una carica esplosiva. Durante un interrogatorio fece i nomi dei suoi compagni dando il via alle indagini che portarono all’arresto di Doddore e al tramonto del sogno indipendentista». Un’idea per cui Doddore era pronto a tutto.

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