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Faccio parte di quella generazione che faceva una sorta di
viaggio iniziatico. Partivamo per l’India, sognando l’avventura e l’Oriente.
Trovai entrambe, e anche milioni di amebe, in Afghanistan, poco prima
dell’invasione sovietica e nel deserto di Pushkar fra ashram colmi di scimmie e
santoni. Facevo anche parte della sinistra extraparlamentare degli anni ’70.
All’inizio degli anni ’80 mentre il riflusso ci sommergeva
e ognuno andava per conto suo, mi sono laureato in Filosofia della politica,
con una tesi su Hannah Arendt, allora pressoché sconosciuta in Italia. Mi aveva
aperto un mondo, ci avevo lavorato con passione un paio d’anni e pensavo di
restare nell’ambiente universitario.
Mi sono ritrovato dalle chiacchiere tra filosofi al
petrolchimico di Porto Marghera
Mentre aspettavo concorsi che non arrivavano mai facevo
colloqui per non essere assunto, poi – avendo necessità di lavorare – per
essere assunto. Sono finito alle direzione del personale in un’azienda del
gruppo Montedison. Mi sono ritrovato dalle chiacchiere tra filosofi al
petrolchimico di Porto Marghera. Il cancro era una presenza costante, come i
fumi, le fiammate notturne delle ciminiere e l’inconfondibile puzzo che ti
prende alla gola. Certo, qualche operaio moriva, lo sapevano soprattutto loro
quanto fosse un ambiente malsano, ma dovevano pur campare.
Non avrei potuto avere un impatto più brusco con la realtà.
Mi trovavano promettente e mi proposero di andare in uno stabilimento del Sud.
Rifiutai ma anziché cacciarmi mi spostarono alla “selezione del personale”.
Dopo tante ristrutturazioni e chiusure serviva di nuovo qualche ingegnere,
qualche chimico. Somministravo test, assistevo a giochi di ruolo e stendevo
profili psicologici e di adattabilità dopo colloqui individuali.
L’era socialista e berlusconiana
In questo paese, una volta che sei fuori, sei fuori
Da funzionario delle relazioni industriali ho cominciato a
seguire la progressiva deindustrializzazione di questo paese. Una parte degli
esuberi di personale era determinata dalla tecnologia, certo, ma il grosso era
il frutto della volontà di tagliare i costi fissi e aumentare i profitti.
Il gioco funzionava più o meno così: l’azienda presentava
un piano industriale pluriennale, al cui termine inesorabilmente veniva
dichiarata la necessità di ridurre gli organici e quantificato il numero di
esuberi, il sindacato contestava, chiedeva contropartite, assunzioni,
formazione, incentivi salariali, buonuscite, insomma faceva il suo mestiere.
Dopo un po’ la situazione precipitava, insomma si
drammatizzava, veniva coinvolto il governo che in veste di mediatore concedeva
ammortizzatori sociali in quantità specifiche e piovevano pre-pensionamenti,
mobilità lunghe (sette anni al Sud, sei al Nord), casse integrazioni
straordinarie di due, tre, cinque anni. E c’erano anche lavoratrici e
lavoratori contenti di andare in pensione a 45 anni. Intanto le fabbriche si
rimpicciolivano sempre più fino a che un bel giorno venivano chiuse. E allora
tutti a casa.
Ho seguito la progressiva distruzione di questo paese
A quel tempo i ricercatori, i produttori di software erano
rimasti indenni. Erano considerati ancora core business come il service di alto livello. Il resto, pezzo dopo
pezzo, inesorabilmente, andava in outsourcing. La parola ramo d’azienda era diventata una sorta di mantra.
A volte era una forma di appalto del licenziamento posticipato, in genere di
tre anni. Quasi sempre comunque le cessioni finivano male. C’erano poi i
cosiddetti “esodi”, dimissioni incentivate e l’outplacement , gli specialisti della
ricollocazione, che però era di fatto una chimera. Le percentuali di successo
erano bassissime. Perché in questo paese una volta che sei fuori, sei fuori.
Alla fine degli anni ‘90 sono andato in una grande
multinazionale tedesca, sempre operante nel settore telecomunicazioni, dove
continuavano le chiusure di stabilimenti, fra cui quello dell’Aquila, dove di
ingegneri irlandesi non c’era più neanche l’ombra. Io ero capo del personale di
uno stabilimento dell’hinterland milanese, che di efficientamento in
efficientamento aveva ridotto – anche grazie al mio contributo – di due terzi
gli organici..
Anche quei pochi giovani che entravano grazie alle nuovi
leggi sul lavoro, sempre più flessibili, sempre più leggere, erano in una
situazione di perenne precarietà. Oggi c’erano, dopo sei mesi sparivano e ne
entravano altri.
Rovina industriale
Alla fine hanno deciso di vendere tutte le
attività relative alle telecomunicazioni, considerate ormai “mature”, ai
concorrenti. Tremila persone. Quel che restava della produzione ai liquidatori
americani. Ma adesso toccava anche a tutti gli altri, agli intoccabili. Anche
quelli del software (i “ricercatori”), i tecnici specializzati, i commerciali,
i finanziari, gli staff. Tutti prima o poi venivano messi in cassa integrazione
o venivano licenziati. Io sono finito in una piccola società con il compito di
gestirne la ristrutturazione. In un anno da 300 siamo rimasti in 70.
Ormai anche io non servivo più a niente. Ero un esubero.
Dopo sei mesi di mobbing scientifico abbiamo trovato un’intesa economica e sono
uscito dal mondo in cui avevo lavorato 25 anni. Avevo visto la cancellazione di
più di 20mila posti di lavoro. Nell’ultimo stabilimento dove avevo lavorato,
oggi volano indisturbati i corvi mentre l’erba invade pian piano parcheggi ed
uffici. Un paesaggio di rovina industriale.
Sotto i miei occhi è passata la cancellazione di 25mila
posti di lavoro
C’è chi sacrifica l’intera esistenza a un’identità
lavorativa. Sei la tua professione. E basta. Quando quell’identità sparisce è
un dramma. Ci sono stati suicidi, separazioni. Chissà che fine han fatto in
tanti. Io ho sempre cercato di mantenere una specie di schizofrenia controllata
rispetto alla mia vita nel suo complesso. Non ho mai smesso di scrivere e
studiare, ad esempio. Intellettuale e quadro industriale. A prezzo di nevrosi,
ma la libertà ha sempre un prezzo.
Ho aspettato proposte di lavoro sperando che non
arrivassero troppo in fretta e anche che non arrivassero proprio. Ero tornato
alla situazione post laurea. Mi son preso un sabbatico, un anno di studi, un
viaggio in Europa, un piccolo saggio per una rivista filosofica. Ho tradotto
alcuni discorsi dei Nobel dallo spagnolo e dall’inglese per un’antologia.
Neruda, Solzenicyn. Una festa.
Avevo anche un “piano b”. Mi tornava in mente “Taxi
driver”. Avevo letto Gazdanov. Mi piaceva la figura del tassista. Gente libera.
Mi era sempre piaciuto chiacchierare con i tassisti. Ero interessato al loro
lavoro, mi incuriosiva. Stare in auto avendo rapporti con ogni genere di
persone, ma limitati nel tempo, mi sembrava infinitamente meglio che la
prigionia dell’ufficio dove poteva accadere di dover sopportare tutti i giorni
l’ultimo degli imbecilli.
Un mestiere inattuale
Vivevo in centro a Milano, una casa in
affitto con gli affreschi. La segretaria. La macchina aziendale. Un piccolo
borghese di successo.
Ma quando ti ritrovi disoccupato a 50 anni, in un paese
strangolato dalla crisi economica, sull’orlo del fallimento e in piena
deindustralizzazione, sei messo male. E nessuno più di me sapeva cosa era un
esubero. Avevo bisogno di un mestiere inattuale.
L’attualità era fatta di rotelline espulse
dall’ingranaggio: esodi, esuberi, licenziamenti. E un oceano di precarietà.
Ho investito la liquidazione nella licenza taxi. E così mi
sono trovato immerso nel famoso proletariato, che fino ad allora non avevo
conosciuto se non indirettamente. Io in ufficio, loro in fabbrica. Devo
ringraziare i tassisti. Alcuni possono apparire rozzi, volgari, con una bassa
scolarità, alcuni vivono nelle periferie, ma tutti fanno un lavoro duro,
ripetitivo, pericoloso, usurante, mai banale.
Avevo bisogno di un mestiere inattuale
Nell’immaginario il tassista è un ricettacolo di storie. O
più semplicemente il vetturino, il postiglione, il fido autista che ti riporta
a casa dopo una cena d’affari o un’avventura galante che non ti puoi
permettere. Nella realtà, è lui che ti giudica al primo sguardo. Il primo
giudizio è: “Questo è pericoloso o no?”. E subito dopo: “Sarà una corsa
tranquilla o mi infastidirà tutto il tempo?”. E c’è un perché. Il tassista che
non giudica correttamente rischia la vita. In macchina l’incolumità è sempre a
rischio. Questo aspetto all’inizio mi ha sconvolto. Hanno anche tentato di
rapinarmi. Poi ci fai l’abitudine e impari a giudicare.
Contro Monti e Uber
Ho odiato subito Monti. I benpensanti lo
salutavano come un liberatore, un uomo di stile dopo le cene eleganti
berlusconiane. Ma per me era l’espressione pura del neoliberismo. Un classico
funzionario del capitale completamente indifferente ai destini delle persone.
Non mi sbagliavo. Nel primo mese di governo mi ha ritardato la pensione di
quattro anni. E Milano è fatta di pavé e ti spacca la schiena a forza di
microtraumi.
Subito dopo voleva liberalizzare i taxi. Azzerare il valore
della licenza e moltiplicare l’offerta senza alcun rapporto con la domanda.
Voleva dare un segnale di equità, diceva, colpendo una categoria a suo dire
simbolo della destra, dopo aver colpito i pensionati “ di sinistra”. Nel
gennaio 2012, con cinque gradi sotto zero, ho scioperato dieci giorni di fila.
La prima volta da quando ero studente. Ho imparato che fra i tassisti è dura
per i crumiri.
Ho conosciuto un mondo fantastico in cui lo sciopero è o non è.
Una categoria di individualisti può diventare una forza compatta. Avevo visto
giusto: una consapevolezza di classe per una professione inattuale. C’è chi ha
preso la broncopolmonite, con dieci giorni di blocco coi fuochi accesi in
strada. C’era chi mostrava le foto dei figli, dicendo: “Questi sono quelli che
Monti vuole uccidere”. I tassisti mi hanno insegnato cosa è il conflitto di
classe nella realtà, non nei convegni. Anche se loro non lo chiamerebbero mai
così.
Tutti consumatori, nessun cittadino
Poi, nel 2013, è arrivata Uber. Sono stato tra i primi ad
oppormi. Non è una compagnia di trasporti, e tantomeno una tecnologia: è una
banca che raccoglie cash in tutto il mondo. Vuole sostituirsi al servizio
pubblico, sfruttando gli operatori senza neppure assumerli, non ha costi, se
non la lobby sui governi. Liberalizzare, privatizzare, la canzone è sempre
quella. Tutti consumatori, nessuno cittadino.
Gli autisti costretti a comprare i mezzi e a incassare
tariffe impossibili di cui la app trattiene un quarto vengono rapidamente
ridotti in semi-schiavitù. È il caporalato digitale. Il dominio
dell’intermediario. La svalutazione totale del lavoro.
E infatti rapidamente l’affaire è diventato un simbolo, l’uberizzazione
del mondo la chiamano. Ma non c’è nulla di nuovo, è sfruttamento primordiale,
cancellazione dei diritti, cultura dello scarto. È neoschiavismo.
E così mi ritrovo, di nuovo, a sessant’anni, esubero,
ridondanza, scarto. Una nemesi, un destino. Ma non da solo questa volta, e,
almeno, dalla parte giusta.
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