In molte
discussioni sulla contestazione del debito pubblico c’è il rischio di
riproporre quello che per me è il principale limite dei fautori dell’uscita
dall’euro: ragionare come se i processi a cui mirano si svolgessero in una
campana di vetro, a bocce ferme, ovvero ceteris paribus, dove niente cambia in
relazione a quello che si fa. Gli anti-euro pensano che con il ritorno a una
moneta nazionale lo Stato possa tornare in possesso dei tre principali
strumenti di governo dell’economia: il cambio, i tassi di interesse e
l’emissione di moneta, in un contesto in cui tutto il resto del mondo e in particolare,
nel nostro caso, il resto dell’Europa, i nostri partner, o competitors o avversari, non attivino misure
avverse.
La
svalutazione renderebbe l’economia più competitiva rilanciando le esportazioni;
l’emissione di nuova moneta permetterebbe di rilanciare investimenti e consumi
e di riassorbire il debito; i tassi di interesse potrebbero restare espansivi
grazie a un rigido controllo dei movimenti di capitale. In particolare l’idea
di recuperare competitività con un svalutazione rimanda al quadro di un sistema
di mercato internazionale che funziona secondo i principi della libera
concorrenza. Forse all’origine di questa illusione c’è
l’abuso del termine neoliberismo – a cui sono fermamente contrario – per
indicare invece un sistema fondato su una competizione feroce che ha negli
Stati e nel potere finanziario internazionale i suoi due principali pilastri.
Ma la realtà non corrisponde a quel quadro e soprattutto all’indicazione dei
vantaggi che si ricaverebbero dal ritorno a una moneta nazionale manca tutto
ciò che potrebbe succedere tra lo stato delle cose attuale e quello auspicato:
cioè la transizione, la considerazione delle contromosse di coloro che si
riterrebbero minacciati o danneggiati da questa transizione. Che non può essere
istantanea né preparata e condotta in segreto. È questo, a quanto risulta dalle
sue dichiarazioni, il limite del Piano
B preparato da Varoufakis all’indomani del
referendum sull’Oki: affidare la sostituzione della valuta a un team ristretto
che operava nell’ombra e che avrebbe dovuto prendere di sorpresa le autorità
europee. Un colpo di mano come il piano di Lafarzakis, che proponeva l’assalto
alle riserve auree della Banca centrale – che è effettivamente il “Palazzo
d’Inverno” del nostro tempo – per far fronte al blocco della circolazione
monetaria imposta dalla BCE.
In realtà
una transizione del genere richiede tempo, mesi e forse anni – e una
preparazione del pubblico, come quella che ha accompagnato il passaggio dalla
lira all’euro, che lascia tutto il tempo al dispiegarsi di iniziative avverse:
la fuga di capitali, le ritorsioni dei creditori, fino al blocco della
circolazione monetaria attraverso la chiusura degli sportelli bancari e altro
ancora. Ma soprattutto, in questo quadro, non si tiene conto del fatto che la
competizione sui mercati globali – e, dunque, quelli di esportazione e di
importazione – non si svolge che in minima parte sulla base di parametri come
il prezzo e la qualità, perché contano molto di più i fattori di potenza:
innanzitutto finanziaria; poi politico-diplomatica e infine militare. Venendo
ora ai problemi connessi con il ripudio del debito, o con la sua parte ritenuta
illegittima, questo è certamente un tema centrale non solo di propaganda, ma
anche e soprattutto di educazione e autoeducazione della popolazione. Ma quanto
alla sua traduzione pratica, non è al funzionamento di un mercato
concorrenziale ideale, e in realtà mai esistito, che dobbiamo fare riferimento,
ma alla situazione concreta.
Da questo
punto di vista, poco importa, come si è spesso detto a proposito del Giappone, che ormai il debito
italiano sia detenuto per oltre il 60 per cento da operatori nazionali. Il
sistema finanziario è totalmente interconnesso e le perdite inflitte a una o
più istituzioni italiane avrebbe immediatamente effetti di sistema a livello
europeo e metterebbe in moto immediatamente contromisure preventive fino al
blocco della circolazione monetaria. Come si è visto in Grecia alla vigilia del
referendum di luglio, dove la posta in gioco era sostanzialmente quella di non
pagare il servizio del debito alle condizioni imposte dalla Troika. È chiaro
che una campagna di successo per l’annullamento del debito o di una sua parte,
prima ancora di raggiungere i livelli istituzionali e tradursi anche solo in
alcune delle misure auspicate, avrebbe l’effetto di innescare in successione
tutte le tappe di questo processo. Dal
punto di vista politico una campagna per il ripudio del debito mi sembra
senz’altro più sensata e soprattutto chiara di una campagna per l’uscita
dall’euro: per lo meno non sarebbe legata al miraggio di un beneficio
immediato, bensì alla necessità di apprestare delle difese contro un ulteriore
e inevitabile peggioramento della situazione. Ma dal punto di vista delle
conseguenze pratiche, una volta che essa sia arrivata al punto di una qualche
operatività, le conseguenze sarebbero più o
meno uguali. Che fare allora?
Prima di
tutto il dibattito sul debito e sul futuro dell’euro va tirato fuori dalla
campana di vetro in cui rischia di rimanere imprigionato, anche a costo di
chiamare in causa fattori che apparentemente hanno poco a che fare con la
finanza. Il primo e secondo me il più importante è la questione dei
profughi: accogliere o respingere? Non
per l’entità del numero delle persone coinvolte, ma per tre altri motivi.
Innanzitutto, perché è quello su cui si sono andati polarizzando sia
l’elettorato che l’opinione pubblica europea (vedremo se Macron saprà tenere
unita la sua nuova compagine anche su questo punto, ma in Austria, Olanda,
Regno Unito è il fattore che ha giocato un ruolo maggiore; in tutti i paesi
europei dell’UE la partita è stata risolta da tempo con il trionfo del
respingere; in Germania e in Italia si aspetta un responso elettorale
certamente fortemente soggetto a questa polarizzazione; in altri paesi non
tarderà a farsi sentire).
In secondo
luogo perché ha reintrodotto delle barriere tra i paesi membri dell’Unione –
evidenziate dai controlli ai confini per evitare l’infiltrazione di profughi –
che allontanano le nazioni una dall’altra mettendo sempre di più in forse la
capacità della governance europea di tenere unita l’Unione
intorno a un progetto comune che non sia l’imposizione del volere del più forte
sul soggetto più debole; anche a costo della sua rovina, come potrebbe essere
il protrarsi indefinito dei blocchi alle frontiere europee dell’Italia,
equivalente a un “sbrigatevela voi. È un problema vostro”…
In terzo
luogo, perché, a partire dall’accordo con la Turchia, ha messo in moto un
meccanismo di esternalizzazione dei confini finalizzato a respingere i profughi
tra gli artigli delle bande e dei regimi da cui cercavano di fuggire,
aumentando fortemente il caos in questi paesi e mettendo in mano ai governi più
forti, come quello della Turchia, armi di ricatto a cui tutta l’Unione è
costretta a soggiacere. La mancanza di programmi di accoglienza alternativi a
una politica sempre più rigida di respingimenti espone tutti i governi
dell’Unione a subire la pressione delle forze xenofobe e di destra, nel
tentativo, per lo più vano, di non farsi sfuggire una quota crescente del loro
elettorato, avviando così una spirale di cui è difficile vedere la fine. In
secondo luogo il futuro dell’euro non sembra affatto in sicurezza: l’euro
potrebbe anche non durare, nelle forme attuali, indipendentemente dalla
decisione di uno o più Stati di uscirne.
È chiaro un
allentamento della pressione sull’Italia da parte delle autorità europee, non
tanto per aiutarne la stitica ripresa in corso, quanto per non compromettere
con interventi comunque traumatici, quella leggermente più solida della
maggioranza degli altri paesi dell’Unione. Ma questa accondiscendenza non andrà
oltre certi limiti: in particolare alcune scadenze e alcune minacce vanno messe
in conto: innanzitutto il tapering, che
tornerà a far alzare lo spread non solo dell’Italia, ma anche di altri paesi
membri, seppure, forse, in misura minore. In secondo luogo, le conseguenze
del quantitave easing, cioè la bolla dei corporate bonds che potrebbe scoppiare da un
momento all’altro, andando ad aggiungersi a quella delle crisi bancarie,: sia quella delle
banche italiane già in corso; sia quelle delle banche di altri paesi, non
ultima la Germania, che potrebbe venire alla luce in qualsiasi momento di
difficoltà. Poi il fatto che diventa operativo il fiscal compact, con tutti i problemi che comporta per
la maggior parte dei paesi europei altamente indebitati. Il fatto che una
soluzione di compromesso sembri essere stata trovata per la crisi greca non
facilita le cose: per molti è la dimostrazione che si può comunque andare
avanti sulla strada percorsa fin qui, sottoponendo gli altri paesi in crisi di
debito a un trattamento analogo. Infine si moltiplicano le proposte di una
differenziazione interna della zona euro istituzionalizzata (l’ultima in ordine
di tempo è quella degli ESBies, ma c’è anche quella di differenziare il fattore
di rischio dei bond pubblici presenti negli attivi delle banche). Potrebbero
essere un rammendo di una moneta unica ormai in crisi, ma anche un primo passo,
anche involontario, verso la sua dissoluzione. Non mancano i riflessi locali
dei cambiamenti climatici. L’Italia è
in preda a una crisi idrica che rischia di far saltare tutti i suoi conti.
Infine non bisogna dimenticare che dall’Ucraina alla Libia, passando per Siria, Iraq e Israele, ma senza dimenticare le
seconde file (Afghanistan, Yemen, Somalia, Mali, Ciad,
Nigeria, Repubblica Centroafricana, Saharawi, ecc.) l’Europa è ormai circondata da guerre che non accennano
a comporsi e in cui alcuni dei suoi Stati membri sono sempre più direttamente
coinvolti come parti in causa. Tutto questo potrebbe avere pesanti
ripercussioni dal lato dei rifornimenti
energetici, ma anche dal lato della spesa pubblica per armarsi e
sostenere uno sforzo bellico crescente: questione su cui sia la Commissione
europea che i singoli governi coinvolti, tra cui quello italiano, si muovono
nel più assoluto disprezzo dei parlamenti e delle opinioni pubbliche. In un
contesto in movimento come questo, una campagna per il ripudio del debito
illegittimo non può limitarsi al suo ruolo irrinunciabile di propaganda, di
informazione e di educazione dell’opinione pubblica. Deve mettere in conto il
fatto di poter innescare o scatenare delle reazioni avverse anche prima di
veder all’opera gli obiettivi che persegue. Qui mi limito a indicare, in ordine
di difficoltà crescente – ma di facile in tutto questo non c’è proprio niente
– alcune delle iniziative con cui
accompagnare la nostra campagna.
La
prima, ovvia, è cercare alleanze
in campo europeo a tutti i livelli: non solo tra associazioni, movimenti e
comitati che condividono la lotta contro il debito, ma, nella misura del
possibile, cercando di coinvolgere in questa campagna anche i livelli istituzionali,
a partire ovviamente dalla costruzione di una rete europea di comuni che si
battono contro il debito illegittimo sia proprio che dello Stato di appartenenza. La
Grecia, nella sua lotta contro i diktat della Troika, è rimasta sola: non solo
per l’indifferenza, per non dire il cinismo, di governi che rischiavano e
rischiano di ritrovarsi nella stessa condizione. Bisogna anche dire che gli
sforzi di Syriza, delle organizzazioni e delle istituzioni greche per
mobilitare un’opinione pubblica europea a sostegno delle sue ragioni non sono
stati all’altezza della gravità della posta in palio.
La seconda
mossa è quella di sviluppare, insieme
ai nostri partner europei di Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi) e delle altre organizzazioni che si
battono contro il debito, a partire da Attac, ma soprattutto dalle chiese, un
programma operativo comune, ancorché mirato sulle singole situazioni locali, di
ricusazione dei debiti, che preveda un ricorso flessibile a una pluralità di
misure che vanno dalla ristrutturazione, ad un ripudio selettivo, fino a un
default parziale o totale sulla base però di ben precise e motivate analisi,
cosa per cui è essenziale dotarsi di audit del debito a tutti i livelli possibili –
che non sono solo quelli statali e comunali o di istituzioni intermedie come
regioni e province, ma anche quelli degli istituti parastatali: primo tra essi
il macinio dei sistemi pensionistici: con chi sono in debito e con chi in
credito. E perché. Il terzo passo, su cui è per me decisivo che si avvii fin da
subito una discussione al nostro interno, è quello di promuovere misure di resilienza
finanziaria di fronte a contromisure che potrebbero andare fino al blocco della
circolazione monetaria, come era successo in Grecia alla vigilia del
referendum. La resilienza è essenzialmente affidata alla creazione e diffusione di monete
complementari non convertibili a tutti i possibili livelli: un
fenomeno che ha ormai una larga diffusione in tutto il mondo occidentale, dalle
Americhe all’Europa e al Giappone: se ne contano – pare – più di 4mila esempi.
Il primo e
più elementare livello è quello promosso da associazioni di cittadini a livello
strettamente locale, dove il rapporto di fiducia reciproca è la conoscenza
personale possono precedere l’introduzione stessa del nuovo strumento.
Il secondo
livello si ha quando la circolazione della moneta locale viene promossa o anche
solo sostenuta, eventualmente con un fondo di garanzia, da qualche istituzione
locale: dal comune a un insieme di comuni, a una regione (ne aveva parlato anni
fa il presidente della Lombardia Maroni, per poi lasciar cadere completamente
l’argomento; ma il sardex ha poi avuto il sostegno della Regione Sardegna ed
altre Regioni stanno ora studiando la questione).
Un terzo
livello è una moneta che, come il sardex all’inizio e il wir svizzero abbia
circolazione solo tra imprese di circuiti ben circoscritti. Anche il livello
nazionale potrebbe essere coperto da una circolazione parallela – di fatto
convertibile a sconto – come quella proposta da Luciano Gallino e Stefano Silos
Labini e oggi caldeggiati soprattutto da Enrico Grazzini. È un progetto su cui
la Banca d’Italia ha già messo le mani avanti, sostenendo che non è compatibile
con la legislazione bancaria – mentre Grazzini sostiene che è perfettamente
compatibile con i vincoli finanziari imposti dall’Unione europea. Ma è chiaro
che una proposta del genere potrebbe avere un esito diverso e positivo in
presenza di una crisi finanziaria che coinvolga tutta l’Europa, e soprattutto
in presenza di una circolazione ormai diffusa di monete complementari locali.
Se una prospettiva del genere venisse condivisa, dovremmo attrezzarci al più
presto per metterci tutti in grado di sostenerla e di lavorare alla sua
promozione. C’è un valore culturale di fondo in
questa iniziativa, che va al di là dei suoi esiti pratici immediati: ed è
quella di restituire al denaro il carattere di bene comune che, come tale, deve
tornare sotto il controllo di chi ne ha bisogno per la sua vita e il suo lavoro
quotidiani.
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