È possibile combattere la miseria senza combattere i meccanismi che la
producono? La domanda è retorica: non esiste altra risposta che no. Eppure è
ciò che facciamo se non affrontiamo il tema del debito pubblico. A onor del
vero, va detto che il debito pubblico è come il colesterolo. C’è quello
buono che rappresenta ricchezza e quello cattivo che rappresenta miseria.
Il debito è buono quando la moneta è
gestita direttamente dallo Stato in un’ottica di piena occupazione. In tale
contesto la
spesa in deficit si trasforma in ricchezza perché l’ammanco è finanziato con
moneta stampata di fresco che entrando nel circuito economico stimola
l’economia con effetti positivi su produzione, occupazione, consumi e risparmi.
Il debito è cattivo quando lo Stato si priva volutamente
di sovranità monetaria, ossia del potere di stampare moneta. In tal caso
ogni volta che decide di spendere più di quanto incassa deve chiedere un
prestito al sistema finanziario privato. Che lo darà solo in cambio di un tasso
di interesse. Così il popolo si impoverisce a vantaggio di banche,
assicurazioni, fondi di investimento e ogni altra struttura finanziaria che di
mestiere presta denaro.
Purtroppo da una trentina di anni, già prima di entrare nell’euro, lo Stato
italiano si è ridotto al pari di una qualsiasi famiglia o azienda che dipende
dalle banche per qualsiasi spesa supplementare. Il suo debito nei
confronti dei privati oggi ha raggiunto 2270 miliardi di euro[1] e
si comporta come una zecca che affonda l’arpione nelle casse pubbliche
per sottrarre denaro in base al livello dei tassi di interesse esistenti. Nel 2016 i soldi
sottratti sono stati 68 miliardi di euro, nel 2012 addirittura 87 per un
semplice capriccio della speculazione. Soldi di tutti, che invece di andare a
finanziare asili, ospedali, scuole al servizio della collettività, vanno ad
ingrassare gli azionisti delle grandi strutture finanziarie. In effetti solo il
5,4% del debito pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto il resto è
nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, sia italiani che
esteri. Più precisamente le strutture finanziarie italiane detengono il 63,1
per cento del debito pubblico italiano, quelle estere il 31,5 per cento.[2]
Si può senz’altro affermare che il debito cattivo è un meccanismo di
redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi. Perché solo i
ricchi hanno risparmi da investire in titoli di Stato. E i risultati si
vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da società a uovo si sta trasformando
in società a piramide. Prima c’era un piccolo numero di famiglie con redditi
bassi, un piccolo numero con redditi molto alti e nel mezzo un gran numero di
famiglie con redditi medi. Oggi molte famiglie di mezzo stanno migrando verso
il basso mentre quelle di cima sono sempre più esigue e naturalmente più
ricche.
Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto
forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, depositi, le famiglie italiane
possono essere divise in tre fasce. Quelle di cima, pari al 10 per cento, che
detengono il 46 per cento dell’intera ricchezza privata. Quelle di mezzo,
equivalenti al 40 per cento che controllano il 44 per cento della ricchezza.
Quelle di fondo, che pur rappresentando il 50 per cento delle famiglie
italiane, si aggiudicano appena il 9,4 per cento della ricchezza privata. [3]
Mediamente la ricchezza delle famiglie appartenenti al
10 per cento più ricco è 22 volte più alta di quelle appartenenti al 50 per
cento più povero.Ma se possibile la realtà è anche peggiore. Uno studio del
Censis certifica che i 10 individui più ricchi d’Italia dispongono di un
patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila
famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani, appartenenti
al club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo
superiore a 169 miliardi di euro e non è conteggiato il valore degli immobili. In altre parole lo
0,003 per cento della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella
detenuta dal 4,5 per cento.[4]
I segni di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella
distribuzione del reddito. Il 10 per cento più ricco della popolazione intasca
il 25,3 per cento del reddito disponibile, il 10 per cento più povero solo il
2,1 per cento. In termini monetari ogni individuo del 10% più ricco dispone di
77.189 euro all’anno. Quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro.[5] Un
divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore di metà degli anni ottanta quando
il rapporto era 8 a 1.
Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il
debito aggrava tramite l’austerità, scelta classica di uno Stato totalmente
asservito alle banche. Al pari di una famiglia, quando uno Stato senza
sovranità monetaria si accorge di non avere abbastanza soldi per pagare
interessi e capitale, cerca di raggranellare il dovuto aumentando le entrate e
riducendo le spese. Due mosse che hanno ambedue conseguenze gravissime perché
se lo Stato smette di offrire servizi, le famiglie debbono rivolgersi al
mercato che nel frattempo si è impossessato di servizi primari come l’acqua, i
trasporti, la scuola, la sanità. Con la differenza che prima erano gratuiti,
mentre ora sono a pagamento. Così le famiglie italiane, già tartassate dal
carico fiscale, sono sempre più salassate dalle imprese private per il
godimento di bisogni fondamentali. Basti dire che in ambito sanitario la
spesa privata è salita, anno 2015, a 34,5 miliardi di euro, il 3,2 per
cento in più rispetto al 2013. In totale gli italiani che si
rivolgono alla sanità privata, spinti da ticket sempre più alti e da liste di
attesa sempre più lunghe, sono oltre 10 milioni. Ma contemporaneamente sono cresciuti anche
quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di cura perché non hanno soldi né per
pagare i ticket, né le parcelle. Nel 2016 gli italiani rinunciatari
sono stati 11
milioniconfermando che lo spostamento dalla sanità pubblica alla sanità privata si
accompagna alla sanità
negata.[6]
Che il binomio più tasse, meno servizi, impoverisca gli italiani, lo dicono
i numeri. La
forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le bollette, di
chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non può
permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni. Le persone
in questo grave stato di deprivazione materiale sono 7 milioni,11,6% della
popolazione. Ma se allarghiamo lo sguardo a chi vive in bilico a causa del suo
stato di precarietà e di incertezza, troviamo che le persone a rischio
povertà, o esclusione sociale, sono 17 milioni e mezzo, il 28,7 per cento della
popolazione italiana, il 3 per cento in più del 2004.[7] Persone
a cui basta un dente da riparare, una batteria di esami sanitari imprevisti,
una riparazione d’auto fuori programma, per mandarle sott’acqua e costringerle
ad arrangiarsi chiedendo un prestito o rinunciando ad altre spese
importanti.
L’assurdo della situazione è che ora neanche i creditori sono più così
sicuri di voler spingere lo Stato debitore a pagare. La loro paura è di finire
come quei bombaroli che non avendo calcolato bene la lunghezza della miccia
sono colpiti anche loro dalla deflagrazione.
Fuori di metafora, la paura è che a forza di estrarre ricchezza, il sistema
possa impoverirsi a tal punto da entrare in una spirale di crisi che trascina
tutti verso il fondo. Il punto delicato è la domanda, perché viviamo in un
sistema che si regge sulle vendite. Solo se c’è un livello di domanda pari, o
addirittura superiore, alla capacità produttiva, tutto funziona regolarmente e possono
addirittura aprirsi prospettive di crescita come tutti invocano. Se invece la
domanda si contrae, le imprese entrano in crisi e licenziano in una spirale
sempre più ampia. Esattamente come succede nelle economie ad alto debito
pubblico, dove i cittadini hanno meno soldi da spendere a causa dell’elevato
livello di tassazione e lo Stato stesso spende meno per risparmiare risorse da
destinare agli interessi. Tanto più che neanche i ricchi aiutano. Benché con più
soldi, in virtù degli interessi intascati, la loro spesa non cresce. Non
spendono in consumi perché tutti i loro bisogni sono già stati soddisfatti e
non spendono in investimenti perché non sono così stupidi da avviare nuove
attività produttive quando non ci sono prospettive di vendita. L’unica strada
che imboccano è quella della finanza che si espande sempre di più.
Negli ultimi dieci anni, complice la crisi bancaria, l’austerità e la
concentrazione della ricchezza, in Italia la domanda complessiva si è ridotta
ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle. Nel 2016 i
disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7 per cento della forza lavoro. Ma il
dato si riferisce solo a chi cerca attivamente lavoro. Se si includesse nel
conteggio anche quelli che un lavoro salariato lo vorrebbero, ma non lo cercano
perché scoraggiati, il numero dei disoccupati salirebbe a 5 milioni e mezzo, il
21,6 per cento della forza lavoro.[8] Purtroppo
anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema dal momento che fra
il 2013 e il 2016, ha perso 84mila unità.[9]
La disoccupazione colpisce in maniera particolare i giovani fra 15 e 29
anni. Nel 2016 i giovani disoccupati sono 960mila pari al 44 per cento della
forza lavoro giovanile. In pratica ogni 10 giovani disposti a lavorare, 4 non
lo trovano. Ed ecco la crescita dei Neet, giovani stanchi e sfiduciati che né
lavorano né studiano secondo la definizione inglese Not in education or in
employment training. Nel 2016 i giovani nullafacenti fra i 15 e i 29
anni ammontano a più di 2 milioni, il 24 per cento del totale.[10]
Da oltre trent’anni, ogni governo dichiara di porsi come priorità
l’abbattimento del debito, ma se ne va lasciandosi dietro un debito ancora più
alto. E non perché viviamo al di sopra delle nostre possibilità, come qualcuno
vorrebbe farci credere, ma perché non ce la facciamo a tenere la corsa con gli
interessi. L’esame dei bilanci pubblici dimostra che siamo dei risparmiatori,
non degli scialacquatori. Ad esempio nel 2016 abbiamo risparmiato 25
miliardi di euro perché a tanto ammonta la differenza, in negativo, fra ciò che
abbiamo versato allo Stato e ciò che abbiamo ricevuto indietro sotto forma di
servizi, investimenti, previdenza sociale. Ciò nonostante nel 2016 il debito
pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio accumulato non è
stato sufficiente a coprire tutta la spesa per interessi. Questa storia si
ripete dal 1992 e ciò spiega perché da allora il nostro debito è passato da 850
a 2270 miliardi di euro nonostante 768 miliardi di risparmi. È semplicemente
successo che su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati
pagati a debito.[11]
Il debito che si autoalimenta attraverso la via degli
interessi è una delle forme più odiose di sottomissione e strangolamento di un
popolo. Ogni anno avvolge
attorno al suo collo un nuovo giro di catena per tenerlo sempre più stretto e
succhiargli sempre più sangue. Fuori di metafora è un’organizzazione
perfetta di latrocinio per travasare quote crescenti di ricchezza dalle tasche
di tutti a quelle dei ricchi. Ma ora è arrivato il tempo di alzarci in piedi e
rivendicare il diritto di sottrarci a questo meccanismo perverso. Gli strumenti
per farlo ci sono: vanno dal
congelamento del pagamento degli interessi al ripudio del debito illegittimo; dall’imposizione di
un prestito forzoso a carico dei cittadini più ricchi ad una tassazione
progressiva di reddito e patrimonio; dall’introduzione di una moneta
complementare nazionale alla riforma della Banca Centrale Europea, dal
controllo della fuga di capitali alla regolamentazione della speculazione sui
titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la
volontà. Purtroppo neanche i
politici più progressisti hanno messo a fuoco la gravità della situazione ed
hanno posto al centro del proprio programma politico la gestione alternativa
del debito.
L’unica forza che può indurre al cambiamento è la
pressione popolare. Ma i cittadini si attivano solo se si rendono conto dei
danni provocati dal debito pubblico. Di qui il ruolo cruciale
dell’informazione. Ma chi la darà? Non c’è da aspettarsi, né sarebbe
auspicabile, che la dia chi ha interesse a mantenere lo status quo, l’unica
opzione possibile è che questo compito venga assunto dalla società civile che
lotta contro il disagio sociale. Associazioni e cooperative, fondazioni
e sindacati, realtà laiche e religiose, tutti insieme dovremmo organizzare una
grande campagna di informazione pubblica finalizzata a tre obiettivi: creare
consapevolezza nei cittadini sui nessi esistenti fra debito pubblico e disagio
sociale; obbligare i media ad accendere i riflettori sulle conseguenze sociali
del debito, suscitare un grande dibattito pubblico sulle soluzioni alternative
al solo pagare.
La storia ci insegna che i cambiamenti sono possibili,
ma solo se si infervorano gli animi. E gli animi si infervorano se scatta l’indignazione
che deriva dalla consapevolezza. Nessuno meglio di noi può
assumersi il compito di fare sapere. Possiamo e dobbiamo farlo. Ma dobbiamo
unire le nostre forze.
.
[1] Banca
d’Italia, Finanza pubblica: fabbisogno e debito, 14
aprile 2017
[2] Elaborazione
dati, Banca d’Italia, Finanza pubblica: fabbisogno e
debito, 14 aprile 2017
[3] Banca
d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane,
Bollettino n.65 del 13 dicembre 2012
[4] Censis, Crescono le diseguaglianze sociali: il vero male che corrode
l’Italia, 3 maggio 2014
[5] Banca
d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane nell’anno
2014, 3 dicembre 2015
[6] Censis, Dalla fotografia dell’evoluzione della sanità italiana alle
soluzioni in campo, 8 giugno 2016
[7] Istat, Condizioni di vita e reddito, 6 dicembre 2016
[8] Istat, Rapporto annuale 2017
[9] Marco Rogari,
Nel 2017 «effetto spending» da 30 miliard, Il sole 24 ore, 20 giugno 2017
[10] Istat, Rapporto annuale 2017
[11] Elaborazione
dati Centro Nuovo Modello di Sviluppo su serie storiche Istat e Corte dei Conti
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