lunedì 20 novembre 2017

Chi spara (metaforicamente) sui curdi sa cosa sta facendo? - Gianni Sartori

  
Mi ero ripromesso di non partecipare, possibilmente nemmeno assistere, alle polemiche anti-curde seminate in rete da certi sedicenti anti-imperialisti; talvolta di destra, sia dichiarata che mascherata (“rosso-bruni”) ma altre volte di sinistra. Di sinistra? Sì, diciamolo pure, talvolta anche di sinistra; del resto abbiamo visto anche di peggio, nella sinistra, vera o presunta.
Polemiche che stanno però amareggiando la mente e il cuore di chi deve assistere suo malgrado a questa indecente propaganda anti-curda e, in secondo ordine, anti-libertaria. Prese di posizione quantomeno sospette, pretestuose. Polemiche che si autoalimentano con il “botta e risposta”. Meglio non concimarle, mi dicevo; meglio non farsi trascinare nel fango e nel tanfo.
Offese incomprensibili – a chi giovano? – nei confronti di chi sta in prima linea contro il neofascismo (islamico e non). Come quelle in merito alla partecipazione di anarchici (elegantemente definiti “piccoli delinquenti”), libertari e lesbiche – ma Ivana Hoffman, andata a morire eroicamente contro l’Isis, cos’era? – nelle nuove brigate internazionali che combattono a fianco dei curdi contro l’Isis. (*)
Nel testo di un autoproclamato “Osservatorio Anticapitalista” si coglieva l’occasione per evocare maldestramente lo spettro del povero Mackno accusato nientemeno che di “sionismo” (nel 1920-21?). Dovrebbero spiegarsi meglio, visto che uno dei loro teorici di riferimento dell’Osservatorio, cioè Leon Trotski, aveva ripetutamente accusato «il bandito Nestor Mackno» di «antisemitismo».
Delle due l’una. O forse nessuna. (**)

VADA PER I “ROSSO-BRUNI” MA ORA ANCHE CERTI TROTSKISTI?
C’è un limite a tutto. Dopo le variegate insulsaggini sparse al vento (in particolare su curdi e anarchici) da siti irrilevanti, sostanzialmente autoreferenziali, a farmi desistere dal proposito di non immischiarmi è stato un intervento – peraltro speditomi dagli interessati – del PDAC (sezione italica della LIT Quarta Internazionale). Qui i curdi del Rojava vengono accusati di non essersi opposti abbastanza al regime di Assad e anche di aver conservato una struttura «stalinista-maoista» sostanzialmente gerarchica, autoritaria; quasi un imprevisto richiamo alla democrazia diretta e allo spirito libertario.Provenendo dagli epigoni di chi ha poco elegantemente «buttato nella spazzatura della Storia» i marinai di Kronstadt e i macknovisti farebbe anche sorridere, se pur amaramente…
Metodi talvolta “autoritari” quelli adottati da YPG e PKK? Ma perfino i compagni della Colonna Durruti, nel bel mezzo di un conflitto come quello del 1936-39 in Spagna, si videro talvolta costretti a usare metodi non filologicamente “democratici”: ma i miliziani anarchici si trovavano nel mezzo del ferro e del fuoco di una guerra di liberazione, come appunto i curdi in Rojava e Bakur. E sappiamo bene come si comportano i reazionari in caso di vittoria: dai massacri indiscriminati di cui furono vittime i comunardi fino a quelli operati da Franco nel lungo “dopoguerra”, quello è il loro stile.
Non è di secondaria importanza che entrambi (sia gli antifranchisti che i curdi) stessero e stiano – rispettivamente – operando per il superamento di una società fondata sullo sfruttamento, sull’oppressione, sulla gerarchia, sostanzialmente sul potere (di capitalisti e burocrati ma anche di commissari politici o cekisti).
Nello stesso articolo diffuso dal PDAC si ironizza sulla virgolettata da loro «democrazia di base» in Rojava riprendendo un’intervista a Joseph Daher (un sostenitore dei “ribelli” siriani anti-Assad). Con argomenti analoghi a quelli già utilizzati dal sopracitato “Osservatorio Anticapitalista” (magari con intenti diametralmente opposti) questi trotskisti nostrani mostravano di condividerne il sostanziale disprezzo per il Confederalismo democratico adottato dalla resistenza curda. Vagamente surreale poi l’accusa al PYD di aver esautorato i Consigli (l’equivalente dei Soviet) che prima in Rojava quasi non esistevano se non come aspirazione, tendenza tradizionale all’autogoverno delle popolazione locali. Quelli della LIT-Quarta Internazionale per me (dal mio modesto punto di vista sostanzialmente ecumenico) rimangono a sinistra. Però non posso fare a meno di sottolineare come la loro accusa nei confronti dei curdi (non essersi opposti abbastanza al regime siriano di Assad) sia diametralmente opposta alla condanna senza appello già emessa dal severissimo “Osservatorio Anticapitalista” cioè di non essersi decisamente schierati a fianco di Assad (ritenuto baluardo di antimperialismo e antisionismo).
Forse qualcuno (mi consolo: non solo io) ha le idee un tantino confuse.

Qualche precisazione.
Le brigate di ispirazione anarchica e libertaria operanti in Rojava – e anche in Bakur – sono organiche a quelle dei marxisti-leninisti turchi del MLKP (comunisti, fino a prova contraria) a cui si deve la costituzione nel 2015 della Brigata Internazionale della Libertà (in collaborazione con le Forze unitarie per la Libertà, il fronte rivoluzionario MLSPB e Reconstruccion Comunista, quest’ultima spagnola). Quindi perché polemizzano solo con le componenti libertarie? Cos’è? Coazione a ripetere?
Se la fossero presa soltanto con gli anarchici, forse avrei lasciato perdere: non sono anarchico e credo non serva loro un avvocato d’ufficio. Inoltre, forse per ragioni anagrafiche, non coltivo più troppe speranze sui “domani che cantano”. Eppure, quando qualcuno prova a rimettere in discussione «lo stato di cose presente» (e il suo indispensabile corollario: lo Stato) non posso che augurargli la vittoria. Resto convinto che un giorno, magari fra cento anni, di molti Stati, sistemi economici, ideologie – e ovviamente anche religioni – perfino il ricordo sarà disperso. Invece resteranno, non ho dubbi, i popoli. Alcuni almeno, quelli che faticosamente hanno saputo sopravvivere come Nazioni anche senza Stato. I curdi, appunto. E magari anche i baschi e gli irlandesi.

Come ha sottolineato recentemente Ali Çiçek Debattenblog parlando della «terza rivoluzione» (per la cronaca: è con questa medesima denominazione che i marinai di Kronstadt avevano battezzato la loro nuova insurrezione nel 1921): «La teorica politica Hannah Arendt nel suo studio “Sulla Rivoluzione” analizza la rivoluzione francese, quella americana e altre ancora, per determinare “le caratteristiche fondamentali dello spirito rivoluzionario”. Le riconosce nella possibilità di iniziare qualcosa di nuovo, nell’agire comune delle persone. Affronta soprattutto la questione del perché questo “spirito” non ha trovato una “istituzione” e si è perso nelle rivoluzioni».
In «Potere e Violenza» Hannah Arendt aveva poi scritto: «Se io dico: nessuna delle rivoluzioni, delle quali tuttavia ognuna ha rovesciato una forma di Stato e l’ha sostituita con un’altra, è stata in grado di scuotere il concetto di Stato, con questo intendo qualcosa che ho spiegato nel mio libro sulla rivoluzione: dalle rivoluzioni del 18° secolo in effetti ogni grande sconvolgimento ha sviluppato uno spunto di forma di Stato che indipendentemente da tutte le teorie si determinava a partire dalla rivoluzione stessa, ossia dall’esperienza dell’agire insieme e del voler decidere insieme. Questa nuova forma di Stato è il sistema dei Consigli che, come sappiamo, ogni volta è andato distrutto, annientato o direttamente dalla burocrazia degli Stati Nazione o dai burocrati di partito». Concludendo così: «A me però pare l’unica alternativa che sia comparsa nella storia e che continua a verificarsi».
Effettivamente la formazione spontanea di Consigli appare come una costante di quasi ogni Rivoluzione, almeno di quelle autentiche e non manipolate: da quella francese del 1789 alla Comune del 1871; da quella russa (sia nel 1905 che nel 1917 e poi nel 1921) a Germania e Austria alla fine della Prima Guerra Mondiale; e in quella ungherese del 1956 che iniziò dal Consiglio operaio di una fabbrica di lampadine. Ogni volta spontaneamente, quasi inconsapevolmente. Come se prima di allora eventi simili mai fossero accaduti.
Ali Çiçek Debattenblog non ha dubbi: «Annovero la rivoluzione in Kurdistan, con la sua carica esplosiva che ha per via della sua posizione geograficamente centrale, ma soprattutto per via della sua concezione di rivoluzione e del suo paradigma sociale, nella serie delle grandi rivoluzioni dell’umanità». Ma rispetto alle rivoluzione analizzate da Arendt individua alcune differenze. Innanzitutto il «cambio di paradigma» operato dal movimento di liberazione curdo e dal suo ideologo Apo Ocalan per cui «il PKK è riuscito a scuotere il concetto di Stato ed è riuscito a trovare una “istituzione” per lo “spirito rivoluzionario”, il confederalismo democratico». Inoltre la formazione di consigli nel Rojava «non si è creata spontaneamente, ma è stata una decisione consapevole di una forza organizzata». Per concludere che «il sistema dei Consigli previsto dal movimento curdo si basa su tradizioni rivoluzionarie consapevoli del Medio Oriente e a livello globale e su una teoria, ossia quella del socialismo democratico».
Tra le fonti che hanno maggiormente irrigato l’elaborazione del Confederalismo democratico va ricordato sicuramente il pensatore libertario Murray Bookchin, in particolare con il suo saggio sulla Terza rivoluzione: “The Third Revolution: Popular Movements in the Revolutionary Era”, volume 3. (***) Per Bookchin «la prima rivoluzione» inizia con l’insurrezione delle masse popolari che scacciano il vecchio regime. Subentra poi la «seconda rivoluzione» quando la forza politica si concentra in uno Stato centrale mentre coloro che avevano realizzato la prima rivoluzione vengono allontanati dai processi decisionali. Fin qui un’analisi che collima con quanto scriveva nel 1937 il comunista anarchico Jaime Balius, esponente de Los amigos de Durruti. Non solo. Sembra della stessa opinione anche Andreu Nin, spesso citato sia dal PDAC che dall’Osservatorio Anticapitalista. Citato magari indebitamente visto che Nin ancora nel 1934 aveva rotto con Trotski. Fondatore con Joaquin Maurin del POUM, Andreu Nin finì con il condividere nella sostanza il duro giudizio di Balius sulla soppressione, di fatto se non di nome, dei Soviet in Russia nel 1921 (repressione di Kronstadt e dei maknovisti). Questo almeno è quanto emerge da alcuni scritti di Nin. Per esempio su “La Batalla” del 4 marzo 1937 dove Nin riporta un articolo di Jaime Balius che aveva paragonato la situazione catalana a quella della rivoluzione francese «quando si chiedeva a gran voce la sospensione dei Club, e a quello vissuto in Unione Sovietica, quando si reclamò la soppressione dei Soviet». Sottolineo che Nin riprendeva testualmente, condividendole, le parole (e i timori) di Balius. Solo due mesi dopo, i noti eventi di Barcellona in cui vennero assassinati dagli stalinisti sia Nin che molti militanti della CNT (perfino un fratello di Ascaso) e gli anarchici italiani Camillo Berneri e Francesco Barbieri.
Tornando a Murray Bookchin, forse il grande libertario statunitense in materia di “rivoluzioni” peccava leggermente di ottimismo. Riteneva infatti che dopo la «seconda» dovesse arrivarne (quasi automaticamente) anche una «terza».
Quando «l’organizzazione democratica delle società tentava di riconquistare la forza politica perduta». O tentava almeno di arrestare il Termidoro, l’involuzione burocratica, la militarizzazione… lo stato di polizia o quantaltro. Questo movimento costituisce appunto la «terza rivoluzione». Come appunto nel caso di Kronstadt che nel 1921 si rivoltò contro il monopolio del potere bolscevico rilanciando la parola d’ordine «Tutto il potere ai Soviet!».
Secondo Ali Çiçek Debattenblog l’originalità di Abdullah Ocalan consiste nell’aver saputo ridefinire il ruolo del PKK come «propulsore della terza rivoluzione». Superando la concezione leninista del partito con «un programma che ha come obiettivo la trasformazione in una società democratica, libera e ugualitaria, una strategia comune per tutti i raggruppamenti sociali che hanno interesse in questo programma, e con una tattica che persegue un’organizzazione ampia di gruppi della società civile, ambientalisti, femministi e culturali e in questo non trascura la legittima autodifesa» (di Öcalan vedi «Oltre lo Stato, il Potere e la Violenza»).
Per quanto mi riguarda sostanzialmente concordo. Al momento non vedo altre vie d’uscita (realistiche e praticabili) dalla barbarie del liberismo capitalista nella sua “fase suprema” ormai dilagante. Sempre che fuoriuscirne sia ancora possibile, naturalmente.

CHI SPARA SUI CURDI SPARA SULLA RIVOLUZIONE  (ANCHE SE FORSE NON LO SA)
Allora chi oggi spara sui curdi e sul Confederalismo democratico (per ora a salve, ma il maggio 1937 di Barcellona non lo abbiamo dimenticato) a chi sta sparando in realtà?
Spara sull’esperimento sociale che, qui e ora, rappresenta forse il tentativo più significativo, tra quanto è umanamente possibile, di abbattere e superare radicalmente – nei fatti, non solo nelle intenzioni – l’oppressione, la discriminazione, lo sfruttamento (non solamente dell’uomo sull’uomo e sulla donna, ma anche sul Pianeta che vive, sulla “natura” per capirci…). In sostanza: contro le gerarchie e il potere, comunque inteso.
Questo fuoco incrociato (sia da destra che da sinistra) è rivolto sul diritto all’autodeterminazione, all’autogoverno, all’autogestione.
Chi spara sui curdi dunque spara anche sui Consigli della rivoluzione tedesca; sui Soviet del 1905, del 1917, del 1921; sulla Telefonica di Barcellona, su Berneri e Nin (maggio 1937), sulle collettività dell’Aragona (quelle represse da Lister nell’agosto 1937). Spara sugli zapatisti (sia quelli storici di Emiliano che su quelli di Marcos); sui Lakota di Cavallo Pazzo e sugli eretici ribelli di Gioacchino da Fiore; sulle donne di Barcellona sepolte al Fossar (1714), sui proletari asturiani del 1934 e sui gudaris baschi che si batterono contro Franco. Spara sui ragazzi irlandesi del Bogside a Derry e su quelli di Falls Road a Belfast; sui palestinesi di Sabra e Shatila (1982) e anche su quelli di Tel al-Zaatar (1976, per chi ha dimenticato come andarono le cose). Un elenco pressoché infinito di ribelli caduti insorgendo contro l’esistente reificato. Non avendo altro da perdere che le proprie catene e forse qualche illusione… (****)

E spara anche su milioni di vittime indifese e inermi che non poterono nemmeno ribellarsi. Al massimo tentare, invano, di fuggire… Come Anna Frank, Sara Gesses e, appunto, Walter Benjanim (*****).

In compenso sparando (sempre metaforicamente) sui curdi si rischia di alimentare il fatalismo e la rassegnazione di chi ritiene di dover sempre e comunque affidare servilmente le proprie sorti, personali e collettive al Potere, a uno Stato (e quindi a militari, burocrati, capi, guardie, preti, dirigenti, commissari…).
Non credo proprio che questi “cecchini” anticurdi stiano rendendo un buon servizio alla Rivoluzione sociale comunque intesa. Tanto meno all’umanità oppressa, umiliata e offesa che, almeno in Kurdistan, ha osato sollevare la testa.
(*) Ultimamente si è parlato, anche troppo e talvolta a sproposito delle Brigate LGBT. Ritengo che tale eccessiva “spettacolarizzazione” (intesa, alla Debord, come forma di mercificazione) mediatica di queste vere o presunte “Brigate LGBT”, possa fare il paio con quella sulle donne curde combattenti (tutte “giovani e belle”, eroiche…e poi dimenticate) di un paio di anni fa. The Queer Insurrection and Liberation Army (TQILA) era nata come componente di International People’s Guerrilla Forces (Forze Guerrigliere Internazionali Rivoluzionarie Internazionali). Tale IRPGF è membro di International Freedom Battalion, la Brigata Internazionale della Libertà. In turco: Enternasyonalist Özgürlük Taburu; in curdo:Tabûra Azadî ya Înternasyonal. Questa è l’unità combattente di volontari stranieri (comunisti, anarchici, socialisti, antifascisti… perfino qualche nostalgico di Enver Hoxha, ma non formalizziamoci) che ha operato a fianco delle Unità di Protezione Popolare (YPG) contro le bande dei fascisti islamici dell’Isis. Ripeto: la Brigata Internazionale della Libertà è stata costituita nel 2015 dal Partito Comunista Marxista Leninista (MLKP), delle Forze Unitarie per la Libertà (BÖG), del Fronte Rivoluzionario MLSPB, della formazione spagnola Reconstrucción Comunista. Quindi, ricordo ancora ai detrattori di cui sopra, originariamente l’International Freedom Battalion venne organizzata non da anarchici ma soprattutto da comunisti (marxisti-leninisti) turchi e dichiaratamente si ispirava alle Brigate Internazionali che combatterono contro il franchismo. Da segnalare (negativamente) l’intervento di Maurizio Blondet, uno che per 40 anni ha collaborato con l’editoria di destra. Cristiano integralista e romanista (non in senso calcistico). Senza remore, Blondet spande carriolate di disprezzo nei confronti dei militanti di The Queer Insurrection and Liberation Army definendoli «finocchi». In realtà, a ben guardare, il suo disprezzo va soprattutto ai comunisti; non sembra essersene ancora accorto chi lo mantiene come contatto fisso nel suo blog. Questo mentre cita ripetutamente gli articoli (spesso imprecisi, surreali) del gay dichiarato Thierry Meyssan. Lapsus rivelatore? E che dire dell’ammirazione per Jorg Haider? Ho visto che in alcuni articoli Blondet ha legittimamente celebrato la «Giornata del martirio e dei martiri» in memoria delle vittime cristiane in Siria. Forse bisognerebbe ricordargli le migliaia di cristiani iracheni che avevano trovato rifugio nel Kurdistan “iracheno” e quelli salvati dai combattenti del PKK scesi dalle montagne. Chi ha versato sangue per portare in salvo popolazioni minorizzate (non mi piace “minoritarie”), sia yazidi che cristiani e alawiti, strappandole alle grinfie degli integralisti? YPG e PKK hanno difeso anche villaggi turcomanni, pur essendo stati i turcomanni spesso la longa manus di Ankara contro i curdi (vedi il massacro nel campo profughi di Atrush nel 1997). Paradossalmente in questo caso l’Isis, ugualmente alleato di Ankara, li stava attaccando in quanto… sciiti!?! Quanto al fatto che talora alcune affermazioni dei personaggi citati siano magari condivisibili, ci riporta all’ovvietà per cui anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta.
(**) In merito all’accusa di “sionismo” dispensata talvolta gratuitamente e con eccessiva facilità, osservo soltanto che anche Walter Benjamin (riferimento ricorrente nel sito citato) prese seriamente in considerazione l’ipotesi di trasferirsi in Palestina…“Sionista” pure lui? E Primo Levi allora? Del resto c’è chi sospetta che anche Anna Frank in realtà fosse una “sionista”, magari a sua insaputa.
(***) Un inciso personale. Bookchin l’avevo ascoltato, sotto al tendone allestito dai compagni anarchici di Mestre, al Convegno internazionale anarchico di Venezia nel 1984. Avevo poi scambiato anche qualche battuta (un’amica faceva da interprete, ricordo) ma all’epoca non lo avevo preso adeguatamente in considerazione. Nella polemica di allora tra «ecologia profonda» e la sua «ecologia sociale» mi schieravo con la prima. Peccavo di presunzione ovviamente e mi persi quella che poteva essere una delle interviste più significative della mia vita.
(****) Per qualche ulteriore chiarimento, per quanto parziale, vedi su UIKI onlus:http://www.uikionlus.com/guerra-giusta/ ; e vedi su «Umanità Nova»:http://www.umanitanova.org/2017/10/01/fallacie-e-fandonie/ ma anchehttp://www.umanitanova.org/2017/10/15/quando-il-mio-nemico-e-nemico-del-mio-nemico/. Mi vedo costretto a pubblicizzare anche due dei documenti anti-curdi sopracitati; mi affido al buon senso di chi legge:http://zecchinellistefano.blogspot.it/2017/10/gli-anarchici-provocatori-e-teppisti-al.html e https://www.alternativacomunista.it/content/view/2492/1/
(*****) Su Walter Benjamin suggerisco due letture: «Hannah Arendt -Walter Benjamin, L’angelo della Storia – Testi, lettere, documenti» e «I Benjamin» di Uwe-Karsten.


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