lunedì 27 novembre 2017

Visite al manicomio – Vito Totire

Agli inizi degli anni ottanta decisero di andare a Imola, ogni settimana.
Si arrivava di pomeriggio con borse colme del necessario: quaderni, fogli, pennarelli, ingredienti per cibi e torte, registratore macchina fotografica. Due gruppi: maschi (più scarso) e femmine (più numeroso ed esuberante). Si attraversava il parco fino a metà; alberi giganteschi facevano ala al piccolo corteo, ma dominava anche il rosso spento dei padiglioni. All’entrata un check-point in crisi d’identità; il transito era libero? In entrata quasi, in uscita… La legge 180, approvata da poco…
Entrati, sulla sinistra, una struttura bassa lunga piano terra con studi medici. Targhe su tutti gli edifici: erano in pietra, scritte scolpite a caratteri rossi. In quel tratto di viale comparivano messaggi in bacheca. Un giorno ne comparve uno difficile da ignorare: i risultati delle elezioni. La curiosità indusse a fermarsi: le percentuali di voto erano simili a quelle della città: schiacciante maggioranza comunista. Niente sorpresa, l’isolamento verso l’esterno non aveva avuto particolari effetti nell’ostacolare memoria e identità. In quel pezzo di viale spesso veniva incontro qualcuno, ospite di reparti diversi da quelli frequentati dai gruppi.
Un giorno due persone anziane claudicanti vestite con abiti non proprio attillati. Un uomo e una donna – si tenevano per mano come adolescenti – incuriositi dai colorati visitatori. L’uomo si rivolse al gruppo con un sorriso contagioso. Indicando la persona che lo affiancava, disse gioiosamente: mia marita! Si erano conosciuti lì venendo da storie diverse? Vedovi, internati, vedovi dopo l’internamento? Internati senza famiglia? Segregazione, esks, solitudine, non li avevano uccisi né avevano tolto loro la capacità di gioire e di cercare il contatto con persone che percepivano affini.
Dopo l’edificio basso sulla sinistra, un viale a destra portava alle lavanderie e poi ancora a un’ulteriore fascia verde; anche queste strutture basse, coperture in eternit, bonificate troppo tardivamente, quando il gruppo non frequentava più. A metà del parco il gruppo si divideva: maschi al reparto 17, donne al 10. In passato erano stati i due reparti degli agitati. Affidati a un medico, altruista oltre misura, temerario come pochi al mondo, generoso senza limiti. Veniva da un’esperienza di lavoro a Gorizia: era Giorgio Antonucci, toscano di Firenze. Una sfida: vediamo cosa fai con i più “difficili”.
Quando il gruppo cominciò le visite, mezzi di contenzione nei due reparti non ve n’erano più. Scomparsi da tempo, mai usati nella nuova gestione. Quei due reparti ex-punitivi non avevano più il ruolo di prima nell’organizzazione interna. Altre strategie si adottarono per punire i disobbedienti reclusi. Banditi gli psicofarmaci e le contenzioni, rimanevano evidenti certi postumi, difficili a guarire. Nelle strutture e nelle persone: simboli o effetti di carcerazioni e violenze subìte.
Il gruppo di uomini mise mano alle cartelle con il consenso delle persone per capire meglio la loro storia; il gruppo delle donne era più versato sulle arti grafiche e culinarie ma le cartelle furono lette anche da loro. Giungevano racconti, dal reparto 10, a fine pomeriggio, di torte prodotte con dosaggi non ortodossi, esteticamente non perfette, mangiate con le mani e buonissime, che interrompevano (poco) le produzioni creative – raccolte poi in un filmato e un libro – e sfociate in un progetto di uscita dalla residenza nel parco/prigione per la più giovane delle ospiti; era lì per una malattia sconosciuta persino alla peggiore delle nosografie psichiatriche cioè l’essere orfani e abbandonati.
Il gruppo di maschi, meno empatico, non aveva dimestichezza con torte e cibi. Erano Saverio, entrato in contatto con gli altri nell’approssimarsi di una crisi, come per guadagnarsi garanzie di non essere trattato con violenza; Concetto, non tanto normaleper la psichiatria se le sue risposte al test di Szondi (raccolte per una ricerca) avevano dato risultati disastrosi; Massimo infermiere in psichiatria – padre operaio della Bolognina – e Vittorio, militante politico entrato in contatto con il medico dei reparti, aveva fatto la proposta delle visite a Imola alla sua morosa che aveva detto subito sì.
Un salone grande accoglieva i maschi al reparto 17. Il soffitto poggiava su colonne alte, qualcuno vi si arrampicava riuscendo a mantenere la posizione per tutto il pomeriggio con una capacità di resistenza non comune. Gli specialisti – una volta chiamati alienisti o anche frenologi – parlavano di catatonia cioè una malattia e non una reazione alla reclusione. Era invece l’impegno di un’energia enorme altrimenti destinata a chissà quale esplosione o implosione. Scomparsa la reclusione scomparve la catatonia, salvo qualche tendenza a ripercorrere, per paura del nuovo, strade già solcate…
L’architettura era impressionante: soffitti molto alti forse per facilitare la diluizione delle urla e per smorzarle. Letti di contenzione. Spioncini per controllare il recluso. Sportelli di protezione del televisore: quando andarono in disuso, nessuno più lo spaccò. Le persone rimuginavano lamentazioni, rivolte al passato; troppa la violenza subita per vivere a pieno il presente. Pure i loro disegni rimuginavano lamentele, frammenti di immagini terrifiche, calcoli matematici, simboli espressione di associazioni d’idee. Poco veniva scritto, su invito, mentre le parole fluttuavano eludendo totalmente eventuali controllori di volo.
Un ospite volle farsi fotografare con alle spalle un manifesto del film Orizzonti perduti:camicia bianca ben lunga, robusto, gioviale, mai di cattivo umore, sopracciglia così folte da parere teatrali. Argomento fisso gli insetti mosco-essenziali da cui difendersi – da giovane – nelle campagne di Lugo: un tarantolato romagnolo?
Le cartelle: rendicontazioni di torture da parte di sadici (inconsapevoli?) sicuri della propria scienza.
Ernesto, caduto in depressione per la morte della madre – lutto duro per tutti – studente universitario, sensibile, timido, non apriva più i libri. La famiglia considerò la sua reazione grave malattia. Internato. Aveva beneficiato di tutti i ritrovati del “progresso” psichiatrico. Gli era stato inoculato sangue malarico. Il gruppo dei visitatori non credeva ai propri occhi; lo avevano di fronte a loro, non in una ricostruzione storica di Foucault. Ernesto guardava di sottecchi attraverso occhiali spessi: ancora timido, gentile, a volte quasi pauroso, come al tempo della sua cattura. Ogni pomeriggio donava tabulati di formule matematiche. Gli era pesato non concludere gli studi; avrebbe dedicato la laurea alla mamma. Ma erano tempi in cui si entrava senza possibilità alcuna di uscire. Quando si cominciò a poterlo fare la furia dei medici aveva eroso la sua autonomia possibile. Davvero lo avevano curato senza tregua. Lui timido ma anche “ingrato”: fece trapelare un’esplicita avversione. Non ringraziò i medici delle “amorevoli” cure dando l’occasione ai carcerieri di confermare la diagnosi. «Ha persino interpretato l’inoculazione di sangue malarico come una volontà degli psichiatri di danneggiarlo». I familiari avranno annuito sconsolati ma rassicurati (troppo grave perché torni a casa). Ernesto ha resistito come ha potuto, partigiano di un battaglione sconfitto dalla potenza militare del nemico. Un’etichetta per tutti: “il paziente oppone viva resistenza alle cure: trasferito al 17”.
E di resistenti il gruppo ne incontrò tanti; anzi tutti avevano opposto viva resistenza.Antonio era stato sottoposto a dosi quotidiane di esks: panacea universale; terapia buona per tutto anche per impedire la masturbazione e guarire le nevrosi. Anche Antonio veniva dalla Romagna. Ormai libero aveva crisi di panico se gli si proponeva di usare la libertà per andare in un altro parco. Non riusciva a varcare il dissociato check point dell’ospedale. Uscire? Accompagnato? Insufficiente, almeno le prime volte. Dopo mesi riuscì a vincere la paura. Fu dopo un episodio impossibile da dimenticare. Si discuteva dell’uscita, lui appoggiato a un muro oscillava col corpo in avanti in continuazione. Due dei visitatori mettevano in campo le loro capacità per convincerlo. Lui, a un certo punto, uscì dalla sua monotona snervante oscillazione per fare un gesto che pareva una sberla. Il più vicino era Vittorio. Nell’approssimarsi dell’impatto si dipanò un suo percorso mentale: la pericolosità non esiste / Basaglia attaccato dai fascisti / Thomas Sheff-per infermità mentale… Quali i rischi? Da un lato la sberla; dall’altro il ricredersi sulla necessità di abbattere il manicomio. Vittorio aspettò: la mano di Antonio a un millimetro dalla guancia frenò con una potenza impensabile trasformandosi in carezza. Tutto era in salvo: la soddisfazione di non aver tentennato sullo stereotipo, la gioia di un’esperienza impossibile da dimenticare anche se moltopiccola… Ma tanto piccola?
Il gruppo frequentò per oltre un anno. Più passava tempo dal 1978 più il linguaggio della politica reiterava di voler superare il residuo manicomiale. Ma l’inflazione di buone intenzioni fu meno efficace della dipartita del residuo per motivi di età avanzata. Salvo lo stillicidio delle vittime come quelle che muoiono ad armistizio già dichiarato. Un ospite investito sulle strisce pedonali da un’auto (ah se il matto fosse stato tenuto sotto chiave non avrebbe ammaccato la carrozzeria omicida!). E dunque per lesa carrozzeria il medico del reparto fu processato. Oppure l’ospite aggredito da un compagno di sventura di un reparto chiuso con ribaltamento di ruoli da parte dei media.
Andate a visitare il parco se potete, non troverete nessun residuo. Sulle ceneri del manicomio è sorta una fetta di edilizia (popolare?). Ma se concentrate l’attenzione sul fruscio delle foglie, sentirete le risate gentili che tutte scambiavano con Angela, Chiara, Donatella, Giovanna, Manuela, Piera al reparto 10 e i liberatori borbottii cui Concetto, Massimo, Saverio e Vittorio davano significato nel reparto 17, mettendo tutte e tutti in comune quello sprazzo di serenità e di forza cui si riesce a dar vita visitando luoghi difficili.

Nessun commento:

Posta un commento