giovedì 5 dicembre 2019

leggendo della feroce persecuzione verso Julian Assange


«Julian Assange in quella prigione sta rischiando la vita» - Filippo Zanoli
Una lettera collettiva, firmata da 60 medici e pubblicata sul web, mette in guardia le autorità britanniche delle pessime condizioni di salute di Julian Assange.
Il 48enne fondatore di Wikileaks attualmente si trova in un carcere di massima sicurezza a Belmarsh, in attesa di un'estradizione negli Stati Uniti - prevista per febbraio - dove rischia fino a 175 anni di carcere.
L'appello di 16 pagine si basa su alcune «agghiaccianti testimonianze oculari» - scrive il Guardian - riguardanti la sua apparizione davanti al giudice il 21 ottobre e un rapporto redatto da Nils Melzer, Relatore speciale sulla tortura delle Nazioni Unite, che ha affermato: «Se gli abusi e i maltrattamenti non cesseranno, rischia di perdere la vita»
Una tesi, questa, poi ripresa dagli specialisti: «Il signor Assange necessita di urgenti visite mediche che ne determinino le sue condizioni fisiche e mentali», riporta il documento, «se questo non potrà essere possibile in tempi brevi, temiamo che il signor Assange possa perdere la vita in prigione. È una situazione davvero urgente».
Apparso davanti al giudice il mese scorso - dopo 6 mesi - l'ideatore di Wikileaks era apparso emaciato, fragile e in difficoltà. Interpellato dal giudice aveva mostrato un evidente stato confusionale, non riusciva a ricordare nemmeno la sua data di nascita.
Al termine della sessione aveva detto alla corte di non aver capito cosa fosse successo quel giorno, lamentandosi poi delle sue condizioni di detenzione.


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Il lento assassinio di Assange - Michele Paris

In parallelo al grave deterioramento delle condizioni psico-fisiche di Julian Assange, martedì la magistratura svedese ha archiviato per l’ennesima volta l’indagine preliminare a carico del fondatore di WikiLeaks, basata su accuse ultra-screditate di violenza sessuale risalenti a quasi un decennio fa. La decisione della procura di Stoccolma era inevitabile, vista la totale inconsistenza del caso, ma dimostra ancora una volta come il procedimento fosse stato creato ad arte per incastrare Assange. La sua estradizione negli Stati Uniti resta invece ancora molto probabile, come ha testimoniato nuovamente l’udienza preliminare di questa settimana in un tribunale di Londra in previsione del dibattimento vero e proprio fissato per il prossimo mese di febbraio.

La vicenda legale di Assange in Svezia, mai sfociata in un’incriminazione formale, aveva avuto fin dall’inizio due chiarissimi obiettivi, per raggiungere i quali furono manipolati in modo clamoroso sia i fatti alla base delle accuse sia le testimonianze delle due presunte vittime. Il primo era la costruzione di un vero e proprio complotto pseudo-legale necessario a favorire l’estradizione di Assange negli USA. Il secondo per infangare il nome del giornalista australiano, facendolo passare per uno “stupratore” in fuga dalla giustizia, e creare un clima tale da indebolire le resistenze nell’opinione pubblica alla sua persecuzione.
Entrambe le accusatrici o presunte tali, è bene ricordare, intendevano chiedere alle autorità di polizia svedesi soltanto un test HIV per Assange, con il quale avevano avuto rapporti consensuali. Furono la polizia stessa e la magistratura a insistere per una denuncia e in seguito a emettere un ordine di arresto per il giornalista australiano. Inizialmente, anzi, il caso era stato chiuso da un magistrato proprio perché senza fondamento. Assange aveva allora lasciato la Svezia per recarsi a Londra. Solo in seguito, un altro procuratore avrebbe deciso di riaprire le indagini, verosimilmente dietro pressioni di ambienti politici filo-americani, chiedendo un “mandato di arresto europeo” per Assange.
Per anni, le autorità svedesi avevano insistito sulla possibilità di sentire quest’ultimo soltanto di persona e nel loro paese, nonostante i numerosi precedenti di interrogatori condotti in Gran Bretagna o in collegamento video. Assange aveva contestato nei tribunali britannici la richiesta di estradizione, ben sapendo che la Svezia aveva intenzione di mettere le mani su di lui per poi consegnarlo a Washington. Esaurite le strade legali per la sua difesa, il fondatore di WikiLeaks decise nel giugno del 2012 di chiedere asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove sarebbe rimasto fino all’arresto illegale nell’aprile di quest’anno, orchestrato dai governi della Gran Bretagna e del paese sudamericano sotto la guida del nuovo presidente, Lenin Moreno.
Durante la permanenza nella rappresentanza diplomatica ecuadoriana, Assange è stato sottoposto a una lunga serie di violazioni dei suoi diritti, tra cui la sorveglianza continua di tutte le sue attività da parte di una compagnia spagnola al servizio dell’intelligence americana. Come hanno rivelato alcune e-mail pubblicate qualche tempo fa dalla stampa, inoltre, i magistrati britannici avevano insistito con quelli svedesi per prolungare il loro procedimento legale nei confronti di Assange. Il caso sarebbe stato poi archiviato, per la seconda volta, nel maggio del 2017, prima di essere riaperto in seguito al suo definitivo arresto nel mese di aprile.
La nuova archiviazione di questa settimana farà ben poco da un punto di vista legale per aiutare la posizione di Julian Assange. Anche se sfociata nel nulla, l’indagine svedese ha comunque svolto il ruolo per il quale era stata avviata. Nella sua durissima comunicazione al governo di Stoccolma, il relatore speciale sulle torture dell’ONU, Nils Melzer, aveva definito il caso svedese come “il principale fattore che ha innescato, consentito e incoraggiato la successiva campagna persecutoria contro Assange in vari paesi e il cui effetto cumulativo può essere definito soltanto come tortura psicologica”.
Questa campagna ha dato anche l’opportunità a buona parte della galassia “liberal” e finto-progressista occidentale di manifestare il proprio servilismo di fronte al governo degli Stati Uniti attraverso una serie di attacchi incrociati contro Assange per le accuse infondate di stupro, sulla base di premesse ideologiche legate alle politiche identitarie oggi tanto care alla “sinistra” ufficiale. Particolarmente vergognoso è stato il trattamento riservato in questi anni ad Assange da testate come il New York Times e il britannico Guardian, scelti in passato da WikiLeaks per la pubblicazione di documenti riservati del governo americano.
La notizia dell’archiviazione dell’indagine in Svezia deve avere creato qualche malumore nel governo di Londra e nella magistratura britannica. Il caso aperto a Stoccolma aveva infatti lasciata aperta l’opzione di una possibile estradizione verso la Svezia piuttosto che verso gli USA, in modo da permettere agli ambienti implicati nella persecuzione di Assange di consegnarlo a un paese il cui rispetto per i diritti democratici è presumibilmente indiscutibile e dove lo attendeva un procedimento tutto sommato di lieve entità.
In questo modo, la classe dirigente britannica avrebbe potuto in sostanza lavarsi le mani circa la sorte di Assange ed evitare almeno in parte le reazioni dell’opinione pubblica e dei sostenitori del giornalista australiano in caso di estradizione negli Stati Uniti. Dopo che la Svezia ha però chiuso l’indagine preliminare, sarà la magistratura e il governo della Gran Bretagna ad avere la piena responsabilità dell’eventuale consegna di Assange alla vendetta di Washington.
Per avere svolto il proprio lavoro di giornalista, rivelando i crimini dell’imperialismo americano e non solo, Assange rischia di dovere affrontare negli Stati Uniti ben 18 capi d’accusa relativi, tra l’altro, all’hackeraggio di computer governativi e ad attività di spionaggio, rischiando complessivamente fino a 175 anni di carcere. Per evitare lo stop all’estradizione dalla Gran Bretagna, le autorità americane non hanno presentato accuse che potrebbero prevedere la pena di morte. Tuttavia, una volta che Assange sarà nelle mani della giustizia USA, è interamente possibile che simili accuse si aggiungano a quelle già formulate.
La situazione di Julian Assange appare comunque sempre più delicata. Il già ricordato funzionario delle Nazioni Unite ha in più di un’occasione mostrato e denunciato l’illegalità del trattamento a lui riservato da Gran Bretagna e Stati Uniti, così come dall’Ecuador, che lo ha consegnato alle autorità di Londra rinnegando l’asilo concesso nel 2012, e dall’Australia, paese di origine di Assange di fatto sempre rifiutatosi di difendere i suoi diritti.
Oltre al pericolo di un’estradizione negli Stati Uniti, è la stessa vita del numero uno di WikiLeaks a essere oggi seriamente minacciata. La salute di Assange è in continuo deterioramento e, ciononostante, non sembra essere in vista nessun allentamento delle condizioni di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, dove oltretutto il suo diritto alla difesa viene severamente ristretto.
Anche alla luce dell’ostilità dei giudici che stanno presiedendo alla sua causa, alcuni con legami famigliari documentati agli ambienti della “sicurezza nazionale” britannica e americana, è del tutto legittimo pensare che l’opzione preferita dalle autorità britanniche sarebbe precisamente la morte in carcere di Assange. Quello che ammonterebbe a tutti gli effetti a un assassinio di stato di colui che a oggi è forse il più importante detenuto politico del pianeta, risolverebbe molti problemi per Londra, evitando le inevitabili polemiche e proteste che finirà per scatenare l’estradizione verso Washington.
La vicenda Assange, ad ogni modo, ha un’importanza enorme, malgrado il sostanziale disinteresse dei media ufficiali. Al di là delle colossali violazioni dei suoi diritti e del comportamento criminale di almeno cinque governi, una sua condanna avrebbe implicazioni inquietanti per il principio stesso della libertà di stampa. La persecuzione nei confronti di Assange e di WikiLeaks ha infatti come obiettivo ultimo il tentativo di impedire a qualsiasi testata giornalistica la legittima pubblicazione di notizie e materiale riservato, soprattutto se relativo ai crimini e alle operazioni anti-democratiche del governo degli Stati Uniti.

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Assange deve tornare libero, ma WikiLeaks fa parte del passato - Benedetto Vecchi

Julian Assange deve tornare ad essere un uomo libero. Non perché è un anticapitalista, né un fiero avversario dell’imperialismo yankee, né tantomeno un navigato rivoluzionario di professione.
Deve poter continuare a fare quel che ha sempre fatto: veicolare informazione; e esplorare un mondo molto diverso da quello che ha dovuto lasciare precipitosamente sei anni fa quando si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana per sfuggire a una estradizione in Svezia, dove l’attendeva un processo per stupro.
L’ACCUSA CHE ASSANGE ha sempre denunciato come una trappola americana per incastrarlo e poterlo, dopo una prima tappa nel paese scandinavo, segregarlo dietro le sbarre.
Da libero, inoltre, il fondatore di WikiLeaks potrebbe dare un contributo a definire la mappa dei legami, mutevoli nel tempo e nello spazio in una oscillazione tra conflitto e complicità, tra attitudine hacker, media mainstream, servizi di intelligence e poteri economici e politici.
Jillian Assange, lo ha accennato Manlio Dinucci anche su questo giornale il 22 novembre, viene dalla controcultura hacker australiana. In nome della libera circolazione dell’informazione riteneva che il segreto di Stato e i data center delle imprese fossero ostacoli da rimuovere affinché uomini e donne potessero accedere all’informazione senza limiti che non quelli dettati dalla personale curiosità.
Per il superamento di questi limiti, aveva bussato alle porte di molti gruppi hacker; si era presentato anche ad alcuni forum sociali mondiali. Poi la scelta di mettere in piedi WikiLeaks.
In base a questa tesi WikiLeaks convince alcune teste d’uovo di imprese a passare materiali «sensibili» su episodi di corruzione in Africa. Li pubblica sul suo sito, consentendo a chi si collega di scaricarli.
ASSANGE HA CARISMA e determinazione. Scrive buon codice, cosa che gli merita il rispetto dei virtuosi della tastiera; sa parlare in pubblico, catturando l’ attenzione di chi guarda inorridito all’entrata di imprese dentro la Rete, sempre più ritenuta terreno di caccia e da colonizzare per fare business.
Mentre gli Stati nazionali, con i loro servizi di intelligence, puntano di nuovo controllare uno spazio sfuggito al loro controllo. WikiLeaks doveva quindi candidarsi, questo l’obiettivo di Assange, a diventare la organizzazione non governativa che accompagnava si la critica ma anche la cogestione di questa trasformazione in atto.
TUTTO POTEVA PROCEDERE senza grandi scossoni se non fosse entrato in campo un militare che riteneva il suo ruolo antitetico a quanto postulava la linea di condotta della divisa che indossava.
L’esercito Usa doveva garantire pace, democrazia e libertà, ma nei fatti faceva il contrario. Chelsea Manning aveva accesso a dati scottanti riguardanti operazioni dell’esercito a stelle e strisce in Iraq, a partire dall’uccisione di alcuni civili da parte di un elicottero Apache. Materiali che Manning passa a WikiLeaks che li rende pubblici. Assange diviene il responsabile, assieme al traditore Manning.
WikiLeaks è quindi una organizzazione da mettere al bando, Manning, tradito da un hacker amico, viene arrestato, Assange è inseguito da un mandato di cattura internazionale.
QUEL CHE L’INTELLIGENCE statunitense non poteva immaginare era la fila di potenziali whistleblowers che bussano alle porte di WikiLeaks. Assange invece capisce che l’occasione è quella propizia per il grande salto, liquidando con fastidio le critiche di chi lo accusa di accentrare nelle sue mani le decisioni.
Alle accuse di comportarsi come un autocrate, Assange risponde mettendo fuori i dissenzienti. I risultati positivi delle operazioni contro informative di WikiLeaks sono però indubbi. Edward Snowden si fa vivo con le sue informazioni sull’operato non pulito di spionaggio globale della National Security Agency americana. WikiLeaks deve decidere come gestirle. Assange non ha dubbi. Bisogna che nella partita entrino a far parte i «cugini» dei media, che da nemici della verità diventano preziosi collaboratori. Serve tuttavia una copertura politica globale da qualche governo nazionale, individuata nella Russia di Putin e in altre realtà politiche che stanno provando nel continente latinoamericano a sottrarsi all’influenza politica degli Usa.
JULIAN ASSANGE ACCELERA la trasformazione di WikiLeaks in una sorta di intermediario imprenditoriale dei media che si propone sia come organizzazione complementare che come critica al sistema. Una ambivalenza che porta gran parte della galassia militante hacker a prendere le distanze senza però mai giungere a una critica pubblica di WikiLeaks.
La macchina poliziesca messa in campo contro Assange brucia però il terreno di solidarietà attorno a lui. Assange chiede protezione a vecchi e nuovi sodali. Prova più volte a entrare nel gioco politico statunitense, sostenendo di essere in possesso di dati scottanti all’interno di uno schema in base al quale il partito democratico è il nemico da combattere, mentre i repubblicani sono nemici risibili e irrilevanti.
Il carisma di Julian Assange non sarebbe comprensibile senza fare infine riferimento alle sue tesi sul cypherpunk, cioè il diritto all’anonimato di chi è in Rete (cypherpunk è anche titolo del volume pubblicato da Feltrinelli, il manifesto del 13 agosto 2013).
In questa veste di paladino dell’anonimato ne sostiene la piena compatibilità con l’economia di mercato.
Ma è la Rete che è cambiata nel frattempo. È il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza che ha preso forma, facendo leva proprio sulla retorica della libera circolazione delle informazioni. Sono Facebook, Google, Amazon, Apple coloro che mettono insieme velleità libertarie e voglia di profitto all’interno di un modello di business fondato sulla gratuita dell’accesso a servizi, software e informazioni.
In questo scenario WikiLeaks è roba del passato, così come uomo di un’epoca archiviata dallo sviluppo capitalista è Julian Assange. Prova più volte a tornare in gioco. Ma deve vedersela con la voglia di rivincita di funzionari del Pentagono, del ministero della Giustizia, dell’intelligence statunitense.
PUTIN POI PREFERISCE un canale di comunicazione diretto, privilegiato con Donald Trump, cioè con il nuovo inquilino della Casa Bianca e Assange è solo una palla al piede.
Pure l’Ecuador non ne può più della sua presenza, come rifugiato, nell’ambasciata londinese e il nuovo presidente Lenin Moreno dà il via libera all’entrata della polizia inglese nella sede dell’ambasciata, elemento che consente l’arresto di Assange.
Quel che rimane sul terreno sono molti cocci. Più incandescenti sono quelli di chi ha a cuore la libertà della Rete. Cioè le difficoltà di una critica hacker adeguata al capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza. Rimetterli insieme non è facile.
Di sicuro il compito sarebbe facilitato se Julian Assange tornasse ad essere un uomo libero. Perché la rivoluzione, diceva un saggio, marcia con il passo del rivoluzionario più lento. Oppure quella che non lascia indietro neppure un transitorio e contingente compagno di viaggio come è Julian Assange.
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Assange e l’uomo della CIA - Michele Paris
Il carattere illegale e persecutorio del procedimento in atto a Londra contro Julian Assange è stato nuovamente dimostrato nelle ultime settimane con l’emergere di rivelazioni riguardanti un ordine di sorveglianza di tutte le attività del fondatore di WikiLeaks durante la sua permanenza forzata all’interno dell’ambasciata ecuadoriana nel Regno Unito. La notizia, diffusa dal quotidiano spagnolo El País, smonta o dovrebbe smontare definitivamente l’incriminazione di Assange, i cui basilari diritti democratici sono stati ancora una volta fatti a pezzi in maniera deliberata.
Quello del giornalista australiano non è però un caso normale, visto che il suo status di detenuto politico lo espone ancora e nonostante tutto al rischio di estradizione negli Stati Uniti, dove, nell’ipotesi forse nemmeno peggiore, potrebbe trascorrere il resto dei suoi giorni in un carcere federale per il solo fatto di avere rivelato alcuni dei crimini dell’imperialismo americano.
Il 20 dicembre prossimo, Assange sarà interrogato in collegamento video dal giudice spagnolo José de la Mata, titolare del caso che vede alla sbarra David Morales, proprietario della compagnia di “security” UC Global. Quest’ultima era stata reclutata dai servizi segreti dell’Ecuador per “violare la privacy di Assange e dei suoi legali, installando microfoni all’interno dell’ambasciata ecuadoriana senza il consenso delle parti interessante”. Questa attività illegale di sorveglianza a tappeto, come avrebbe ammesso lo stesso Morales, serviva a raccogliere informazioni su Assange e le persone che intendevano fargli visita per poi consegnarle anche alla CIA.
L’aspetto più grave del controllo costante del numero uno di WikiLeaks commissionato da Washington riguarda l’intercettazione di tutte le comunicazioni intrattenute con i suoi legali. La riservatezza degli scambi di informazione tra avvocato e assistito è uno dei principi basilari del diritto in un pese democratico o presunto tale, inclusi gli Stati Uniti. La violazione, oltretutto sistematica, di esso costituisce di conseguenza un motivo ampiamente sufficiente a compromettere la legittimità di un procedimento legale.
Se Assange dovesse essere trasferito negli USA, anche tralasciando la totale infondatezza delle accuse a suo carico, è evidente che il processo a cui sarebbe sottoposto in questo paese risulterebbe falsato da abusi inconcepibili in un procedimento democratico, come ad esempio il fatto che l’accusa sarebbe a conoscenza in anticipo delle strategie difensive dell’imputato.
Per la gravità dei fatti, l’indagine in corso in Spagna minaccia, almeno in linea teorica, l’estradizione stessa di Julian Assange negli Stati Uniti. Per questa ragione, la giustizia britannica aveva inizialmente respinto la richiesta, presentata il 25 settembre scorso, del giudice spagnolo de la Mata di sentire la testimonianza di Assange attraverso uno strumento chiamato Ordine Europeo di Indagine. Secondo El País, il rifiuto aveva creato non pochi “imbarazzi nei circoli legali” di Londra perché simili richieste vengono in genere approvate “in maniera automatica”.
La decisione iniziale delle autorità giudiziarie britanniche era così insolita e ingiustificata, tanto da rivelare apertamente le pregiudiziali anti-Assange, che è stata ribaltata nei giorni scorsi. Il via libera concesso al giudice spagnolo per sentire Assange sulla vicenda UC Global deve avere in ogni caso creato qualche apprensione all’interno del governo di Londra. Il procedere dell’indagine metterà infatti sempre più in luce il comportamento criminale dei governi che hanno orchestrato la persecuzione di Assange, alimentando la crescente opposizione internazionale e le richieste per una liberazione immediata.
Il collegamento tra UC Global e la CIA o, comunque, tra la compagnia spagnola e l’indagine su Assange della giustizia americana era stato confermato da un’altra rivelazione apparsa a inizio novembre su El País. Il quotidiano era entrato in possesso di alcune e-mail inviate da David Morales ai suoi dipendenti nel marzo del 2017 e l’indirizzo IP di questi messaggi indicava la sua presenza in quel periodo nella città di Alexandria, nello stato americano della Virginia.
Questa località, a una manciata di chilometri da Washington e dalla sede della CIA, ospita il tribunale federale che sta indagando su Assange e che ha sottoposto la richiesta di estradizione alle autorità britanniche. Morales si trovava in Virginia proprio in concomitanza con la pubblicazione da parte di WikiLeaks della raccolta di documenti nota come “Vault 7”, relativi alle attività illegali di spionaggio e cyber-sorveglianza su scala globale della principale agenzia di intelligence USA.
Anche se El País non dispone di elementi per confermare le ragioni della trasferta americana di Morales, è altamente probabile che quest’ultimo avesse fornito la propria testimonianza in merito al lavoro della sua compagnia nell’ambasciata ecuadoriana di Londra ai danni di Assange.
Morales è comunque un assiduo frequentatore degli Stati Uniti. Altre informazioni sui suoi spostamenti lo davano ad esempio spesso a Las Vegas, ospite del miliardario americano Sheldon Adelson, per il quale aveva lavorato. Adelson è uno dei più generosi finanziatori del Partito Repubblicano, nonché amico personale del presidente Trump. Da ricordare infine riguardo David Morales è anche che uno dei dipendenti della sua società risulta essere un ex agente della CIA.
Com’è sempre accaduto finora, l’apparire di elementi potenzialmente favorevoli alla battaglia legale di Julian Assange è finito sotto il fuoco incrociato della stampa ufficiale, soprattutto negli Stati Uniti. Il New York Times, tra gli altri, è intervenuto tempestivamente per cercare di minimizzare la questione della sorveglianza condotta da UC Global. La tesi di questi media, che agiscono di fatto da portavoce del governo e dei servizi di sicurezza americani, è che la scandalosa violazione della privacy e dei diritti democratici di Assange è in sostanza giustificata e legittima a fronte delle implicazioni per la “sicurezza nazionale” del suo caso.
La vicenda di Assange ha una serie di risvolti che ne fanno una questione di importanza enorme, non solo per il pericolo che sta correndo la sua stessa vita. L’incriminazione, l’eventuale estradizione e condanna del fondatore di WikiLeaks rappresenterebbero un colpo mortale alla libertà di stampa, dal momento che la sua organizzazione null’altro ha fatto se non svolgere in pieno uno dei compiti del giornalismo, cioè pubblicare documenti di assoluto interesse pubblico che i governi intendono tenere nascosti.
Come dimostrano inoltre gli ultimi sviluppi del caso, in gioco ci sono anche altri diritti democratici fondamentali, messi in pericolo dal tentativo sistematico di cancellare i principi del giusto processo, fissati in primo luogo proprio dalla Costituzione americana. L’intenzione dei governi di Londra e Washington, in collaborazione con quelli di Ecuador, Svezia e Australia, è dunque di fare di Assange un esempio per soffocare qualsiasi voce libera che si opponga alle loro manovre e ai loro crimini.
Davanti a queste forze, sostenute da un apparato mediatico non meno potente, la battaglia per la difesa di Assange non potrà essere vinta affidandosi soltanto al diritto e agli scrupoli democratici di esponenti del potere giudiziario gravemente compromessi con la classe politica britannica e americana. Solo una mobilitazione dal basso che unisca la voce del giornalismo libero e dell’opinione pubblica internazionale sarà in grado di difendere Assange e i principi democratici messi in serio pericolo dalla sua persecuzione.

su Arte tv un reportage intitolato Un mondo senza Julian Assange


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