giovedì 8 agosto 2013

Accadde al ponte di Owl Creek - Ambrose G. Bierce

I
Un uomo stava in piedi sul ponte della ferrovia, nell’Alabama settentrionale, e guardava le acque scorrere rapide sei metri sotto di sé. L’uomo aveva le mani dietro la schiena, i polsi legati da una cordicella. Una fune gli stringeva il collo. Era assicurata a una robusta trave sopra il suo capo e la corda in eccesso gli penzolava all’altezza delle ginocchia. Alcune tavole sconnesse, appoggiate sulle traversine che sostengono le rotaie della ferrovia, reggevano lui e i suoi carnefici: due soldati semplici dell’esercito federale, al comando di un sergente che nella vita civile doveva essere stato un vice-sceriffo. A pochi passi, sulla stessa piattaforma provvisoria, c’era un ufficiale nell’uniforme del suo grado, armato. Era un capitano. A ciascuna estremità del ponte, stava una sentinella col fucile in posizione cosiddetta «spall’arm», vale a dire, verticale davanti alla spalla sinistra, con il cane appoggiato sull’avambraccio piegato ad angolo retto davanti al petto – una posizione regolamentare e innaturale che costringe a un portamento eretto. Non sembrava fosse compito dei due uomini sapere che cosa stesse succedendo in mezzo al ponte; essi si limitavano a bloccare le estremità della passerella che l’attraversava. A parte una delle sentinelle, non c’era nessuno in vista; la ferrovia si inoltrava per un centinaio di metri in una foresta, poi curvava e scompariva. Senza dubbio, un po’ più lontano c’era un avamposto. L’altra sponda del fiume era terreno scoperto: un dolce pendio terminava in una palizzata di tronchi d’albero piantati verticalmente, muniti di feritoie per i fucili e di un’unica strombatura da cui sporgeva la bocca del cannone di bronzo che dominava il ponte. A metà salita, tra il ponte e il forte, c’erano gli spettatori, una compagnia di fanteria in riga, in posizione detta di «riposo», cioè con il calcio del fucile poggiato a terra, la canna leggermente inclinata all’indietro contro la spalla destra e le mani incrociate sulla cassa. A destra della linea stava un tenente, la punta della spada a terra, la mano sinistra poggiata sulla destra. A eccezione dei quattro in mezzo al ponte, nessuno si muoveva. La compagnia che guardava il ponte era immobile, lo sguardo fisso, quasi fosse di pietra. Le sentinelle che guardavano il fiume avrebbero potuto essere statue messe ad abbellire il ponte. Il capitano a braccia conserte, osservava in silenzio il lavoro dei suoi subordinati, senza un cenno. La morte è un dignitario che quando arriva preannunciato va ricevuto con manifestazioni formali di rispetto, anche da coloro che sono in maggiore intimità con lui. Nel codice dell’etichetta militare, silenzio e immobilità sono forme di deferenza. L’uomo che era impegnato a farsi impiccare aveva, all’apparenza, intorno ai trentacinque anni d’età. Era un civile, a giudicare dall’abito da piantatore che indossava. Aveva dei bei lineamenti; il naso dritto, la bocca risoluta, la fronte ampia, i lunghi capelli neri pettinati all’indietro che ricadevano da dietro le orecchie sul bavero della finanziera che gli calzava a pennello. Portava baffi e pizzo, ma non i favoriti; aveva grandi occhi grigio scuro, con un’espressione gentile quale non ci si aspetta da uno con la corda al collo. Evidentemente non era un volgare assassino. Il codice militare nella sua liberalità provvede a impiccare ogni sorta di persone, e i gentiluomini non sono esclusi. Completati i preparativi, i due soldati semplici fecero un passo di lato e tolsero le tavole che li avevano sorretti. Il sergente si girò verso il capitano, fece il saluto militare e si mise proprio alle spalle dell’ufficiale che, a sua volta, fece un passo di lato. Quei movimenti lasciarono il condannato e il sergente alle due estremità della stessa tavola, che copriva tre delle traversine del ponte. L’estremità sulla quale si trovava il civile arrivava fin quasi a toccarne una quarta. La tavola era rimasta in equilibrio sotto il peso del capitano; ora vi rimaneva sotto quello del sergente. A un segnale del primo, il secondo si sarebbe fatto di lato, la tavola si sarebbe ribaltata e il condannato sarebbe caduto tra le due traversine. Egli stesso poteva constatare la praticità e l’efficienza del piano. Non gli avevano né coperto il viso, né bendato gli occhi. Osservò per un attimo il suo «appoggio instabile», poi lasciò che lo sguardo vagasse sull’acqua vorticosa del fiume che scorreva a folle velocità sotto i suoi piedi. Un pezzo di legno che danzava alla deriva attirò la sua attenzione e con gli occhi lo seguì lungo la corrente. Con quanta lentezza sembrava che si muovesse! E che fiume indolente! Chiuse gli occhi per concentrare i suoi ultimi pensieri sulla moglie e sui figli. L’acqua, tinta dall’oro del primo sole del mattino, la foschia che ristagnava sotto le sponde a qualche distanza lungo il fiume, il forte, i soldati, il pezzo di legno; tutto aveva contribuito a distrarlo. Si rese conto che qualcos’altro lo stava infastidendo. A insinuarsi nel pensiero dei suoi cari era un suono che non poteva né ignorare né comprendere, una percussione distinta, acuta, metallica simile al colpo del martello del fabbro sull’incudine; rimbombava allo stesso modo. Si domandò cosa fosse, se provenisse da una distanza incommensurabile o da poco lontano; sembrava l’una e l’altra cosa. Giungeva a intervalli regolari, ma era lento come il rintocco di una campana che suona a morto. Attese ogni colpo con impazienza e, non sapeva il perché, con apprensione. Gli intervalli di silenzio diventavano sempre più lunghi; gli indugi lo facevano impazzire. Più i suoni si diradavano, più aumentavano d’intensità e d’acutezza. Gli ferivano le orecchie come colpi sferrati da un coltello; aveva paura di mettersi a urlare. Quello che udiva era il ticchettio del suo orologio Dischiuse gli occhi e vide di nuovo l’acqua sotto di sé. «Se riuscissi a sciogliermi le mani», pensò, «potrei liberarmi del cappio e gettarmi nel fiume. Immergendomi potrei schivare le pallottole e nuotando con tutte le forze raggiungere la riva, prendere per i boschi e fuggire verso casa. La mia casa, grazie a Dio, per ora è fuori dalle loro linee; mia moglie e i bambini non sono ancora stati raggiunti dall’avanzata dell’invasore». Mentre questi pensieri, che è stato necessario tradurre qui in parole, attraversavano come in un lampo la mente del condannato, piuttosto che scaturirne, il capitano fece un cenno al sergente. Il sergente si spostò di lato.

II
Peyton Farquhar era un piantatore agiato, di un’antica e assai rispettata famiglia dell’Alabama. In quanto proprietario di schiavi, e come gli altri proprietari di schiavi impegnato in politica, era un secessionista nato, ardentemente devoto alla causa del Sud. Circostanze di natura urgente che non è necessario riferire qui, gli avevano impedito di arruolarsi nel valoroso esercito che aveva combattuto le disastrose campagne terminate con la caduta di Corinth, e si logorava nell’ingloriosa impossibilità di agire, desiderando ardentemente dar sfogo alle proprie energie, vivere la vita movimentata del soldato e avere l’opportunità di distinguersi. Quell’opportunità, lo sentiva, si sarebbe presentata, come si presenta a chiunque in tempo di guerra. Nel frattempo faceva quel che poteva. Nessun servizio era troppo umile da assolvere per aiutare il Sud, nessuna avventura troppo pericolosa a viversi se in armonia con il carattere di un civile dal cuore di soldato, e che in buonafede e senza troppe riserve mentali concordava, almeno in parte, con la massima davvero scellerata che tutto è lecito in amore e in guerra. Una sera, mentre Farquhar e la moglie erano seduti su una rozza panca vicino all’ingresso della loro proprietà, un soldato vestito di grigio arrivò cavalcando al loro cancello e chiese un sorso d’acqua. La signora Farquhar fu quanto mai felice di servirlo con le sue diafane mani. Mentre andava a prendere l’acqua, il marito s’avvicinò al cavaliere impolverato e chiese avidamente notizie dal fronte. – Gli yankee stanno riparando la ferrovia – disse l’uomo – e si preparano a un’altra avanzata. Sono arrivati al ponte di Owl Creek, lo hanno sistemato e hanno costruito una palizzata sulla riva nord. Il comandante ha emesso un’ordinanza, che è affissa ovunque, in cui dichiara che qualunque civile sia sorpreso a danneggiare la ferrovia, compresi ponti, gallerie o treni, verrà impiccato con giudizio sommario. Ho visto personalmente l’ordinanza. – Quanto dista il ponte di Owl Creek? – domandò Farquhar. – Circa trenta miglia. – Ci sono soldati da questa parte del fiume? – Solo una pattuglia di picchetto a ottocento metri più in là, sulla ferrovia, e una sola sentinella da questa parte del ponte. – Supponete che un uomo, un civile desideroso di far esperienza d’impiccagione, eluda la pattuglia di picchetto, e magari abbia la meglio sulla sentinella – disse Farquhar con un sorriso – Che cosa potrebbe fare? Il soldato rifletté. – Ci sono stato un mese fa – rispose -. Ho notato che la piena dell’inverno scorso ha depositato contro il pilone di legno da questa parte del ponte una gran quantità di legna galleggiante. Adesso è secca e brucerebbe come stoppa. La signora aveva portato l’acqua e il soldato ne bevve. La ringraziò cerimoniosamente, fece un inchino al marito e cavalcò via. Un’ora dopo il tramonto, riattraversò la piantagione, puntando a nord nella direzione dalla quale era venuto. Era un esploratore federale.

III
Quando Peyton Farquhar piombò in basso in mezzo al ponte, perse coscienza e fu già come morto. A risvegliarlo da quello stato – secoli dopo, gli parve – fu il dolore di una forte pressione alla gola, seguito da un senso di soffocamento. Acuti e cocenti parossismi d’agonia sembravano sfrecciargli dal collo per ogni fibra del corpo e delle membra. Era come se i dolori saettassero alla velocità del lampo lungo linee di ramificazione ben definite e pulsassero a intervalli di una rapidità inconcepibile. Erano come correnti di fuoco vibrante che lo riscaldavano a una temperatura insopportabile. L’unica sensazione che provava in testa era quella di pienezza, di congestione. Le sensazioni non erano accompagnate da pensieri. La parte intellettiva della sua natura si era già cancellata; poteva solo sentire, e sentire era un tormento. Aveva coscienza del movimento. Avvolto da una nube luminosa di cui egli era soltanto il centro rovente, privo di sostanza materiale, percorreva archi d’oscillazione impensabili, come un enorme pendolo. Poi, d’improvviso, con tremenda subitaneità, la luce che lo circondava sfrecciò verso l’alto con un tonfo fragoroso; ebbe nelle orecchie un rombo spaventoso, e tutto fu freddo e buio. Era di nuovo in grado di pensare; sapeva che la corda si era spezzata e che era caduto nel fiume. La sensazione di strangolamento non peggiorò; il cappio intorno al collo lo stava già soffocando e impediva all’acqua di entrargli nei polmoni. Morire impiccato in fondo a un fiume! L’idea gli parve ridicola. Aprì gli occhi nell’oscurità e vide sopra di sé un bagliore di luce, ma com’era distante, com’era inaccessibile! Stava ancora sprofondando perché la luce si fece sempre più fioca finché fu solo un baluginio. Poi prese a crescere d’ampiezza e d’intensità, ed egli si rese conto che stava risalendo in superficie; con riluttanza, perché adesso si sentiva a proprio agio. «Finire impiccato e affogato», pensò, «non è poi così male; ma non voglio che mi sparino. No, non lascerò che mi sparino, non è giusto». Non aveva coscienza di alcuno sforzo, ma una trafittura al polso lo informò che stava cercando di liberare le mani. Rivolse l’attenzione a quel divincolarsi, come un ozioso che osservi le imprese di un prestigiatore senza nutrire alcun interesse nel risultato. Che sforzo eccezionale! Che forza straordinaria, sovrumana! Quello sì, era un bel cimento! Complimenti! La corda si sciolse; le braccia si divisero e fluttuarono a galla, le mani appena visibili da una parte e dall’altra nella luce crescente. Le fissò con genuino interesse mentre prima una poi l’altra si avventavano sul cappio che gli stringeva il collo. Lo strapparono e lo scagliarono ferocemente da una parte e quello ondeggiò come un serpente d’acqua. «Rimettetelo! Rimettetelo!». Pensò di aver gridato alle mani, perché dopo lo scioglimento del cappio, si erano susseguite le fitte più atroci che avesse mai provato in vita sua. Il collo gli doleva orribilmente; aveva la testa in fiamme; il cuore, i cui battiti si erano fatti deboli, diede un balzo e sembrò uscirgli dalla gola. Tutto il corpo era torturato e straziato da un dolore insopportabile! Ma le mani disobbedienti non prestarono attenzione all’ordine. Battevano l’acqua vigorosamente con rapidi colpi verso il basso, spingendolo in superficie. Sentì la testa emergere; gli occhi furono accecati dalla luce del sole; il petto s’allargò tra le convulsioni, e con un dolore supremo, finale, i polmoni inghiottirono una gran boccata d’aria, che egli espulse all’istante con un grido! Adesso era in pieno possesso dei sensi fisici. A dire il vero, erano straordinariamente attenti e vigili. Qualcosa nel subbuglio spaventoso subìto dal suo organismo li aveva esaltati e acuiti ed essi registravano avvenimenti mai percepiti in precedenza. Sentì le increspature d’acqua sul suo volto e udì il suono di ciascuna di esse quando lo colpivano. Guardò la foresta sulla riva del fiume, vide ogni singolo albero, le foglie e le venature su ciascuna di esse; vide gli insetti sulle foglie: vide le locuste, le mosche dal corpo iridescente, i ragni grigi che tessevano le tele tra un ramoscello e l’altro. Notò i colori dello spettro in ogni goccia di rugiada su un milione di fili d’erba. Il ronzio dei culici che danzavano sui gorghi del fiume, il battito d’ali delle libellule, i colpi inferti dalle zampe dei ragni d’acqua, simili ai remi che sollevano una barca; tutto emanava una musica percepibile. Un pesce scivolò via sotto i suoi occhi ed egli udì l’impeto del suo corpo mentre fendeva le acque. Era affiorato in superficie col volto in direzione della corrente; in un attimo il mondo visibile sembrò ruotare lentamente facendo perno su di lui, ed egli vide il ponte, il forte, i soldati sul ponte, il capitano, il sergente, i due soldati semplici, suoi carnefici. Erano profili contro il cielo azzurro. Gridavano e gesticolavano, indicandolo. Il capitano aveva estratto la pistola, ma non fece fuoco; gli altri erano disarmati. I loro movimenti erano grotteschi e orribili, le loro forme gigantesche. All’improvviso udì una forte detonazione e qualcosa colpì velocemente l’acqua a pochi centimetri dal suo capo, spruzzandogli il viso. Udì una seconda detonazione e vide una delle sentinelle col fucile imbracciato, e una nube di fumo azzurrognolo che usciva dall’imboccatura. L’uomo in acqua colse l’occhio dell’uomo sul ponte fissare il suo attraverso il mirino del fucile. Vide che era un occhio grigio e ricordò di aver letto che gli occhi grigi sono quelli dalla vista più acuta, e che tutti i tiratori famosi li hanno. Però quello aveva sbagliato il colpo. Un mulinello contrario aveva afferrato Farquhar facendogli compiere un mezzo giro; ora guardava di nuovo la foresta sulla riva opposta al forte. Il suono di una voce chiara, acuta, risuonò in una monotona cantilena alle sue spalle e lo raggiunse sull’acqua con una nitidezza che perforò e attenuò ogni altro suono, persino l’incresparsi dell’acqua nelle orecchie. Benché non fosse un soldato, aveva frequentato a sufficienza gli accampamenti da conoscere il significato terribile di quella lenta, strascicata, aspirata salmodia: il tenente sulla riva stava prendendo parte alle operazioni del mattino. Con quanta gelida spietatezza, con che intonazione calma e uniforme che preannunciava, imponeva tranquillità agli uomini, con quali intervalli accuratamente misurati venivano pronunciate le crudeli parole: – Compagnia, attenti!… Imbracciat’arm!… Pronti! … Puntate! … Fuoco! Farquhar si immerse; si immerse quanto più poté. L’acqua gli ruggì nelle orecchie come la voce del Niagara, eppure udì il rombo attutito della scarica e, risalendo in superficie, s’imbatté in frammenti di metallo curiosamente appiattiti, che scendevano in lente oscillazioni. Certi gli sfiorarono le mani e il volto, poi scivolarono via, seguitando a scendere. Uno gli si infilò tra il colletto e il collo; era fastidiosamente caldo ed egli se lo strappò di dosso. Appena risalì in superficie, boccheggiante per la mancanza d’aria, si accorse di essere stato a lungo sott’acqua; si trovava sensibilmente più a valle, vicino alla salvezza. I soldati avevano quasi finito di ricaricare; le bacchette di metallo lampeggiarono d’improvviso al sole mentre venivano estratte dalle canne, fatte ruotare in aria e ricacciate negli incavi. Le due sentinelle fecero nuovamente fuoco, autonomamente e senza esito. L’uomo braccato vide tutto questo al di sopra della spalla; ora nuotava energicamente col favore della corrente. Il cervello era pieno d’energia come le braccia e le gambe; pensava con la rapidità del fulmine. «L’ufficiale», ragionò, «non ripeterà l’errore di rispettare rigidamente la procedura. Una scarica è facile da schivare quanto un solo colpo. Probabilmente ha già dato l’ordine di sparare a volontà. Che Iddio m’aiuti, non posso schivarli tutti!». Un tonfo spaventoso a due metri di distanza fu seguito da un suono forte e fragoroso, un diminuendo, che sembrò ripercorrere a ritroso il cammino in direzione del forte e si spense con un’esplosione che agitò le acque del fiume da capo a fondo! Una massa d’acqua si incurvò sopra di lui, gli cadde addosso, lo accecò, lo strangolò! Il cannone aveva preso parte al gioco. Mentre scuoteva la testa per liberarsi dalle acque agitate dal colpo, lo udì deviare e ronzare in aria più avanti, e un attimo dopo spaccare e frantumare i rami della foresta. «Non lo rifaranno», pensò; «la prossima volta useranno una scarica di mitraglia. Devo tener d’occhio il cannone; il fumo mi avviserà, la detonazione arriva troppo tardi, si sente quando il proiettile è già partito. Quello è un buon cannone». Improvvisamente si sentì risucchiare e girò su se stesso come una trottola. L’acqua, le rive, le foreste, il ponte ora lontano, il forte e gli uomini: tutto si mischiava e si confondeva. Gli oggetti si distinguevano solo per il colore; cerchi orizzontali di colore era tutto quel che vedeva. Era stato preso in un vortice e avanzava roteando a una tale velocità da fargli venire il capogiro e la nausea. Pochi attimi dopo, fu scagliato sulla ghiaia ai piedi della riva sinistra, la riva meridionale, dietro una sporgenza che lo nascondeva ai suoi nemici. L’arrestarsi improvviso del movimento, l’abrasione che si era procurato a una mano strusciando sulla ghiaia, lo riconfortarono ed egli pianse dalla gioia. Affondò le dita nella sabbia, se la gettò addosso a manciate e la benedisse a voce alta. Erano diamanti, rubini, smeraldi; non riusciva a pensare a niente di bello a cui non somigliasse. Gli alberi sulla riva erano piante ornamentali giganti; notò che erano disposte secondo un ordine, aspirò la fragranza dei loro fiori. Una strana luce rosata splendeva negli spazi tra i tronchi e il vento intonava tra i rami la musica delle arpe eoliche. Non desiderava portare a termine la fuga; si accontentava di rimanere in quel luogo incantato fino a quando lo avrebbero ripreso. Il sibilo e il crepitio della mitraglia tra i rami sopra il suo capo lo ridestarono dal sogno. Il cannoniere beffato gli aveva sparato a casaccio una raffica d’addio. Balzò in piedi, salì a gran velocità sulla riva e si immerse nella foresta. Camminò tutto il giorno, orientandosi sul corso del sole. La foresta sembrava interminabile; da nessuna parte gli riuscì di scoprire una via d’uscita, neppure un sentiero da boscaioli. Non si era mai reso conto di vivere in una regione così selvaggia. La rivelazione aveva qualcosa di inquietante. Al calar delle tenebre, era stanco, aveva le piaghe ai piedi ed era affamato. Il pensiero della moglie e dei figli lo spinse a proseguire. Infine trovò una strada che lo guidò verso quella che sapeva essere la giusta direzione. Era larga e diritta come una strada di città, eppure sembrava non battuta. Non era fiancheggiata da campi, da nessuna parte si vedevano case. Neppure l’abbaiare di un cane che suggerisse l’insediamento umano. Le masse nere degli alberi formavano da entrambi i lati delle pareti verticali convergenti in un punto all’orizzonte, come un diagramma in una lezione di prospettiva. Guardando in alto da quella fenditura nel bosco, vide risplendere grandi stelle dorate dall’aspetto insolito, raggruppate in strane costellazioni. Era certo che fossero disposte secondo un ordine dal significato oscuro e maligno. Da entrambe le parti, il bosco echeggiava di rumori bizzarri tra cui, una volta, due volte, e poi ancora, egli udì distintamente dei bisbigli in una lingua sconosciuta. Il collo gli doleva e alzando la mano per toccarlo, lo sentì orribilmente gonfio. Sapeva che era cerchiato di nero là dove la corda lo aveva stretto coprendolo di lividi. Sentiva gli occhi congestionati; non riusciva più a chiuderli. Aveva la lingua gonfia dalla sete; alleviò la sua febbre cacciandola fuori tra i denti all’aria fresca. Com’era soffice il tappeto erboso che aveva ricoperto la via non battuta! Non riusciva più a sentire la strada sotto i piedi. Senza dubbio, nonostante il dolore, si deve essere addormentato camminando, perché ora vede un’altra scena; forse si è solo ripreso da un delirio. Al cancello casa sua. Tutto è come lo ha lasciato, luminoso e magnifico nel sole del mattino. Deve aver camminato per tutta la notte. Appena spalanca il cancello e si avvia per il grande viale bianco, vede uno svolazzare di abiti femminili; la moglie dall’aspetto giovane, fresco, dolce, scende dalla veranda per andargli incontro. Rimane in attesa in fondo alle scale, con un sorriso di gioia ineffabile, un atteggiamento di impareggiabile grazia e dignità. Ah, com’è bella! Si precipita in avanti a braccia spalancate. Mentre sta per stringerla a sé, sente alla nuca un’esplosione assordante; una luce bianca accecante avvampa tutto intorno a lui col rumore di un colpo di cannone… poi tutto è oscurità e silenzio! Peyton Farquhar era morto; il suo corpo, con il collo spezzato, oscillava gentilmente da una parte all’altra sotto le travi del ponte di Owl Creek. 

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