mercoledì 5 ottobre 2016

Fine di una professoressa - Daniela Pia


Mentre facevo lezione con i miei studenti/esse, oggi,  improvvisamente dal corridoio sono giunte, a più riprese, urla e schiamazzi. Mi sono affacciata pronta ad intervenire ma  un collega mi ha fatto presente che in aula c’era la docente. Torno nella mia aula, chiudo la porta. Passa un quarto d’ora e la bolgia infernale si ripete con cori da stadio e rumore di sedie e banchi sbattuti. Conoscevo la situazione di fragilità della collega e non mi sono potuta trattenere, sono entrata nell’aula e le ho chiesto l’autorizzazione a parlare cosa che mi concesso come una liberazione. Li ho guardati, ragazzetti/e di prima superiore, ridacchiare alle spalle della loro docente, una donna stanca, prossima alla pensione, in evidente difficoltà. Li ho osservati bene nel loro fare branco e li ho descritti, fotografati in quell’atto di bullismo ripetuto ai danni di chi poteva essere loro nonna. Li ho invitati a  fare uno sforzo e guardare ciò che stavano facendo come se in cattedra ci fosse la loro madre, derisa e offesa dalle zanne di ragazzini/e che avrebbero avuto bisogno di un domatore non di un’insegnante. Silenzio. Un silenzio da tagliare a fette. Interrotto dallo sbottare di un piccolo bulletto, fra quelli che strisciavano il banco, che ha sbottato dicendo che il paragone con il mondo animale lo trovava offensivo.
Mi stupisco sempre più, in questa scuola da barricate nella quale insegno ormai da 16 anni, di come i ragazzi/e del biennio stiano perdendo completamente il senso del rispetto, della misura delle loro azioni. ” se prova a farlo a me battermi la fotocopia sulla testa per farmi fare silenzio io le restituisco il colpo, vedrà…” Trovo sconcertante questa cattiveria da bulli/e che viene sfoderata continuamente, contro i compagni e anche contro gli insegnanti. Quei video che circolano in rete e che  cercano di raccontare casi eccezionali di minacce a brutto grugno nelle aule delle nostre scuole, si stanno moltiplicando. Complice una malcelata complicità di genitori che hanno abdicato al loro ruolo, che giocano a fare gli amici, che concedono tutto e tutto scusano: ” ma chi? Mirko? Guardi professoressa non è possibile, Mirko me lo ha giurato e io gli credo, non avrebbe mai minacciato la sua compagna e il docente che lo ha redarguito ” e tu lì a dirle che ci sono fatti, concreti,  che inchiodano il suo Mirko. Ma niente da fare Mirko è un angelo non è maleducato e aggressivo, sono gli altri che lo dipingono così.
La mancanza di sinergia di intenti fra scuola e famiglia, questo tira molla fra regole da rispettare e il “tutto concesso” sta minando definitivamente il lavoro all’interno delle classi;  e-ducere condurre fuori dalla legge del branco certi gruppi in cui si sono instaurate certe dinamiche richiede una fatica mentale e fisica in grado di minare la salute, di distruggere l’autostima e di far finire gli insegnati in pieno  burnout senza che nemmeno se ne accorgano, in piena solitudine e, spesso, senza alcuna solidarietà da parte dei colleghi. Anche per questo Eugenio Tipaldi, dirigente scolastico, ha fatto un appello, a questo Governo di sordi, affinché la categoria degli insegnanti sia riconosciuta tra quelle dei lavori usuranti e che questo riconoscimento non sia riservati solo insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, ma anche quelli della secondaria. Sono dati conosciuti ed ignorati, li ha diffusi uno studio di Vittorio Lodoli D’Oria dal quale emerge che quasi l’80 per cento di chi lavora dietro la cattedra soffre di patologie da stress, le ultime rilevazioni attestano almeno 24mila psicotici e 120mila depressi nella categoria. Infine, ci sono tutte le altre malattie della psiche più lievi ma non per questo da trascurare, come i disturbi dell’adattamento e di personalità.

In situazioni come quelle sopra descritte , immaginare che un insegnante debba lavorare con gli alunni fino a 67 anni è sconfortante e destabilizzante. Ed è così che se la pensione si allontana, ad avvicinarsi di soppiatto può essere , improvvisa, la malattia che  ci coglie impreparati/e e stanchi di combattere. E non vorrei proprio arrendermi a questo futuro prossimo incombente e desolante.

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