sabato 23 novembre 2019

Il patrimonio culturale e l’ambiguo ruolo del FAI - Tomaso Montanari




Non ho ancora letto il libro che Alberto Saibene ha dedicato al FAI, ma conoscendo la cultura e la sensibilità di Antonella Tarpino non dubito che sia un libro da leggere (Il FAI e la sfida per un’Italia migliore).
Ho invece molti dubbi sul fatto che – al di là dell’ottima fede di moltissimi cittadini che contribuiscono alla sua opera – il FAI giochi oggettivamente dalla parte giusta, nella partita per un’Italia migliore.
Il FAI possiede ormai un elenco imponente di siti straordinariamente importanti: come l’abbazia di San Fruttuoso, la Villa dei Vescovi a Padova, Villa Panza di Biumo, il Castello di Avio o il Castello della Manta. Amministrandoli, conservandoli e aprendoli ai cittadini il Fondo svolge un’azione davvero “sussidiaria” a quella dello Stato, un’azione preziosa per la quale tutta la nazione dev’essere grata: perché sospinge questi luoghi monumentali verso una dimensione pubblica, “remando” nel senso storico della Costituzione.
Ma il FAI ha anche preso in concessione alcuni importantissimi monumenti appartenenti allo Stato, come il Giardino della Kolymbetra ad Agrigento e la Villa Gregoriana di Tivoli: e naturalmente c’è una grande differenza tra le concessioni date ai privati for profit, e quelle assegnate al FAI. Tuttavia, è importante notare che qui il FAI non compie un’azione sussidiaria rispetto a uno Stato che fa il proprio dovere: ma, invece, un’azione evidentemente sostituiva e suppletiva di uno Stato in ritirata. E se questo può essere accettabile (o addirittura temporaneamente necessario) come soluzione di emergenza, bisogna però avere ben chiaro che non può configurarsi come un’alternativa “strategica” alla tutela pubblica: come invece gli ultimi due presidenti del FAI (Ilaria Borletti Buitoni e Andrea Carandini) hanno provato a sostenere, con posizioni in cui si può intravvedere ciò che, in un contesto più largo, Giovanni Moro ha definito «una specie di alleanza tra neoliberismo e cultura delle opere pie, contro lo Stato» (G. Moro, Contro il non profit, Laterza, Roma, 2014, p. 160).
La proposta FAI di conferire una parte del patrimonio culturale pubblico a una sorta di grande fondazione privata modellata sul National Trust britannico appare, per esempio, regressiva: perché il nostro modello è più avanzato di quello inglese sia sul piano cognitivo (perché è basato sull’intreccio continuo tra tutela e ricerca scientifica: che una fondazione privata difficilmente può assicurare), sia sul piano democratico (perché è ancorato a un sistema forte di diritti della persona e attuato da un personale selezionato attraverso pubblici concorsi), sia sul piano dell’efficienza (lo dimostra il livello di conservazione incomparabilmente più alto del tessuto storico delle nostre città, rispetto a quello delle paragonabili città inglesi). È anche opportuno ricordare che, fin dalla legge Ronchey, l’altra faccia delle concessioni for profit (cioè della privatizzazione del patrimonio culturale) è stato l’uso del volontariato: in questo solco un ricorso strutturale al non profit rischia di essere non un’alternativa virtuosa, ma una inconsapevole copertura per la commercializzazione del patrimonio, per lo sfruttamento dei nuovi schiavi della cultura e per il simultaneo, e ormai definitivo, congedo di uno Stato in fuga.
Più in generale, l’idea di uno Stato che si avvale «del terzo settore in modo strategico (così la allora presidente del FAI Ilaria Borletti Buitoni, Il ruolo dei privati insostituibile sostegno per la valorizzazione dei Beni culturali, «Il Sole 24 ore», 23 agosto 2013) confligge frontalmente con il fatto che tutto il nostro modello costituzionale è strutturato «in modo tale che è lo Stato il garante del benessere dei cittadini, e l’accesso ai servizi è, almeno in linea di principio, una garanzia universale e soprattutto una faccenda di diritti» (Moro, Contro il non profit, cit., p. 41). E mentre siamo grati al FAI quando amplia l’orizzonte dei nostri diritti aprendo al pubblico il patrimonio privato, dobbiamo preoccuparci quando iniziamo a dover dipendere da una (pur benemerita) fondazione privata per esercitare il nostro diritto di accedere a un patrimonio pubblico di cui siamo proprietari in quanto cittadini italiani e contribuenti.
Giorgio Bassani diceva che Italia Nostra doveva operare perché un giorno non ci fosse più bisogno di Italia Nostra. Perché, cioè, una diffusa presa di coscienza dell’importanza strategica del patrimonio culturale inducesse i cittadini italiani a pretendere che lo Stato facesse finalmente la sua parte nella tutela e nella apertura dei nostri monumenti. Il mio fondato timore è che invece il FAI operi, più o meno consciamente, perché un giorno non ci sia più bisogno dello Stato.
Tutto questo divenne evidente quando Ilaria dell’Acqua Borletti Buitoni si candidò al Parlamento da presidente in carica del FAI, e, dopo aver donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti, venne nominata capolista in Lombardia. Dopo la sua, non sorprendente, elezione, Scelta Civica chiese che diventasse ministra per i Beni culturali del governo di Enrico Letta: ma, alla fine, dovette accontentarsi di uno dei due posti di sottosegretario, ruolo in cui venne poi confermata da Matteo Renzi. L’autobiografia della sottosegretaria Borletti Buitoni si intitola (con ammirevole autoironia) Cammino controcorrente. Ma certo non andava controcorrente l’ultimo punto delle Richieste del FAI ai politici formulate durante la campagna elettorale in cui la Borletti Buitoni si era candidata: «La gestione ai privati, la tutela allo Stato».
Quando i miei allievi, ottimi storici dell’arte che hanno conseguito il dottorato di ricerca, non riuscendo a trovare un lavoro pubblico nel patrimonio culturale (che muore per mancanza di conservatori) vanno a fare i volontari al FAI penso che, no, questo non è l’inizio di un’Italia migliore: ma è solo quello smontaggio neoliberista dello Stato, quel nostro suicidio collettivo, di cui Luciano Gallino ha fornito le più penetranti descrizioni.

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