martedì 19 novembre 2019

Processi senza fine: l’ultima riforma pericolosa e bislacca di Bonafede e del M5S - Marco Brando




La riforma della prescrizione nei processi penali – fortemente voluta dal M5S e dal suo ministro alla Giustizia, Alfonso Bonafede – sta creando grande scompiglio tra i membri della maggioranza giallo-rossa. Che cos’è la prescrizione? È una causa di estinzione dei reato: quando matura, non si può più procedere nei confronti della persona accusata di aver commesso il fatto; e matura quando questa persona non viene giudicata in modo definitivo entro un determinato periodo di tempo, che varia a seconda del crimine per il quale si procede.
Secondo Bonafede, la sua riforma deve essere attuata dal 1 gennaio 2020: da quel giorno il conto alla rovescia della prescrizione sarà bloccato dopo la sentenza di primo grado, perché in appello e in Cassazione salterà l’estinzione per eccesso di durata. Tuttavia, siccome non è ancora stato deciso niente per quel che riguarda l’accelerazione dei tempi dei processi (notoriamente lunghissimi nel nostro Paese), questi – una volta bloccata la maturazione della prescrizione – potrebbero durare all’infinito e un imputato rischia di rimanere tale a vita. Saranno ben 30.000 all’anno i procedimenti penali che non avranno più scadenza. Ecco l’effetto della cosiddetta “legge spazzacorrotti”: è stata varata a inizio 2019 dalla coalizione M5S-Lega, ma con l’efficacia differita di un anno, cosicché è l’attuale governo a dover fronteggiare la smania giustizialista grillina.
Pd, Italia Viva e Leu non sono favorevoli a questa sedicente riforma, che appare monca, non essendo accompagnata da una credibile calibratura dei tempi del processo penale. Si tratta di ottenere una velocizzazione indispensabile in uno Stato di diritto, sebbene in Italia vari governi e coalizioni abbiamo provato in questi ultimi decenni a metterci mano. Con scarsi risultati. Infatti l’estrema durata dei processi in Italia è stata spesso al centro di ammonimenti e sanzioni milionarie da parte organismi europei e internazionali.
In base ai dati della Commissione del Consiglio d’Europa che si occupa dell’efficienza dei sistemi giudiziari, risulta in modo chiaro che l’Italia sia nelle ultimissime posizioni della classifica. In testa per l’esasperante lentezza ci sono la giustizia civile e amministrativa, mentre quella penale è in teoria il settore più rapido della giustizia italiana: un processo che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio dura in media 3 anni e 9 mesi, però siamo comunque tra i peggiori. Nonostante tutto, i 5Stelle e il ministro Bonafede insistono nello stare in groppa a questo loro cavallo di battaglia, senza porsi in alcun modo un problema: ammesso e non concesso che sia opportuno bloccare la prescrizione penale, bisognerebbe prima creare le condizioni per cui i palazzi di giustizia italiani possano lavorare con tempi meno allucinanti, garantendo finanziamenti, mezzi e personale.
Però, come è noto, la smania purificatrice dei pentastellati (soprattutto quando i processi non riguardano i loro esponenti) non è facilmente sedabile; cosicché il Movimento non intende ascoltare gli attuali alleati e, ovviamente, ancora meno le opposizioni (inclusa la Lega, che ha votato a favore della riforma ai tempi dell’alleanza con il M5S e ora finge di non ricordarsene). L’ultima proposta del Pd consiste nell’indicare i tempi massimi di durata dei processi nelle varie fasi; in caso di superamento, la prescrizione ripartirebbe. Qualcosa di molto simile a quello che prevedeva la riforma dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, cancellata – polemicamente – proprio da Bonafede.
Nell’attesa, qualcuno potrebbe ricordare all’attuale ministro che l’articolo 111 della Costituzione impone di assicurare “la ragionevole durata” dei processi. La pretesa di farli diventare eterni in nome della propaganda populista, senza avere alcuna idea sugli strumenti e i soldi necessari per rendere i processi più rapidi, dimostra quanta incosapevolezza ci sia – in casa pentastellata – a proposito del rapporto tra decoroso funzionamento della giustizia e credibilità di un sistema democratico.
Questa vicenda ricorda un caso accaduto, su un altro fronte, nella Pianura padana tra Piemonte e Lombardia alla fine degli anni Ottanta: i pesticidi usati in agricoltura inquinarono la falda freatica, superando i limiti di contaminazione previsti dalla legge e rendendo necessaria la chiusura degli acquedotti; più 500.000 persone furono rifornite con le autobotti per un po’, finché qualcuno ebbe la brillante idea di innalzare per legge il livello dei contaminanti. Risultato: l’acqua ridiventò “potabile” per decreto, senza bisogno di risanare gli acquedotti. Ora si pensa di spazzare via i corrotti e i criminali, veri o presunti, avvelenando i pozzi della giustizia con i “processi a vita”, piuttosto che risanando l’arrugginita macchina giudiziaria.

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