sabato 15 febbraio 2020

I fatti, le cause e l’ulcera di Napoleone. A proposito di una recente presa di posizione del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti - Nicoletta Bourbaki

  
Venerdì scorso il ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti ha partecipato al convegno «Quale futuro senza la storia?», organizzato dalla Gilda degli insegnanti, e in quell’occasione ha fatto alcune affermazioni sul metodo storico. Il sito di Repubblica ha riassunto così le sue parole:
«Credo molto in un approccio alla Storia che superi la superficialità del libro di testo. È come se raccontassimo la versione libresca del Trono di Spade. La Storia non è solo una sequenza di battaglie, c’è molto di più. Si possono raccontare le cose belle e le imperfezioni dei grandi personaggi del passato. Anche Napoleone aveva paura e aveva l’ulcera.»
Dal video dell’intervento (qui, dal min. 06:27) emerge che Fioramonti ha detto anche altre cose su cui varrà la pena spendere qualche parola. Ci arriveremo tra poco. Intanto cominciamo dai virgolettati riportati da Repubblica.
Il primo commento che verrebbe da fare è questo. «È come se raccontassimo la versione libresca del “Trono di Spade”.» Fioramonti si sarà accorto della gaffe? Qui non si tratta di fare dell’ironia su un ministro che probabilmente non conosce bene uno dei più noti fenomeni recenti della cultura pop, dato che dal modo in cui s’esprime sembra non sapere che la serie tv Il trono di spade è tratta dai libri del ciclo Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin. In realtà, la questione è molto meno banale.


Il ministro dell’istruzione prosegue: «la storia non è solo un insieme di battaglie. C’è molto di più.» Fioramonti fa anche un paio di esempi, che recuperiamo dal video. Di Cesare o di Napoleone, dice, non vanno ricordate solo le battaglie. Va saputo anche che il primo diede un contributo determinante alla dissoluzione di fatto dell’assetto istituzionale della libera res publica, per come s’era delineato, attraverso conflitti e riforme, fino al I sec. a.C.. E che il secondo incaricò una commissione di giuristi di mettere a punto un progetto di codice civile che, una volta approvato nella sua redazione definitiva, fu promulgato il 30 ventoso dell’anno XII (21 marzo 1804) e divenne subito noto, rimanendolo presso i posteri, come Code Napoléon. A dire il vero, nell’offrirci questi esempi, Fioramonti è un po’ meno dettagliato di così, ma i fatti storici a cui si riferisce sono quelli.
In sostanza, se capiamo bene, parrebbe che qui Fioramonti stia dicendo che la storia non deve essere studiata e insegnata come storia evenemenziale. Certo, non si può dire che il problema sia nuovo: se lo erano già posto circa un secolo fa Marc Bloch e Lucien Febvre, e la loro riflessione aveva condotto nel 1929 alla fondazione della rivista Annales d’histoire economique et sociale (pubblicata tuttora con il titolo Annales. Histoire, Sciences Sociales). Ciò ovviamente non vuol dire che da quel momento si sia smesso di fare storia evenemenziale.
Ma allora dove sta l’errore nel ragionamento di Fioramonti? Sta in questo: che se il bersaglio della critica è individuato in modo tutto sommato condivisibile, la soluzione proposta non può essere più sbagliata. L’idea del ministro è che si debbano raccontare anche le imperfezioni dei grandi del passato, per esempio l’ulcera di Napoleone, per farci apparire questi personaggi meno distanti, per porli alla nostra altezza. Quest’idea tocca almeno due problemi fondamentali del metodo storico, tra loro connessi: quello della differenza tra fatti del passato e fatti storici, e quello che solitamente viene chiamato “problema della causalità”.
Non tutti i fatti del passato sono fatti storici. Un fatto del passato diventa un fatto storico, si dice di solito con un buon senso che rasenta la tautologia, quando è considerato tale dalla comunità degli storici, o almeno da una sua parte. Si esprime in questi termini, ad esempio, Edward Carr in un libro giustamente famoso, Sei lezioni sulla storia, uscito nel 1961 e ripubblicato in italiano da ultimo nel 2000 da Einaudi: Carr s’interroga sulla questione che c’interessa nella prima delle sei lezioni, che si legge alle pp. 41–62 della riedizione citata. Prendendo per buona questa risposta, come è opportuno fare, la domanda che ci si deve porre subito di seguito è: perché gli storici considerano storico un fatto? Domanda a cui, sempre seguendo la traccia di Carr, possiamo rispondere così: gli storici considerano storico un fatto perché è per loro rilevante.
Cominciamo a questo punto a capire che il concetto di fatto storico cambia nel tempo e nello spazio: la sensibilità degli storici verso il passato è ovviamente soggetta a mutazioni. Non in ogni tempo e in ogni luogo gli storici interrogano il passato con le stesse domande. Soprattutto, le domande che gli storici rivolgono al passato dipendono in buona misura dalle risposte di cui è in cerca il loro presente.
E allora, tornando all’esempio di Fioramonti, l’ulcera di Napoleone è un fatto storico? Sicuramente lo è stato per molto tempo. Sicuramente lo è stato quando, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento, sotto l’influsso del positivismo, la storiografia maggioritaria riteneva di poter giungere a una conoscenza integrale e puramente fattuale del passato (avalutativa secondo alcuni), registrandone nel modo più completo possibile gli accadimenti. In quella temperie culturale, dunque, l’ulcera di Napoleone non poteva che trapassare dalle minuziose annotazioni dei biografi ai libri di storia.
Qui il problema della storicità di un fatto s’intreccia con quello della causalità. Dice Fioramonti: sapere che Napoleone aveva l’ulcera ci fa capire perché sia spesso raffigurato con una mano sullo stomaco. E sia. Oltre a ciò, però, ben difficilmente si potrebbe sostenere che questo dato biografico ci dica qualcosa sulla sua persona di militare e di politico, sull’ideologia di cui era espressione il suo programma di governo, sui rivolgimenti che agitarono la Francia e l’Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. In fondo, il problema della causalità storica non è altro che questo: spiegare perché e come un fatto storico (meglio: una serie di fatti storici) ha potuto verificarsi. Bisogna ricordarsi che Napoleone ha promulgato il Code civil des français? Certo. Su questo, Fioramonti ha senz’altro ragione. Il punto è cosa farcene di questa nozione, una volta appresa. Se consideriamo la promulgazione del Code Napoléon come fatto in sé, ossia lo astraiamo dalla serie di concause che l’hanno determinato e dalla serie di conseguenze che a sua volta ha causato, stiamo ancora facendo storia evenemenziale: ci stiamo cioè limitando a registrare le singole vicende politiche e militari, senza considerare i processi che le provocano. Insomma, stiamo capendo poco del perché le cose siano andate in un certo modo e non siano andate (o non siano potute andare) in un altro. E il mal di stomaco che pare lo tormentasse tanto, di sicuro non ci aiuta a comprendere perché Napoleone abbia voluto che l’ordinamento statale del quale era al vertice si dotasse di un codice civile. David Foster Wallace, che non era uno storico, ma di logica un po’ s’intendeva, avrebbe forse relegato l’ulcera di Napoleone nell’universo dei fattoidi.
Allora, se vogliamo capire e far capire (che è poi la cosa davvero importante) perché nel 1804 si sia arrivati alla promulgazione del code Napoléon, è probabilmente meglio lasciar cadere i disturbi gastrici del suo eponimo tra i fatti del passato, e volgere lo sguardo altrove. Magari al Discorso del 18 Brumaio, in cui Napoleone, stravolgendo la triade rivoluzionaria, si dichiarava difensore della libertà, dell’eguaglianza e della proprietà. Magari leggendo quel che scriveva uno dei componenti più autorevoli della commissione incaricata di redigere il progetto del Code, Jean-Etienne-Marie Portalis: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero.» O magari commentando quest’altro passo, tratto dall’autodifesa di Karl Marx nel primo processo alla Neue reinische Zeitung: «Ecco in mano mia il codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. È piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel codice una forma giuridica.»
È in modi come questo che si può illuminare il senso dell’operazione politica compiuta con il Code: incentrato com’era (e come lo saranno i codici civili a venire) sull’individuo proprietario quale pieno soggetto di diritto, il code era lo strumento che cristallizzava e tutelava l’ideologia della borghesia uscita vittoriosa dal periodo rivoluzionario. Su tutto questo ha speso parole importanti Stefano Rodotà, in una lezione tenuta nel 2010 all’Università di Macerata, il cui testo è ora incluso, con il titolo La rivoluzione della dignità, nella raccolta -pubblicata postuma- Vivere la democrazia (Laterza 2018).
Torniamo per l’ultima volta all’ulcera di Napoleone. Si dirà: «è solo un esempio, non serve starci troppo a speculare.» Può essere. Non di meno ci sembra un esempio che rivela un’idea molto precisa del modo di fare e insegnare la storia. Un’idea non sostenuta dal solo Fioramonti, sia chiaro, secondo la quale protagonisti della storia restano sempre e comunque i grandi personaggi, che solo vanno resi più umani, rivelandone questa o quella curiosità biografica.
Ma non è questo ciò che permette di non ridurre la storia a «una serie di battaglie»: ciò che permette di farlo è la comprensione dei processi, cioè le catene di cause e gli accidenti che connettono tra loro i fatti storici. Questo significa che le biografie dei personaggi storici non contano nulla? Niente affatto. Purché la biografia, come ogni altro tipo d’indagine storica, abbia davvero un valore conoscitivo, e non si riduca a un accumulo di fattoidi (meno spocchiosamente detti curiosità), annotati solo perché riferibili al grand’uomo di turno, magari proprio con il proposito di renderlo (o farlo tornare) simpatico ai lettori. Detto altrimenti: si tratta di non usare il genere della biografia per fare storiografia dal buco della serratura (sempreché di storiografia in tal caso si possa parlare). L’esempio che facciamo sempre a questo proposito sono i libri di Montanelli su Mussolini usciti alla fine degli anni ’40.

Tutto all’opposto, il grandissimo valore di un saggio come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg (pubblicato in origine da Einaudi nel 1976 e più volte ristampato, in ultimo da Adelphi con una inedita postfazione dell’autore) sta, oltre che nel tratto quasi sperimentale dello stile in cui è scritto, soprattutto in questo: che, sfruttando una serie documentale pressoché inesplorata, e raccontando attraverso di essa la vita del mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, Ginzburg esplora uno strato della cultura delle classi subalterne del XVI secolo che poteva essere portato alla luce solo facendo la biografia di un personaggio singolare e vissuto nella totale oscurità, quale è il protagonista del libro. Appunto, è il valore conoscitivo (o se si vuole euristico) della biografia, di cui dicevamo.
In definitiva, di strategie efficaci per andare oltre la storia evenemenziale, anche sul versante dell’insegnamento, ce ne sono molteplici: qui abbiamo evocato le Annales e la (cosiddetta) microstoria, che nell’ultimo secolo hanno indicato alcune delle vie percorribili. Senz’altro non è una soluzione desiderabile buttare all’aria oltre un secolo di riflessione sul mestiere di storico, e tornare all’idea di una storia come insieme di nozioni, accidenti e aneddoti più o meno curiosi.
Ancora. C’è, nell’intervento di Fioramonti, un altro passaggio che colpisce. Subito dopo la tirata che abbiamo già commentato, «è come se raccontassimo una storia che è un po’ una versione libresca del Trono di spade», Fioramonti aggiunge: «e poi ci lamentiamo del fatto che la società in qualche modo incoraggia la violenza, vede nello scontro e nel conflitto un elemento essenziale. Ma la realtà, la realtà della storia, è ben diversa.»
Sembra dunque che il ministro istituisca un nesso tra il racconto della storia come una sequenza di battaglie e il livello di conflittualità della società. Il che parrebbe a sua volta presupporre una concezione della società tendenzialmente aconflittuale, internamente coesa, in cui lo scontro è il prodotto artificiale di un certo tipo di narrazione. Non saremo di certo noi a disconoscere l’idoneità di alcune pratiche discorsive a generare o acutizzare opposizioni (buona parte delle quali sì, artificialmente indotte) all’interno della società. Anche se riservare per questo alla storia il posto più in vista sul banco degli imputati è piuttosto ingeneroso. Solo, ci limitiamo a precisare che, in una società divisa in classi e plasmata da rapporti di forza, i fattori di conflitto, prima che discorsivi ed estrinseci, sono materiali e intrinseci.
Si ha l’impressione che tutti i governi succedutisi negli ultimi decenni si siano mossi per fare della scuola il luogo della costruzione di un’identità «nazionale» basata sul rifiuto del conflitto e della complessità. Si pensi ad esempio alle ricorrenti operazioni di «memoria condivisa» che hanno portato a vere e proprie falsificazioni del passato quali la parificazione tra shoah e foibe.
Negli ultimi decenni la perenne confusione tra «storia» e «memoria», comunque sia declinata, ha rappresentato un costante attacco al valore della storia come disciplina. L’accento sulla «memoria» rappresenta infatti un potenziamento del discorso retorico a discapito della conoscenza della realtà fattuale. L’ora di storia ondeggia così nel discorso politico tra gli estremi di «ora dell’identità nazionale» e «ora dei buoni sentimenti», trovando un punto d’equilibrio in «ora dell’elogio della legalità e della pace sociale». Va da sé che qui ci riferiamo alla retorica nel senso più deteriore del termine, cioè allo strumento che veicola l’ideologia dominante; non va dimenticato che c’è anche una buona retorica, se per retorica s’intende la tecnica che rende persuasivo il discorso veritiero.
L’insegnamento della storia è, a nostro parere, invece insegnamento del dubbio, della complessità della realtà e di messa in discussione di qualunque forma di identità. A scuola non si può “fare tutto”, ma si può acquisire un metodo utile per rapportarsi criticamente con i fatti del passato come con quelli del presente. Per questo crediamo sia importante che una parte delle (fin troppo scarse) ore di storia venga dedicata ad insegnare l’approccio consapevole alle fonti secondo quello che Marc Bloch chiamava «il metodo critico», illustrato nel suo Apologia della storia o mestiere di storico. Proprio partendo dal suo testo abbiamo provato a suggerire l’adattamento di quella metodologia al web nella nostra guida Questo chi lo dice? E perché?
Lì abbiamo provato a suggerire approcci, schede di analisi ed esercizi per trasmettere l’approccio critico alle fonti sul web. Le reazioni positive e l’interesse che molti insegnanti hanno dimostrato per la nostra guida e per altri strumenti del genere ci fanno pensare che mentre i ministri della pubblica istruzione dicono banalità tratteggiando un insegnamento della storia fermo agli anni Cinquanta una parte della scuola italiana si confronta con i problemi e le urgenze di oggi.

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