domenica 23 febbraio 2020

la longa manus della Fondazione Agnelli sulla scuola - due articoli di Giovanni Carosotti e Rossella Latempa dal sito ROARS

Fondazione Agnelli e Sole 24 ore: insegnanti sfaccendati, non si aggiornano nel modo giusto - Rossella Latempa

Il sole 24 ore e la Fondazione Agnelli hanno a cuore da tempo la formazione degli insegnanti italiani. Recentemente ce lo hanno ricordato con due interventi. Per primo, il direttore Andrea Gavosto si è rivolto direttamente alla neo ministra dell’istruzione Lucia Azzolina per chiedere di superare l”l’ambigua opzionalità” contrattuale della formazione dei docenti italiani, che dovrebbe invece essere “obbligatoria e verificabile”. A breve giro, due giornalisti esperti del settore scuola del Sole 24 ore hanno bacchettato i docenti “tenuti ad iscriversi” tutti- a parer loro -alla piattaforma centralizzata SOFIA per la formazione, implementata dal MIUR nel 2017. Finora, commentano mostrando dati di un monitoraggio ministeriale, pare che gli insegnanti abbiano ignorato l’obbligo: iscritto solo il 50%. Peccato che far passare la notizia che 1 docente su 2 non sia iscritto ad una piattaforma obbligatoria su cui si baserebbe il sistema di formazione sia falso. Non esiste alcun obbligo di iscrizione alla piattaforma SOFIA, la quale non esaurisce le possibilità di aggiornamento per i docenti. Ogni conclusione su quanti docenti si aggiornino è quindi priva di significato. Anche dichiarare che gli insegnanti possano godere di “150 ore di permessi retribuiti, per aggiornarsi” è falso: i giorni effettivi da contratto sono soltanto 5, da richiedere preventivamente al dirigente scolastico che li concede “compatibilmente con la qualità del servizio.” Perché questo interesse e maldestro accanimento? Perché la formazione degli insegnanti italiani è un campo di battaglia sindacale e culturale da sempre; per un settore progressivamente proletarizzato come quello della scuola oggi si intreccia alla retorica della meritocrazia e della trasparenza. Solo l’insegnante che si forma attraverso la piattaforma centralizzata, lasciando traccia burocratica del suo operato, è un “buon insegnante”, ed è meritevole di incentivo salariale. A patto che l’attività abbia “ricaduta in classe”,  “producendo benefici documentabili nel curriculum”. L’aggiornamento deve prevedere un controllo automatizzato ex ante ed ex post, che riduca al minimo “il rumore” generato da scelte dettate da aspirazioni e passioni personali o da motivazioni intrinseche, irriducibili, anzi mortificate dal richiamo dell’incentivo. Una formazione di tipo ingegneristico-logistica, in cui tutto ciò che è implicito o tacito è per definizione inaffidabile.

Il sole 24 ore e la Fondazione Agnelli hanno a cuore da tempo la formazione degli insegnanti italiani.
La recente firma dell’ipotesi di Contratto Collettivo Nazionale integrativo sulla formazione in servizio di insegnanti, personale tecnico-amministrativo ausiliario ed educatori ha riportato il tema alla ribalta. L’occasione è ghiotta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei nuovi vertici ministeriali su un elemento che sarà fondamentale per i lavoratori del comparto, in vista di un possibile e prossimo rinnovo contrattuale.
Per primo, il 20 dicembre scorso, il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, si  rivolge proprio dalle pagine del Sole 24 ore direttamente alla neo ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, sottolineando che:
 La legge della Buona scuola di Renzi aveva previsto l’obbligatorietà della formazione in servizio e dell’aggiornamento: l’ultimo contratto di lavoro nazionale della scuola sottoscritto da Miur e sindacati l’ha invece riportata a un’ambigua opzionalità. In queste settimane sono partite le trattative per il nuovo contratto. Sarebbe grave se – per rincorrere le ventate di populismo che attraversano la scuola – la necessità di rendere obbligatoria e verificabile la formazione in servizio restasse di nuovo lettera morta.
Cosa intende dire la Fondazione Agnelli?
Ad oggi, la formazione in servizio degli insegnanti di ruolo, come tutti i dipendenti pubblici, è regolata dal Contratto Collettivo Nazionale (CCNL), rinnovato dopo oltre 10 anni[1], durante i quali si sono susseguiti blocchi degli scatti stipendiali, operati sia da governi di centro destra che di centro sinistraUn colossale risparmio dello Stato ricavato dai redditi dei lavoratori della scuola, impoveriti drasticamente da una progressiva perdita di  potere d’acquisto.
In sintesi, per punti:
·         La formazione in servizio è un aspetto inerente e specifico della funzione docente, da svolgersi  all’interno delle cosiddette “attività funzionali“, sulla base delle decisioni collegiali.
·         L’impianto contrattuale si interseca con la legge 107/2015 (Buona Scuola) che definisce (comma 124) la formazione in servizio come “obbligatoria, permanente, strutturale” e istituisce il Piano Nazionale della Formazione docenti (DM 797/2016, che non prevede alcun ulteriore obbligo) su cui vale sempre la pena rileggere la lucida analisi all’epoca scritta da Giovanni Carosotti (qui).
·         Per sostenere la formazione, l’aggiornamento e i “consumi culturali” dei docenti a tempo indeterminato nasce la cosiddetta “carta del docente” (DPCM 23 settembre 2015), ossia una quota finanziaria annua di 500 euro…

·         Nel 2017, infine, nasce la piattaforma centralizzata SOFIA, una sorta di luogo virtuale di “incontro tra domanda e offerta di formazione”, un catalogo delle attività fornite da enti certificati (secondo precedente direttiva ministeriale) alle quali “i docenti potranno accedere” (Nota Miur 22272/2017).

In sintesi, dunque:
oggi la formazione è obbligatoria, coerente con le scelte collegiali, e da svolgersi in orario di lavoro oppure può essere autonomamente collocata al di fuori dell’orario di servizio. Per far fronte alle spese, gli insegnanti possono usufruire dei 500 euro della carta del docente.
Quando il direttore della Fondazione Agnelli dichiara la necessità – pena l’essere tacciati di populismo – di “rendere la formazione obbligatoria e verificabile”, allora, cosa intende dire?
La risposta sembra essere:
la formazione deve essere obbligatoria e rendicontabile sia in orario di servizio che non; non è formazione quell’attività che non sia centralizzata e monitorabile in termini di scelte, tempi e risultati. Non deve esistere alcuna possibilità di scelta autonoma da parte dei docenti. Questi cambiamenti sono necessari, dunque devono essere perseguiti senza alcun riferimento alla retribuzione dei lavoratori.

Bruno e Tucci: gli insegnanti non rispettano le regole.
A breve giro, un altro articolo del 13 Gennaio scorso  di Eugenio Bruno e Claudio Tucci, sullo stesso Sole 24 ore, poi ripreso nell’edizione online il 17 Gennaio, torna a battere sul tema, in maniera piuttosto maldestra.

Gli autori bacchettano i docenti, che pur essendo “tenuti ad iscriversi” alla piattaforma SOFIA, sembrano finora aver ignorato l’obbligo: ad oggi è iscritto solo un insegnante su due.

“Un dato che dice già tanto”, commentano. Sarebbero proprio i dati a parlare, suggeriscono gli autori, che rendono conto di un monitoraggio dell’amministrazione centrale[1] a tre anni dal Piano Nazionale di Formazione della Buona Scuola.
Dei “circa 700 mila insegnanti a tempo indeterminato attualmente in organico”- affermano Bruno e Tucci – i 2/3 sembrano aver utilizzato il tesoretto dei 500 euro della carta del docente  “per comprare tablet o pc”; meno di 1/3  libri o corsi di formazione. Eppure i docenti “possono contare su oltre 150 ore di permessi retribuiti, per aggiornarsi”.

Come a dire: nonostante l’obbligo ad aggiornarsi attraverso la piattaforma centralizzata, nonostante l’obolo del governo Renzi (500 euro) e nonostante la possibilità di usufruire di permessi dal lavoro, gli insegnanti preferiscono comprarsi tablet e computer al posto di fare aggiornamento.
Un’operazione mediatica di delegittimazione a cui siamo da tempo abituati, e che suggerisce tra le righe una chiave di lettura di certo non originale, oscillante tra la stereotipata immagine del dipendente pubblico scansafatiche e quella del docente riottoso a qualsiasi cambiamento della sua routine.

I due autori, tuttavia, forse sotto l’urgenza di fare pressione alla nuova ministra, pur essendo tra i redattori esperti del settore istruzione del Sole 24 ore, commettono due macroscopici errori.
1) È falso che “gli insegnanti [siano] tenuti ad iscriversi” alla piattaforma SOFIA: non esiste alcun obbligo di iscrizione. Inoltre le iniziative della piattaforma non esauriscono le possibilità di formazione per i docenti, di conseguenza ogni conclusione su quanti docenti si aggiornino è priva di significato.
Far passare la notizia che 1 docente su 2 non sia iscritto ad una piattaforma obbligatoria su cui si basa il sistema di formazione, è ingannevole.

L’articolato sistema normativo-contrattuale che regola la formazione degli insegnanti non prevede (attualmente) né obblighi di monte ore annuali da svolgere, né obblighi di iscrizione a piattaforme online. Un insegnante può formarsi anche seguendo percorsi non registrati sulla piattaforma, all’interno della quale è infatti prevista la possibilità di “gestire le iniziative formative alle quali hai partecipato e che non sono registrate sulla piattaforma SOFIA” (vedi figura seguente).

Sembrerà paradossale a Bruno e Tucci, come pure al direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto, ma oggi leggere libri di Fisica o di Letteratura seduti alla propria scrivania, o ascoltare una conferenza – di persona o in streaming – sono ancora considerati momenti di formazione personale per un insegnante.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (7320 Marzo 2019) ci ricorda, peraltro, che per gli insegnanti italiani la formazione è parte integrante dell’attività lavorativa: “gli obblighi di lavoro non si esauriscono nell’attività di insegnamento, bensì si estendono a tutte le attività funzionali rispetto alla prima, che comprendono «programmazione, progettazione, ricerca, valutazione, documentazione, aggiornamento e formazione, compresa la preparazione dei lavori degli organi collegiali, la partecipazione alle riunioni e l’attuazione delle delibere adottate dai predetti organi”.
Le “attività funzionali” sono quantificate e disciplinate dagli accordi tra parti e non esistono ulteriori obblighi.
2) È falso che gli “insegnanti [abbiano a disposizione] 150 ore di permessi retribuiti per aggiornarsi”.
Gli autori confondono due istituti contrattuali differenti: i permessi per “il diritto allo studio” con i “permessi per aggiornamento”.
I permessi per il diritto allo studio sono oggetto di contrattazione nazionale integrativa e possono essere concessi, a domanda, sulla base di una serie di criteri, per svolgere attività di studio finalizzate all’acquisizione di titoli o qualifiche (laurea, dottorati di ricerca, attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento, etc)
I giorni effettivi destinati all’aggiornamento e formazione, invece, sono soltanto 5  (CCNL 2016-18), da richiedere preventivamente al dirigente scolastico che li concede “compatibilmente con la qualità del servizio.”

Pensare, come scrivono Bruno e Tucci, che gli insegnanti abbiano a disposizione “150 ore di permessi retribuiti per aggiornarsi” fa davvero sorridere. Significa ritenere possibile che un docente di ruolo – che lavora in classe in media 200 giorni all’anno – possa assentarsi circa 30 giorni (150 ore) per seguire corsi a destra e a manca.
Semplice svista o lapsus rivelatore di un bias determinato da condizionamento delle aspettative? (=  i professori non sfruttano nemmeno i loro “privilegi contrattuali” pur di non lavorare un poco di più).

La formazione come campo di battaglia sindacale e culturale
La formazione degli insegnanti è oggi più che mai un tema delicatissimo, sia da un punto di vista sindacale che culturale. Si intreccia, infatti, alla progressiva proletarizzazione di un intero comparto e alla retorica del “merito”, dell’incentivo e della trasparenza.
Il riformismo ministeriale[2] rigorosamente progressista, con malcelata ironia, intende convincere docenti e sindacati che:
“MENTRE LE LEGGI [..] SONO MOLTO CHIARE SUL DOVERE DELLA FORMAZIONE, IL CONTRATTO DI LAVORO È ASSAI EVASIVO. QUALCHE PRONUNCIA GIURISPRUDENZIALE (BUFFO ANDARE IN TRIBUNALE PER IL PROPRIO AGGIORNAMENTO!) RICHIEDE DI CONTEGGIARE CON PIÙ CERTEZZA LA FORMAZIONE PERMANENTE TRA I PROPRI OBBLIGHI DI SERVIZIO. IL FATTO È CHE LA FORMULA DELLE 40 ORE + 40, AGGIUNTIVE ALL’INSEGNAMENTO, ORMAI È UNA COPERTA TROPPO CORTA (..). NEL FRATTEMPO IL LAVORO DEL DOCENTE È CAMBIATO[..]
FARE FORMAZIONE DEVE ESSERE UNA ATTIVITÀ GRATIFICANTE E CONVENIENTE, CHE PRODUCE BENEFICI DOCUMENTATI NEL PROPRIO CURRICULUM. [..]
IL PROBLEMA NON POTRÀ ESSERE ACCANTONATO RIPETENDO STANCAMENTE CHE NON CI SONO RISORSE [..]
E ancora[3]:
“Nell’attesa di un ripensamento contrattuale complessivo del tempo di lavoro dei docenti, si dovrebbero introdurre meccanismi di incentivazione economica legati alla frequenza delle attività di formazione”.
Pare difficile sostenere l’aggiunta di ulteriori oneri contrattuali non retribuiti ad una categoria che sconta ancora i 10 anni di blocco salariale e scatti stipendiali, ma che nel frattempo si è vista modificare dall’interno, passo passo, l’attività quotidiana. Pensiamo solo alle varie funzioni da assumere a titolo gratuito per far funzionare la “macchina delle riforme”: dal tutoraggio dell’alternanza scuola lavoro nelle scuole secondarie all’obbligo di svolgimento e correzione dei test INVALSI, oggi rimasti in forma cartacea solo alla primaria, dai futuri coordinatori dell’educazione civica onnicomprensiva di Fioramonti, alla rendicontazione, elettronica e non, sempre più diffusa, come prova delle varie attività svolte.
Tuttavia sembra urgente raddrizzare definitivamente quell’impianto di residuale libertà e autonomia insita nel profilo docente; impianto che ne rappresentava la sostanza stessa della professionalità, progressivamente infiacchita da una disciplina del reclutamento e della formazione iniziale frammentata e usata come spot elettorale, priva di qualsiasi visione o progetto culturale.
La strada più breve sembra essere quella di far leva sulle solite categorie morali del merito e dell’etica del buon insegnante, sul bisogno di riconoscimento e approvazione da parte del capo e della comunità di riferimento.
Solo chi si forma è meritevole, e va incentivato. Ma a patto che si formi nel modo giusto: attraverso la piattaforma centralizzata, lasciando traccia burocratica del suo operato, con che attività abbiano “ricaduta in classe”.  È solo questa la formazione che deve “gratificare” l’insegnante di oggi, “producendo benefici documentabili nel curriculum”.
Una formazione di tipo ingegneristico-logistica (Valeria Pinto, 2012[4]), in cui tutto ciò che è implicito o tacito è per definizione inaffidabile; l’aggiornamento deve prevedere un controllo automatizzato, che riduca al minimo “il rumore” generato dalle scelte dettate da aspirazioni e passioni personali o dalle motivazioni intrinseche, irriducibili, anzi mortificate dal richiamo dell’incentivo.
La formazione di cui parlano, indifferentemente, la Fondazione Agnelli, il Sole 24 Ore o gli Ispettori progressisti deve rispecchiare fedelmente gli indirizzi stabiliti a livello centrale, ubbidientemente recepiti dai Dirigenti scolastici e coerentemente integrati, nel loro “atto di indirizzo”, con gli obiettivi quantificabili del Rapporto di Valutazione di istituto e del Piano di Miglioramento.
La scuola oggi è questa qui.

Per finire
Se fosse vero che tutta la formazione accreditata passa dalla piattaforma SOFIA, gli insegnanti non potrebbero seguire corsi della Fondazione Agnelli,  che a quanto pare non rientra tra gli enti accreditati (pur gestendo corsi in accordo con l’Ufficio Regionale del Piemonte, da anni).


Avranno considerato gli autori del Sole 24 ore l’assoluta importanza di monitorare l’affidabilità degli enti accreditati?


[1] Si veda G: Cerini: “Formazione in servizio: com’è andata in questi tre anni?”, in http://www.scuola7.it/2020/166/?page=2.
[2] G. Cerini “Riparte la formazione (in servizio)?”, in Scuola 7, nr.155
[3] G. Cerini, intervento  nota 1.
[4] V. Pinto, “Valutare e punire”, Cronopio, 2012:  pagg. 74-78, in riferimento alla nuova idea di sapere come “epistemologia logistica” e pag. 104 in riferimento ai “meccanismi molteplici [ adoperati] per ridurre al minimo le giacenze della conoscenza [..] o gli elementi di disturbo dei suoi flussi logistici.



La Fondazione Agnelli e la «formazione» concepita per distruggere - Giovanni Carosotti

E’ iniziata la consueta offensiva. Ogni volta che cambiano i vertici del Ministero dell’Istruzione, le associazioni che in questi anni ne hanno più condizionato l’indirizzo politico, in questo caso la Fondazione Agnelli, intendono indicare e porre i paletti entro cui deve rientrare qualsiasi decisione sulla scuola. Di recente il direttore Andrea Gavosto, sul sole 24 ore, si è espresso sia sulla alla formazione in servizio che su quella dei nuovi docenti. Con un’abile strategia che unisce apparente buon senso  a crismi di oggettività, ma che ad attenta lettura appare in tutta la sua faziosità e carica ideologica, la Fondazione Agnelli  appoggia l’avventata proposta della neo ministra Lucia Azzolina: istituire una laurea triennale magistrale biennale abilitante all’insegnamento, considerando sufficiente, per insegnare una disciplina anche nelle scuole secondarie superiori, la semplice laurea triennale (Azzolina: “Nella specialistica abilitante non si continua a studiare la disciplina, ma come la disciplina va insegnata”). Gavosto parte dalla denuncia  qualunquistica di un «ulteriore degrado qualitativo» nella professionalità docente. Non sappiano su quali basi,forse gli esiti OCSE Pisa o Invalsi. Alla Fondazione Agnelli non interessa considerare tutta un’altra serie di possibili cause, più volte dibattute (dall’affidabilità dei test stessi, alle necessarie contestualizzazioni che produrrebbero spiegazioni differenti) e nemmeno domandarsi se tale ulteriore degrado non sia in qualche modo collegato alla sciagurata politica riformatrice che la sua Associazione ha sostenuto in questi anni. A partire da una  presa di posizione iniziale presentata come un’ovvietà -«un concetto semplice, persino ovvio, ma spesso ignorato: saper bene una materia non significa saperla insegnare» – Gavosto conduce un energico attacco ai docenti, a cui sostanzialmente si chiede una totale destrutturazione delle metodologie professionali. La contrapposizione tra conoscenza di una materia e capacità d’insegnarla è tanto falsa quanto demagogica.  Se è possibile avere una notevole conoscenza disciplinare e non sapere adeguatamente trasmetterla, sicuramente non vale il contrario; una conoscenza parziale non permette un efficace insegnamento. L’idea che  per insegnare sia sufficiente la conoscenza disciplinare appresa in una laurea triennale è grottesca, e condurrebbe a definitiva conclusione la ricercata operazione di deculturizzazione delle nuove generazioni. Inoltre, la sola laurea triennale permetterebbe di avere a disposizione un personale docente solo parzialmente padrone della propria disciplina e quindi culturalmente più condizionabile e manipolabile; attento ad ottemperare, in modo servile e sottomesso, alla volontà delle autorità ministeriali di applicare tecniche e metodologie didattiche cosiddette “innovative”. L’idea di fondo è disconoscere la specifica professionalità degli insegnanti, la loro autonomia intellettuale,  per appaltarla ad esperti esterni, magari agenzie di consulenza che non hanno alcun rapporto effettivo con la scuola, che elaborano teorie che gli insegnanti-operatori avrebbero poi solo il compito di attuare.

Il recente intervento su ROARS di Rossella Latempa del 20 gennaio scorso  pone in evidenza una nuova strategia comunicativa messa in atto nell’attuale, confusa fase attraversata dalla politica scolastica, finalizzata a riproporre, in forme decisamente più costrittive, il tema della formazione obbligatoria dei docenti. Si tratta in realtà  di una consueta offensiva, in atto ogni volta che si realizza un cambio al vertice del Ministero dell’Istruzione[1a], a seguito del quale le associazioni che in questi anni ne hanno più condizionato l’indirizzo politico, in questo caso la Fondazione Agnelli attraverso la penna del suo presidente,  intendono indicare e porre i paletti entro i quali deve rientrare qualsiasi decisione inerente alla scuola.  Diventa possibile tollerare alcune modifiche limitate e parziali (spacciate nella propaganda governativa quali testimonianze di discontinuità), purché non si metta in discussione l’impianto di carattere generale, che deve corrispondere a quello realizzatosi con l’approvazione della Legge 107.
Così i due articoli oggetto dell’intervento di Rossella Latempa sono sicuramente intenzionati a condizionare e a indicare la linea alla ministra Azzolina, la quale ha accolto la sollecitazione in maniera entusiastica sulla sua pagina Facebook.

Nostra intenzione è soprattutto soffermarci sull’intervento di Andrea Gavosto, relativo alla formazione auspicata per i nuovi docenti. Per mostrarne innanzitutto –come di consueto per gli interventi del presidente della Fondazione Agnelli- la struttura retorica concepita soprattutto per convincere dei non addetti ai lavori, con un’abile strategia che unisce apparente buon senso a una capacità analitica che si presenta coni crismi della oggettività ma che dimostra invece, a attenta e non ingenua lettura, tutta la sua faziosità e carica ideologica. Il che pone l’importante questione dell’autorevolezza di chi quelle teorie produce, sulla base sostanzialmente di un’autoinvestitura e di un’autolegittimazione, anche se confortata da un continuo sostegno della stampa a maggiore diffusione[1b]. Si pone in questo caso un problema di natura politico-teorica cruciale, ben sintetizzato da Mauro Boarelli nel suo prezioso testo dedicato all’ideologia del merito[2]; ovvero quello degli (pseudo) esperti i quali, sulla base di una presunta capacità di analisi statistico-sociologica, sarebbero in grado di formulare giudizi su un settore il cui fine è la trasmissione di cultura, in modo più pertinente di coloro che sono direttamente coinvolti in questa attività, primi fra tutti gli insegnanti.
Venendo al problema specifico oggetto dell’intervento di Gavosto, teniamo subito ad affermare come nulla abbia fatto perdere d’attualità alle critiche che ponemmo ormai diversi anni fa dedicate al piano di formazione obbligatoria per i docenti.
Da una parte perché quelle obiezioni rimangono sostanziali e i nostri interlocutori polemici non si sono mai peritati di contraddirle; dall’altra perché non si deve cadere nel tranello retorico –che sicuramente verrà teso- di essere rimasti indietro nel dibattito, di non tenere conto delle innovazioni che si sono nel frattempo verificate. Non solo perché, nel campo dell’innovazione didattica, queste non esistono –né sul piano pratico, né su quello dell’elaborazione teorica ci sono state in questo campo delle innovazioni decisive, come del resto il deludente esempio del volume della Fondazione Agnelli dedicato alla “competenze” dimostra[3]-, ma anche perché un atteggiamento diverso equivarrebbe a rassegnarsi al fatto che le innovazioni che stanno destrutturando la scuola italiana abbiano un carattere irreversibile, e così concentrare il dibattito su aspetti marginali e non sulla sostanza dell’impianto autoritario e lesivo della libertà d’insegnamento –oltre che foriero di una sciagurata regressione intellettuale per le generazioni più giovani-, la cui negatività deve rimanere invece centrale nella strategia oppositiva della classe docente.
Ciononostante, sarebbe un errore non scorgere nell’intervento di Andrea Gavosto un salto di qualità nella politica tendente a favorire innovazioni parziali, finalizzate però a rendere definitivi i cambiamenti in atto e a esercitare un’assoluta costrizione verso i docenti, secondo il Piano, già segnalato su Roars, della “formazione di qualità”.
Come spesso capita per tali pronunciamenti, essi si presentano, con palese immodestia, quali esempi di argomentazioni razionali fondate su presupposti oggettivi; ma per comprenderne bene le intenzioni, essi vanno interpretati per ciò che esprimono tra le righe, per le finalità volutamente celate ma pienamente comprensibili a chi voglia valutarle con attenzione. Innanzitutto Gavosto, come di consueto, argomenta in modo da dare l’impressione che non esista contraddittorio possibile a quanto afferma; le pur autorevoli prese di posizione, provenienti dal più disparato mondo intellettuale, in contrasto con la linea della Fondazione Agnelli, vengono sistematicamente ignorate, nella paura che, anche se citate in contraddittorio, possano innescare dei dubbi  ai lettori dei quotidiani cui Gavosto si rivolge, e far crollare l’idea, che è invece intenzione imporre, secondo la quale a un mondo di esperti di tecnica e innovazione didattica si contrappongano degli insegnanti che non si aggiornano, e che agiscono nel loro lavoro secondo una logica improntata allo spontaneismo.
Ma veniamo ai due spunti centrali dell’articolo del presidente della Fondazione Agnelli. Il primo riguarda il consenso, in merito a un’avventata proposta della neo ministra Lucia Azzolina, di istituire una laura magistrale biennale triennale abilitante all’insegnamento, considerando sufficiente, per insegnare una disciplina anche nelle scuole secondarie superiori, una semplice laurea triennale (Azzolina: “Nella specialistica abilitante non si continua a studiare la disciplina, ma come la disciplina va insegnata”). Da una parte Gavosto denuncia in modo qualunquistico un «ulteriore degrado qualitativo» nella professionalità docente. Non sappiano su quali basi egli possa azzardare una simile informazione: immaginiamo che abbia in mente le discussioni relative ai risultati delle prove OCSE Pisa o Invalsi, anche se ciò non è esplicitamente scritto; senza tenere conto di tutta un’altra serie di possibili cause, già più volte dibattute (dall’affidabilità dei test stessi, alle necessarie contestualizzazioni che produrrebbero spiegazioni differenti). Né Gavosto si interroga se tale ulteriore degrado non sia in qualche modo collegato alla sciagurata politica riformatrice che la sua Associazione ha sostenuto in questi anni (sia nell’organizzazione scolastica, sia nelle procedure concorsuali). Tale presa di posizione iniziale risulta però utile per condurre un energico, certamente non nuovo, attacco ai docenti, a cui sostanzialmente si chiede –in continuità con tutte le prese di posizione dei documenti del MIUR di questi anni -che su ROARS abbiamo commentato puntualmente-, una totale destrutturazione delle metodologie professionali.
Un primo elemento di assoluta continuità con la politica riformatrice degli ultimi decenni èla svalutazione del sapere disciplinare, ridotto a puro contenuto strumentale di una strategia comunicativa finalizzata a valorizzare non un ampliamento della personalità culturale dello studente, rafforzando l’autonomia della sua soggettività critico-politica, bensì una capacità operativa capace di agire sulla base di indicazioni debitamente presentatigli (i «comodi prepensati»[4]) in un’illusione di libertà di pensiero e di sapere critico che rischia di trasformarsi invece in puro automatismo reattivo (non a caso il pedagogismo è una teoria educativa che prevede il raggiungimento certo, sulla base di precise tecniche relazionali, dei «risultati attesi») e, come è stato più volte affermato, in un’attività di controllo dello stesso operare dell’intelligenza[5].
L’idea che  per insegnare sia sufficiente una laurea triennale appare già di per sé grottesca, e condurrebbe a definitiva conclusione la ricercata operazione di deculturizzazione nei confronti delle nuove generazioni; se si valutasse in modo non ideologico la qualità contenutistica dei programmi attuali, nonché le ricadute positive sugli studenti, laddove la scuola italiana  può perseguire  i propri obiettivi  in assenza di difficoltà oggettive (che, a nostro parere, non sono per lo più di carattere metodologico), ci si accorgerebbe di quanto una laurea triennale risulti inadeguata per proporre contenuti capaci di realizzare una vera emancipazione intellettuale. È certo però che la sola laurea triennale permetterà di avere a disposizione un personale docente solo parzialmente padrone della propria disciplina e quindi, in virtù di ciò, facilmente condizionabile e manipolabile. Laddove la sua possibilità di successo professionale non risiederebbe più nell’autorevolezza riconosciutagli nel padroneggiare la propria materia d’insegnamento, ma nell’ottemperare, in modo servile e sottomesso, alla volontà delle autorità ministeriali di applicare le metodologie didattiche cosiddette “innovative”.
Conviene a questo punto fare un piccolo salto verso la fine dell’articolo, prima di riprendere tale tematica. Gavosto certo auspica una tale riforma dell’accesso all’insegnamento che renderebbe i docenti facilmente disciplinabili. Si rende però nel contempo conto di come le pratiche di assunzione della scuola non solo andranno a rilento, ma fatalmente  risentiranno del calo demografico in atto. Ragion per cui, il terrore maggiore del presidente della Fondazione Agnelli è quello che nella scuola rimangano gli insegnanti che dovrebbero essere definiti d’esperienza, ma che Gavosto ritiene non al passo coi tempi. Questi, in buona parte, hanno dimostrato di saper resistere alla demagogia della didattica innovativa, e hanno lottato per conservare alla scuola quella capacità di garantire un’alta formazione culturale, limitando i danni che, in particolare sul piano del sapere critico, l’umiliazione del lavoro docente e delle discipline sta gradualmente provocando sui processi di soggettivazione.  Ma soprattutto, in virtù della professionalità acquisita, della quale non devono accettare la delegittimazione, sono consapevoli che la contrapposizione –che Gavosto presenta come un’ovvietà («un concetto semplice, persino ovvio, ma spesso ignorato: saper bene una materia non significa saperla insegnare»)- tra conoscenza di una materia e capacità d’insegnarla è tanto falsa quanto demagogica.  Se è possibile avere una notevole conoscenza disciplinare e non sapere adeguatamente trasmetterla, sicuramente non vale il contrario; una conoscenza parziale non permette un efficace insegnamento. Un docente, per poter tramettere con motivazione e precisione il proprio bagaglio disciplinare, deve possederlo, sul piano della consapevolezza epistemologica, in modo di molto superiore ai contenuti che trasmette. E’ solo la coltivazione continua della materia, l’essere impegnati in una costante ricerca sulla stessa, che permette al docente di immaginare il miglior modo per farla conoscere a chi vi si accosta per la prima volta in modo approfondito[6]. Una laurea triennale, da questo punto di vista, sarebbe totalmente insufficiente, e si limiterebbe a una trasmissione superficiale secondo dispositivi tecnico-comunicativi uniformi e standardizzati.
Giungiamo dunque al cuore delle intenzioni –non dichiarate- del presidente della Fondazione Agnelli. A lui della qualità –eventualmente anche disinteressata- del sapere disciplinare sembra interessare ben poco; della potenza formativa derivante dal conoscere una disciplina nel suo complesso non pare tenere conto. Come ha già argomentato in altri casi,  la scuola ideale per lui sarebbe strutturata per argomenti, rispetto ai quali la scelta dei contenuti disciplinari avverrebbe in modo totalmente strumentale e decontestualizzato. Potrebbero diplomarsi studenti che poco sanno di eventi storici significativi,  che non padroneggiano il bagaglio teorico della ricerca scientifica a favore di un approccio unicamente applicativo, senza neanche essere consapevoli di quanto questa ricercata e voluta ignoranza, che li renderà soggettività sostanzialmente subordinate, recherà loro danno. E a questa deriva che gli insegnanti si ribellano, nel pieno della loro coscienza professionale, sia in riferimento alla disciplina insegnata sia alle metodologie impiegate. Il ritratto carico di disprezzo che emerge della categoria dagli articoli già citati da Rossella Latempa non è altro che una strategia argomentativa che fa da premessa a un intervento coercitivo nei loro confronti e alla loro libertà intellettuale. L’idea è anzi disconoscere la loro specifica professionalità, la loro autonomia intellettuale,  di cui sono invece depositari degli esperti esterni, magari agenzie di consulenza che non hanno alcun rapporto effettivo con la scuola, che elaborano teorie che gli insegnanti-operatori hanno poi il compito di attuare.
Non c’è dubbio che le “facoltà abilitanti” vengano concepite in questo modo; ma già i corsi di formazione cui sono soggetti i neo assunti (tutti impostati sulla didattica per competenze e sulle pratiche innovative, rispetto alle quali si deve dare una totale disponibilità ad applicarle), gli obblighi burocratici cui è costretto l’anno di straordinariato e la pratica del “tutoraggio” (un tempo una delle esperienze professionali più appaganti) sono lì a dimostrarlo. Ed in gioco è, ancora una volta, la qualità democratica della vita scolastica, e della società tutta. Perché ciò che mancherebbe in tali percorsi, e ciò che caratterizza quelli, ancora non definitivamente strutturati, attuali, è la dimensione del pluralismo della ricerca; non si confronteranno più le varie esperienze e i diversi approcci pedagogici –così come li ha tramandati la tradizione filosofico-pedagogica-, ma un unico modo d’insegnare, che fa riferimento a quelle metodologie “innovative” (ovviamente autoproclamatesi tali), che hanno, soprattutto quando vogliono imporsi in modo assertivo, più le qualità dello pseudo-concetto, della pseudo scienza, incapace di accettare le proprie falsificazioni, che la serietà di un approfondimento conoscitivo disinteressato. Abbiamo già cercato di argomentare in questi anni come, dietro espressioni come «formazione pedagogica e didattica», oppure «saper lavorare in squadra con altri colleghi» -comprese anche nell’articolo di Gavosto- si nasconda una falsa collegialità, ovvero una volontà di limitare le libere decisioni del singolo docente –che ovviamente devono realizzarsi nel contesto collegiale innanzitutto del Consiglio di Classe- in nome di prescrizioni che allo stesso arrivano da autorità gerarchiche superiori, fondate proprio da quelli che si ha avuto l’ardire di citare come coloro in possesso delle «evidenze della ricerca psico-pedagogica»[7]. E che gli insegnanti, non solo nel loro legittimo interesse, devono cercare di contenere.
Gavosto ritiene inconcepibile «che un insegnante non sia tenuto a conoscere le innovazioni didattiche»; si tratta ovviamente di un’affermazione buttata a caso, che a un lettore non esperto di scuole può suscitare l’apparenza dell’ovvietà. Gavosto non cita l’autorevole letteratura che disconosce qualsiasi fondatezza a tali innovazioni, le numerose personalità intellettuali di prestigio che l’hanno più volte rimarcato. Ed è giusto che gli insegnanti diffidino di tali posizioni, finché le stesse non si confronteranno, attraverso un lavoro scientifico di spessore, con le argomentazioni della letteratura che li contrasta.
Proviamo allora a essere propositivi, nel tentativo di comunicare alla neo ministra un altro punto di vista, di cui la pregheremmo di tenere conto. Alla quale chiederemmo, al di là di eventuali e legittime differenti valutazioni che potrebbe sostenere, di mantenere gli insegnanti quali suoi principali interlocutori, e non come semplici operatori, il cui lavoro dipenderebbe da elaborazioni di “esperti esterni”, questi sì facilmente in comunicazione con il Ministero; i quali non possiedono alcuna autorità per poter parlare sulla scuola vantando una competenza superiore a quella dei docenti, da essi continuamente delegittimati.
La ministra non può ignorare la numerosa serie di studi pubblicati in questi anni, che denunciano come l’interesse di alcuni poteri per la scuola sia di tipo strumentale, atto a realizzare un disegno strategico finalizzato al controllo dell’istituzione scuola da parte dei principali poteri economici, secondo una classica intenzione della cultura politico-economica neo liberista.  Che la volontà politica da parte di questi poteri è quella di imporre alla scuola un modello di organizzazione lavorativa –quello dell’impresa- che, se definitivamente realizzato, metterebbe a rischio non solo il contenuto irrinunciabile espresso dall’articolo 33 della Costituzione, ma la stessa funzione culturale e civile che la scuola deve attivare secondo i principi costituzionali.[8] Che tale scuola sia finalizzata a creare soggettività subordinate, incapaci di sottoporre a critica il contesto politico e socio-economico in cui sono tenuti a partecipare, quindi docili a fare parte di contesti lavorativi sì collettivi, ma in realtà etero diretti secondo strategie immaginate da una superiore struttura gerarchica, dove l’apparente libertà si coniuga con una maggiore capacità proprio di controllo intellettuale. Dove il sapere viene selezionato non secondo il suo valore, ma per favorire una strategia economica che pretende essa stessa di rappresentare un interesse generale, e quindi di controllare tutti i contesti in cui si organizza il libero sviluppo dell’opinione pubblica.
Una conferma di ciò la si coglie nella pretesa di Gavosto di distinguere tra «abilitazione» e «assunzione»; laddove si afferma che la scuola debba assumere in proprio (un palese auspicare il ritorno della chiamata diretta[9]) sulla base di esclusive esigenze. Esigenze che, come conosciamo bene dai progetti riformatori, non vengono decise dagli insegnanti in prima persona ma, attraverso un sistema di pressione più o meno palese, imposte dall’esterno, sulla base in particolare delle esigenze del mondo produttivo[10]. Basti pensare alla presenza sempre più ingombrante degli stakeholders esterni alla comunità scolastica, alle cui esigenze la scuola deve rispondere; e alla filosofia alla base della «rendicontazione sociale», che le diverse scuole sono state tenute a compilare alla fine dell’anno solare scorso. Fondata sull’idea che le scuole non possano più decidere in autonomia la loro strategia didattica (un’idea che si poteva ancora immaginare implicita in documenti come il PTOF o il RAV, sempre più però compressi nella loro libera espressione da piattaforme vincolanti che indirizzano in modo coercitivo le possibili strategie formative), ma devono per l’appunto “rendere conto” agli stakeholders esterni (i quali a questo punto assumono un potere decisivo sulla programmazione) di avere risposto positivamente alle esigenze da loro espresse.
Come devono organizzare allora gli insegnanti la loro strategia di resistenza culturale?
Innanzitutto rivendicando la loro indipendenza intellettuale dai cosiddetti “esperti” esterni, mostrandosi cioè in grado di cogliere il contenuto ideologico e parziale dei falsi saperi oggettivi (valutativi e tecnocratici) con cui si intende disconoscere la validità delle critiche che i docenti da anni portano avanti al processo riformatore. Questo non vuol dire rifiutare a priori la possibilità di discutere sia un rinnovamento possibile del fare scuola, sia confrontare esperienze diversificate di insegnamento; ma sempre attraverso un confronto trasparente e orizzontale tra le diverse componenti della comunità scolastica, senza che un’opzione rispetto a un’altra costituisca motivo per un inspiegabile vantaggio di progressione di carriera; in modo da rendere la scuola un luogo di ricerca disinteressata, sede di un pluralismo che si pone a modello per una corretta convivenza civile e confronto scientifico. E che, proprio per questo, non può aderire a una logica organizzativa d’impresa; nella consapevolezza che anche i criteri di valutazione del proprio operato devono fondarsi su un confronto tra pari.
In secondo luogo, sul tema specifico della formazione, pretendere di gestirlo in prima persona, rifiutando l’idea che esistano degli esperti in formazione, degli “scienziati” della stessa che, sulla base dei loro autocertificati titoli, pretendono di sapere meglio degli insegnanti ciò di cui essi hanno bisogno in termini di aggiornamento. In fondo, le strategie che avevamo suggerito nell’intervento del 2016, rappresentano ancora una risposta efficace.
Pretendere che i corsi di formazione siano innanzitutto di carattere disciplinare, e che questi siano ancora i più importanti nel qualificare il curriculum di un insegnante. In secondo luogo, che siano gli stessi docenti a programmare il loro iter formativo e, qualora sia possibile, sfruttino le loro competenze acquisite per tenerli in prima persona. Siano in ogni caso loro a decidere, secondo criteri collegialmente condivisi –e non imposti dall’alto da presunti “scienziati dell’educazione”- quali relatori scegliere, sulla base di una valutazione collegiale delle capacità e dei contributi di ordine culturale che potrebbero valorizzare nel gruppo professionale.
Per quanto riguarda le attività di formazione di tipo metodologico, anch’esse devono rispettare il pluralismo presente nel dibattito intellettuale, e non privilegiare alcun approccio rispetto ad altri.
Bisogna smetterla di far precedere l’aggettivo di “innovativo” a certe pratiche, il che ha forse un senso sul piano cronologico ma non certo, se non per una superfetazione ideologica, su quello qualitativo. Peraltro eliminando la grottesca pratica per cui tali aggettivazioni positivamente superlative sono in genere non il prodotto di un giudizio esterno obiettivo, ma coniate da chi tali pratiche le ha concepite o ci ha investito a livello di prestigio e di carriera personale.
Un corso su come potenziare l’efficacia della lezione frontale (dall’uso della voce, dalle varie scansioni e modalità con cui può essere alternata) deve avere la stessa dignità professionale di altre pratiche, che peraltro dovrebbero essere consigliate come modalità parziali di comunicazione didattica, da alternare ad altre, e non come metodi assoluti. Ma tale assolutezza è necessaria, perché il vero scopo di tali innovazioni non è quello di valorizzare il sapere disciplinare, ma scardinarlo; di conseguenza, gli approcci didattici nei quali la disciplina è sintetizzata per argomenti casuali , ne impediscono, come abbiamo sopra accennato, l’autentica realizzazione degli obiettivi formativi (si rilegga a proposito l’illuminante recente intervento di Fernanda Mazzoli su ROARS).
In ultimo, se proprio si è costretti a frequentare corsi di formazione palesemente condizionati dall’ideologia anti pluralista cui abbiamo fatto riferimento, i docenti devono avere il coraggio intellettuale di far valere la propria competenza professionale, affrontando nel corso degli incontri con fermezza il relatore  e far capire che gli insegnanti hanno ancora la capacità intellettuale di reagire alla volontà di «umiliazione»[11] che la teoria dei pseudo esperti sottende. Si tratta, in altri termini, di avviare una vera lotta per il «riconoscimento» professionale, palesemente sotto attacco da diversi anni.
Saprà la ministra Azzolina, ex insegnante, inaugurare finalmente un rapporto autentico tra il suo ministero e l’insieme dei docenti? L’entusiasmo e la condivisione per le prese di posizione di Andrea Gavosto non lasciano ben sperare, e anche lei sembra dirigersi verso la strada del consolidamento definitivo di ciò che, a parole, il partito della ministra aveva affermato di voler radicalmente mettere in discussione. Limitare la pratica del cambiamento ad un abile manovra propagandistica con cui mascherare le intenzioni conservatrici, in linea con quelle auspicate dalle associazioni più ascoltate al MIUR –come ha fatto il ministro Fioramonti- è una strategia di grande debolezza, destinata ad alienare il consenso di quella categoria professionale che pure potrebbe dare un contributo significativo a smuovere il desolante quadro politico.
Ci sembra però che, in questa fase, tra le più decisive per la linea politica assunta dal MIUR –e di questo, come abbiamo visto, sono evidentemente consapevoli le associazioni interessate alla destrutturazione della scuola pubblica- ci sia una mancanza totale di consapevolezza da parte delle forze sindacali che i docenti li rappresentano, se non in alcuni casi aperta ambiguità. E’ questo invece il momento in cui i docenti devono operare una decisa pressione sugli stessi, affinché la protesta venga indirizzata verso le questioni dirimenti (e al centro ci sono l’Esame di Stato, l’INVALSI, e tutto l’impianto della legge 107), e non su aspetti marginali, che non intaccano la frustrazione quotidiana di chi vede, quotidianamente, la distruzione di uno delle istituzioni più decisive per lo sviluppo della democrazia.



[1a] A dimissioni avvenute, si può serenamente stilare un bilancio definitivo dell’esperienza di Fioramonti al MIUR, e considerarla come quella che ha più agito per rendere irreversibili le strategie di controllo della didattica implicite nella Legge 107. Basti pensare alla conferma sostanziale delle nuove modalità dell’Esame di Stato, finalizzate a traghettare la didattica, senza un preventivo parere positivo dei docenti, verso una programmazione strutturata per argomenti (secondo i desiderata più pressanti proprio della Fondazione Agnelli e dell’Associazione Nazionale Presidi), e la contemporanea conferma dell’obbligo delle 90 ore di alternanza scuola-lavoro (ora PCTO) nonché l’obbligatorietà delle prove INVALSI per essere ammessi all’Esame di Stato, la cui moratoria i docenti avrebbero invece accolto con entusiasmo. Nello stesso tempo, l’ex ministro ha mostrato una grande capacità mediatico-comunicativa , facendo credere di avere realizzato inesistenti innovazioni: la più incredibile,  perché da molti ancora oggi ritenuta reale, è quella di avere reintrodotto il tema di storia, mentre si è limitato a confermare  l’inserimento dell’argomento storico in una tipologia di traccia decisamente anti-storica, come quella B (la tipologia C, difatti, non è stata affatto ripristinata; ma su questo ci siamo espressi altrove: https://www.lidentitadiclio.com/caro-ministro-riflessioni-in-tema-dellesame-di-storia/). Ma, soprattutto, si è fatto grande pubblicità per avere inserito un nuovo curricolo dedicato all’educazione ambientale, per il quale è stato intervistato in modo pressoché superficiale anche dalla stampa estera, laddove la vera novità non consiste  nella tematica –già svolta efficacemente nelle scuole da chi ne ha effettiva competenza, ovvero gli insegnanti di scienze naturali- ma nella sua strutturazione trasversale, che spezza le discipline dal controllo dei singoli docenti, ne rende impossibile un’autentica valutazione, la disgrega in argomenti separati senza che degli effettivi problemi ambientali lo studente possa farsene un’idea organica. Anche sulla trasversalità avevamo proposto una riflessione: http://casadellacultura.it/937/la-costituzione-come-cassetta-degli-attrezzi.
[1b] «Questo rapporto nasce a dieci anni di distanza da un passaggio importante nella storia della Fondazione Agnelli: è infatti del 2008 la decisione di concentrare le nostre attività di ricerca nel campo dell’istruzione. Da allora abbiamo affrontato numerosi temi riguardanti principalmente il sistema scolastico, ma anche l’università e la formazione».  Introduzione dI A.Gavotso a, AA.VV. (a.c. di L.Benadusi e S.Molina) Le Competenze, Il Mulino. Bologna 2018. Sulle perplessità nel considerare la Fondazione Agnelli un’associazione esperta in tematiche scolastiche, sulla base unicamente della propria autoproclamazione a questo ruolo, cfr. G.Carosotti, Ignoranza, obiettivo formativo della nuova scuola, in AA.VV. (a.c. di S.Colella, D.Generali, F.Minazzi), La scuola dell’ignoranza, Mimesis, Milano 2019,  pag.146, n°2.
[2] Cfr. Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari 2019, in particolare pp. 71-76.
[3] AA.VV., Le competenze, cit. Più volte, in interventi comparsi nell’ultimo anno, abbiamo fatto riferimento alle contraddizioni interne a questo volume. Per una disamina più completa, si veda l’insieme dei saggi compresi in AA.VV, La scuola dell’ignoranza, cit.
[4] L’espressione, che non mi stanco mai di citare perché ritengo insuperata per definire le unità didattiche come le concepisce la scuola innovativa, è di F. de Giorgi, in Introduzione a H.Giroux, Education and the Crisis of Public Values: Challenging the Assault on Teachers, Students, and Public Education, Peter Lang Publishing, New York 2012; trad.it., Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica, ed. La Scuola, Brescia 2014, pag.9.
[5] Cfr. V.Pinto, Valutare e punire, nuova edizione, Edizioni Cronopio, Napoli 2019, pag.23: ««”l’angusto ugualitarismo tradizionale”, la libertà, alimentata e intensificata oltre misura dai sistemi democratici, può divenire, da forza interna di destabilizzazione, un potente strumento di controllo». Per le citazioni interne al passo, cfr. nota 9.
[6] Non è un caso che, come avevamo ribadito già anni fa, tra i corsi di formazione obbligatoria non sono considerati prioritari quelli disciplinari, a meno che non vengano piegati a metodologie che tendono per lo più a contraddirne la specificità epistemologica. Nella maggior parte dei casi, sia i corsi sulla Piattaforma Sofia sia quelli organizzati in precedenza dagli “ambiti territoriali”, sono per lo più rivolti a piegare la disciplina alla metodologia.
[8] La nuova edizione del meritorio volume di Valeria Pinto, Valutare e punire, comprende una nuova introduzione che riscostruisce, da una parte, l’origine dell’offensiva neo liberale che, già nel 1975, si prefiggeva di esercitare un controllo assoluto su tutte le istituzioni dedicate all’istruzione e alla valutazione. A partire dal celebre testo di Croziar, Huntington, Watanuki, La crisi della demorazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977. Nello stesso tempo, rende conto della resistenza che, nei Paesi occidentali, ha impedito l’immediata realizzazione di tali propositi, che stanno invece in buona parte dilagando e trovando consensi nei tempi attuali. Da un altro punto di vista, il carattere dirimente, sul piano storico, che la riunione della Commissione Trilaterale del 1975 ebbe per il futuro politico-economico dei Paesi occidentali è stato anche sottolineato da A.Burgio, Senza Democrazia. Un’analisi della crisi, Derive e Approdi, Roma 2009, pp.56 sgg.
[9] L’espressione si trova nell’articolo di Gavosto, che ha il merito di chiamare le cose con il proprio nome, senza usare la locuzione mistificante di «chiamata per competenze», che sembra avere i crismi di un giudizio oggettivo che non possiede.
[10] Non possiamo in questa sede, per non appesantire ulteriormente il presente intervento, riprendere citazioni e osservazioni che abbiamo proposto in articoli precedenti. La volontà dei poteri economici di controllare la vita scolastica, intervenendo direttamente sui criteri di scelta contenutistica e metodologica, sulla programmazione e valutazione, è stato più volte esplicitato.
[11] L’espressione è sempre di Giroux.

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