giovedì 20 febbraio 2020

Tempi moderni

Vita da rider: hamburger di Natale - Maurizio Pagliassotti

Se pensate che quelle vite che vedete correre in bicicletta siano lontane dalle vostre, vi sbagliate. Quelle storie, e soprattutto quella forma del lavoro che scolpisce vite apparentemente lontane sono la palla di cristallo dove vedere il futuro di noi tutti.
Ma partiamo da lui, partiamo da Armand: che non si chiama così, ma ha chiesto che questa storia che lo riguarda finisse sotto un nome che a lui piace e lo tiene al riparo da ritorsioni, delazioni, vendette, dai bassifondi dell’umanità. Lui è un rider pachistano, cioè un fattorino del delivery food: sono quelli che vediamo proliferare nel centro delle nostre città, assenti o quasi dalle periferie, dove invece vivono stipati dentro stamberghe che vengono loro affittate a caro prezzo. Trenta anni, segnati da rughe che raccontano cosa sia il lavoro duro celato da un grande sorriso e un grande calore umano.
Appuntamento in piazza Statuto a Torino la sera di Natale, alle sette: arriva puntuale, fresco, coperto da vari strati di vestiario che lo proteggono da un freddo pungente che lentamente ha preso il posto di un insolito e minaccioso tepore dicembrino. Ha già nelle gambe qualche ora di lavoro, nel giorno di Natale.
Non parla italiano «perché non ho il tempo di avere amici italiani con cui parlarlo: io lavoro sempre e basta». E quando non lavori cosa fai? A questa domanda fatica a trovare una risposta perché le sue giornate, sette giorni su sette o quasi, sono così composte: dieci dodici ore di bicicletta, cibo, sonno a casa. Fine.
Mi spiega brevemente il funzionamento dell’applicazione che illumina il suo telefono: arriva l’offerta di consegna, lui l’accetta, raggiunge il ristorante fast food dove recupera il cibo che ricovera nel bidone giallo, e poi via, di corsa verso l’affamato cliente. Il fattorino-rider è libero di accettare la proposta di consegna o meno, è libero di andare piano o forte in bicicletta, è libero di rispettare o meno semafori rossi, strade contromano, inversioni di marcia, è libero di fare quello che vuole. Ma sono tutte libertà che hanno un costo.
Nella palla di cristallo in cui possiamo vedere il nostro futuro scorgiamo chiaramente che queste libertà sono fittizie, aleatorie, in realtà scandite da un pesante controllo: il lavoro deve essere eseguito (leggi alla voce non si può mai rifiutare), veloce (devi correre in bici al massimo) e preciso (non si deve fare casino con il cibo dentro al bidone). Si chiama produttività.
Tra i fattorini vi è una dura competizione, premiata dall’algoritmo – l’algoritmo è una sorta di dio, che valuta solo in base parametri oggettivi e insindacabili: chi accetta tutto, chi va più veloce e chi è più preciso e gentile ha un punteggio che lo premia nelle assegnazioni. Alcuni chiamano tutto ciò “meritocrazia”, parola ormai distorta al punto tale da essere divenuta minacciosa.
In questo contesto è chiaro perché Armand vola sulla bici di notte, bruciando semafori rossi e contromano, picchiando sui pedali fino a raggiungere velocità da passista: se non lo fa lui, lo farà un altro. Se lui rispetta il rosso e un altro lo brucia, lui è fuori. Poi certo, la compagnia impone sul piano teorico il ferreo rispetto di tutte le normative inerenti la sicurezza: ma quando si scende nel reale è il lavoratore che sceglie. E sceglie sempre per il rischio, perché sa che se non lo farà lui lo farà un altro. Una sorta di tripudio hobbesiano, un darwinismo distorto e piegato all’ideologia neoliberale, in cui la selezione non la fa il padrone delle ferriere: sono direttamente i lavoratori ad auto selezionarsi, a combattere come in un’arena per sopravvivere.
«Quando piove, o nevica, o tira vento è molto peggio e molto meglio: è pericoloso, ma pochi resistono e si guadagna di più. Certo non si può vivere così». Lui lo sa, la sua compagnia lo sa, anche i clienti lo sanno.
La prima consegna si conclude dopo tre chilometri in un palazzo del prestigioso quartiere torinese di Cit Turin, dove anche un garage non scende sotto i duemila euro al metro quadro. Armand arriva, mi lascia la bici in custodia ‒ «take care, my bicicle is all my life, fai attenzione la bici è la mia vita» – citofona, sale, consegna l’hamburger e scende. Guadagno netto, meno di tre euro.
Si riparte, verso la base e subito lo schermo del telefono si illumina per un’altra chiamata. Un altro hamburger: in questo strano lavoro, come in un carnevale grottesco si concretizza un Arlecchino sghimbescio, dove si mischiano il costante benessere dei clienti, il cibo di qualità infima o quasi – preponderante sull’iconografia che si vuole spacciare – la povertà dei lavoratori, i nuovi miserables. Mi aspettavo cibi raffinati portati di corsa a consumatori esigenti: ho trovato junk food portato di corsa a consumatori pigri.
E infatti anche la seconda consegna della serata sarà hamburger e patate in un altro bel palazzo del centro: mancia, in entrambi i casi, zero. Dopo le numerose polpette con patate giunge l’asiatico, e poi ancora hamburger. Guadagno totale della serata: venticinque euro meno le tasse. Chilometri percorsi, circa venticinque. Pausa zero.
Armand percorre venticinquemila chilometri all’anno: io, che mi vanto di essere un discreto ciclista, ne faccio seimila. Lui fa gli stessi chilometri che coprono i campioni che corrono le grandi corse a tappe, Giro e Tour in testa.
Laureato, Armand ha studiato a Londra, poi è arrivato in Italia attraverso la rotta balcanica. Le sue parole ricalcano le storie dei meridionali, e veneti, e abruzzesi, e tutti, che giunsero a Torino con l’unica idea di lavorare e basta. Quelli andavano nelle miniere industriali della FIAT, i ragazzi come Armand vanno nelle miniere dell’economia digitale.
La sua vita come una catena di montaggio: dal suo lavoro dipende il permesso di soggiorno da cui dipende tutto. Se perde il lavoro, scatta il decreto sicurezza e addio Italia, addio «un giorno andrà meglio», si torna in Pakistan dalla famiglia che ogni mese riceve un bonifico. Il semaforo rosso, così come tutto ciò che intralcia la sua produttività, in questo contesto ha valore residuale. Guadagno mensile, circa 1400 euro: meno le tasse arriva a 1150-1200 netti. Tutti i giorni o quasi su due turni, pranzo e cena, per cinquanta e anche più ore settimanali.
Alle undici io sono leggermente provato, lui mi dice: «Faccio ancora un’ora, magari esce qualcosa che mi porta sulla strada di casa».





Cento giorni da glover - Marco Andreoli


Shkodra

Quasi mezzanotte, McDonald’s Stradivari, a due passi dalla Stazione di Trastevere. 
Appena il Conte vede entrare Gëz, gli va subito incontro, gli dà una pacca sulla spalla e gli chiede: “Frate’, ma hai visto che j’hanno fatto al bangla giù a Bari?”
A dire il vero, il bangla di cui parla il Conte è un pakistano, ha 32 anni e si chiama Ahmed. Anche Ahmed è un fattorino Glovo e la sera prima, mentre consegnava il suo ordine a via Candura, nel quartiere San Paolo di Bari, è stato accerchiato, pestato a sangue e derubato da un gruppo di 7 persone. 
Gëz e il Conte si conoscono da quasi due anni, da quando cioè hanno cominciato a incrociarsi nelle aree di attesa Glovo dei McDonald’s di Roma. Sono due veterani. Il Conte ha da poco superato il traguardo delle 7000 consegne; Gëz, invece, è a un passo dalle 10.000.
Anche io lo conosco da un po’, Gëz. Ci siamo presentati un paio di mesi fa mentre, entrambi con sulle spalle il cubo giallo di Glovo, attraversavamo il ponte che da via Alberto Lionello conduce all’ingresso superiore del Centro Commerciale Porta di Roma, alla Bufalotta.
I dialoghi tra glover sembrano quelli tra pescatori. È stato così anche la prima volta che ho parlato con Gëz: “Come va?” “Male: 4 consegne dalle sette, e tu?” “19. Ma sono in giro da stamattina” “Mance?” “Quasi 20, tu?” “6 e 50; ma solo perché un americano m’ha dato 5 euro”. 
Entriamo insieme da Burger King. Lui ha un ordine piccolo, io uno bello pesante: tre menù completi di bibite, patate fritte e gelato Mcflurry. Mentre aspettiamo che i pacchetti di entrambi vengano preparati, ci sediamo al tavolino più vicino alla cassa e parliamo ancora un po’.
Gëz dice di venire da Shkodra, una città di 130 mila abitanti nel nord dell’Albania, a 20 km scarsi dal confine col Montenegro. Gli rispondo che non l’ho mai sentita nominare. Gëz ci rimane male, mi dice che è strano e che Shkodra è pur sempre la Firenze dei Balcani. Mi racconta anche di essere sbarcato – usa proprio quel participio passato: sbarcato – in Italia 4 anni fa e che quando è arrivato non conosceva nemmeno una parola d’italiano e che allora è andato a stare da suo cugino Pavli, a Casal di Principe, e che lì ci ha vissuto quasi due anni, a fare il muratore. 
“Scutari”, dico io. Gëz non capisce. “La tua città – gli dico – qui la chiamiamo Scutari. La Firenze dei Balcani”. Gëz è un po’ spiazzato, ma annuisce. Quindi beve un sorso d’acqua dalla sua borraccia e mi chiede: “E tu?”

Sii il capo di te stesso!

Già: Io. Io ho 45 anni, sono un docente di ruolo, insegno Italiano e Storia in un Liceo di Ciampino e da quest’estate, da subito dopo la fine delle lezioni, faccio il glover, cioè il fattorino per Glovo. Ho iniziato per curiosità, certo; ma anche per sporcarmi le mani con un’attività lavorativa che fosse meno distante dal Mondo Reale di quanto non lo sia diventata, oramai, quella dell’insegnante. Oltre a ciò – credo si possa ammettere – avevo bisogno di una piccola entrata aggiuntiva per pagarci le bollette e, magari, hai visto mai?, per permettermi una piccola vacanza. 
Sul sito, al posto della solita frase “Lavora con noi” c’è una scritta micidiale: “Sii il capo di te stesso!”. Mi colpisce e mi basta. Così, nel giro di mezz’ora, carico online la mia patente, il mio codice fiscale e firmo il contratto. Il giorno dopo, alle 16, sono nell’ufficio romano di Glovo, a Prati, in via Baldo degli Ubaldi, dove Roger, un ragazzo sudamericano, istruisce me e un’altra decina di neo-glover – tra cui almeno un padre di famiglia italiano, due ragazzi cinesi e tre africani maghrebini – riguardo il lavoro da svolgere, oltre a fornirci link e credenziali per scaricare sul nostro smartphone l’app dei glover. La breve conferenza formativa cui assistiamo dimostra, innanzitutto, quanto Roger sappia il fatto suo: è limpido, puntuale, professionale; risponde a ogni domanda senza alcun tentennamento, sgombra il campo da qualsiasi dubbio, tronca alla radice la benché minima perplessità. Il motivo principale della chiarezza illustrativa di Roger, del resto, è strettamente connesso a una caratteristica specifica di molte professioni nate nell’era della new-economy. E cioè che la compresenza fisica tra datori e lavoratori viene considerata non più necessaria. Nel caso specifico significa che, subito dopo questo meeting di formazione, ciascuno di noi potrebbe lavorare con Glovo per mesi, per anni, senza mai incontrare un solo rappresentate dell’azienda. Tutte le fasi del lavoro, infatti, dall’assegnazione gamificata dei turni di lavoro, fino alla supervisione dei pagamenti, verranno gestite tramite l’app dei glover
Questa cosa i due ragazzi cinesi sembrano non averla capita. Sono lì che armeggiano affannosamente con il loro cellulare. Evidentemente in difficoltà.
Prima di andar via, Roger ci consegna una power-bank per ricaricare il cellulare, una carta di credito aziendale e, ovviamente, il cubo giallo a tenuta termica per conservare tutto il cibo che trasporteremo da una parte all’altra della città.
I cinesi, però, sono davvero in crisi. Pare proprio che non ce la facciano. Roger gli si avvicina e gli  domanda quale sia il problema. Quelli alzano la testa, lo guardano, e dicono solo: “No italiano noi”. Roger prova a spiegargli che quello lì, effettivamente, può essere un bel guaio. Perché i testi dell’app sono completamente in lingua italiana, perché i clienti saranno quasi tutti italiani e, in terzo luogo, perché gli operatori della chat di assistenza, in caso di imprevisti, comunicheranno con noi scrivendo in italiano. “Ma soprattutto – chiosa Roger – il contratto che voi due avete firmato era scritto in italiano… Mi dite che cosa avete firmato?”

Chi siamo

Gran parte dei glover, del resto, sono cittadini stranieri. Le percentuali ufficiali non sono note. Ma nel corso di tre mesi di lavoro ho potuto definire almeno quattro macro-categorie di lavoratori:
1) Africani in bicicletta (20-25 anni) – Pullulano nelle grandi arterie periferiche, soprattutto nelle aree di Roma Est e di Roma Sud. Non hanno un filo di grasso. Riescono a mantenere la medesima velocità di crociera a prescindere da salite e discese. In genere non parlano molto, né con i ristoratori, né tantomeno con noi colleghi. Non ho ben capito se per limitazioni linguistiche (probabile) o se per una sorta di pudore (peraltro esaltato dal clima torrido della prima estate leghista nella storia d’Italia). 
2) Maghrebini in motorino (25-30 anni) – Distribuiti su tutta la città, in genere sono ridanciani e logorroici. Sembra che conoscano tutti e che non abbiano paura di niente. In genere, fanno i simpatici anche con i commercianti, perfino quando sembrano malsopportati. Ma se dico che “fanno i simpatici” è perché ogni tanto m’è sembrato che tendessero a infilare, negli atteggiamenti e nelle risposte, quella che il Conte una volta ha chiamato “malizia perculante”. Come se fosse un’arma. Come se fosse il maglio perforante o l’alabarda spaziale di Goldrake. Comunque questi ragazzi macinano chilometri. E lavorano anche 13 ore al giorno, che poi è il limite massimo consentito da Glovo.
3) Sudamericane in macchina (40-50 anni) – Boliviane, Cilene, Peruviane, Messicane. Donne di mezza età, spesso con la borsetta da passeggio e il trucco a posto. Sembrano pronte per andare in chiesa o a prendere il tè (o il mate) con le amiche. Generalmente tranquille, attendono il proprio turno senza troppe discussioni. Raramente raggiungono numeri significativi anche perché rischiano di essere un po’ lente. Ma sono costanti, coscienziose, tutto sommato affidabili. Per me resta un mistero l’origine di questa categoria. Voglio dire: com’è possibile che tante signore per bene, tutte ispanofone, abbiano intrapreso in Italia la carriera delle glover? Ho pensato a un passaparola straordinario. Un passaparola intercontinentale che, partito in sordina da Roma, sia riuscito ad attraversare l’Atlantico finendo per raggiungere Lima e La Paz, Bogotà e Quito.
4) Italiani in moto (40-50 anni) – Padri, per lo più. E quasi sempre ex-qualcosa: ex-carpentieri, ex-macellai, ex-impiegati, ex-tassisti. E ovviamente ex-mariti. Sono quelli che hanno perso il lavoro negli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008. E che magari adesso, insieme agli alimenti, devono pagare anche un paio di affitti e le tasse universitarie dei figli. Sono uomini stanchi, certo. Ma sono pur sempre romani. Gente che la sa lunga, che ti dà consigli, che ha sempre la battuta pronta, che ha capito tutto e che nun c’ha capito un cazzo; gente che s’è dovuta abituare, poco a poco, a vivere alla giornata. Ma che, in linea di massima, l’ha fatto con dignità. Gli italiani in moto lavorano parecchio. E più lavorano e più sono stanchi. E più sono stanchi e più lavorano. 
Queste quattro categorie, a occhio, coprono l’80% dei lavoratori Glovo. Cui va aggiunto un discreto numero di studenti universitari, una percentuale non proprio insignificante di lavoratori trasversali – ad esempio: liberi professionisti in periodo di magra, operaie italiane entrate in esubero, badanti dell’est a cui è appena deceduta la fonte di reddito –, oltre a un numero più esiguo di gente come me. Gente, cioè, che un lavoro ce l’ha; che può dirsi fortunata; e che magari usa Glovo per arrotondare un po’.


La faccia di Morandini

Gëz non ci crede che faccio l’insegnante. “Cioè, tu sei un professore?”. 
Io me lo guardo con un po’ di sufficienza. Idealmente sto cominciando a rimboccarmi le maniche per cominciare la mia lezione. Deformazione professionale, direbbe qualcuno. In ogni caso intendo spiegare all’amico albanese che ogni lavoro onesto è sempre rispettabile, e che dunque non esistono mestieri di serie A e mestieri di serie B, e che se lui pensa che sia umiliante per un insegnante fare un lavoro come questo, beh, allora sta facendo il loro gioco, il gioco di quelli che vogliono il mondo diviso in due, nord e sud, ricchi e poveri, sommersi e salvati, padroni e operai. E invece no, Gëz. È il tuo sguardo a essere sbagliato. È il tuo stupore a essere offensivo, squalificante, umiliante. Perché tu che sei straniero, che hai attraversato il Mediterraneo per arrivare fin qui e che ti sei spaccato la schiena in cantiere, non te lo puoi proprio permettere di osservare le cose in questo modo. Perché questo non è il tuo sguardo, ma quello loro.
Il fatto è che non faccio in tempo a dirgliele queste cose. Perché Gëz, che adesso sembra davvero interessato alla questione, butta lì un’altra domanda. Che sembra innocua. Ma che, in realtà, fa traballare il mio impianto etico nella sua interezza: “E non t’è mai successo di fare una consegna a un tuo alunno?”.
Deglutisco. “No – gli dico – non m’è mai successo”. Ma poi non riesco più a dire niente. Resto lì a pensare alla faccia che farei se, tentando di uscire dall’ascensore con il mio cubo giallo in spalla, vedessi che ad aprire la porta non c’è un essere umano qualsiasi; ma Masetti della III B. O Falcetti. O, peggio ancora, Morandini. A cui, solo io, quest’anno, ho messo 5 note disciplinari. 
E loro? Che faccia farebbero, loro?   

Cento!

Due volte a settimana, alle 16 in punto, viene aperto il calendario di lavoro: il lunedì si accede alle prenotazioni per i turni compresi tra giovedì e domenica; il giovedì, a quelli da lunedì a mercoledì. Ogni giornata lavorativa Glovo è suddivisa in slot di un’ora ciascuno, dalle 10 del mattino alle 3 di notte. Questo significa che, per ogni data aperta, sul calendario dell’app compaiono 17 rettangolini orari: se sono bianchi, puoi cliccarci sopra, componendo così il tuo orario di lavoro quotidiano; se sono grigi, viceversa, vuol dire che sono già stati prenotati da altri colleghi e non sono quindi più disponibili. Il fatto è che, in questa corsa alla prenotazione dei turni, non tutti i glover partono simultaneamente, ma in base al cosiddetto “punteggio di eccellenza”. Il punteggio di eccellenza viene attribuito a ciascun rider che abbia effettuato almeno 50 consegne, è espresso in centesimi e costituisce il risultato combinato di 5 differenti variabili: valutazione del cliente, valutazione del partner, presenze effettive rispetto agli slot prenotati, disponibilità nei week-end ed esperienza. In altri termini, per puntare ad un punteggio che sia uguale o prossimo a 100, il neoassunto glover dovrebbe lavorare molto – il punteggio massimo nella variabile-esperienza corrisponde a 855 consegne effettuate –, essere gentile e sorridente con clienti e ristoratori, lavorare durante gli orari serali del sabato e della domenica e, soprattutto, non declinare mai ordini che giungano negli orari di reperibilità. Questa tipologia di competizione tra dipendenti, nata nell’ambito aziendale statunitense neocapitalista, viene oggi indicata come gamification e, pur attraverso l’utilizzo di grafiche infantili e di espedienti ludici, si risolve nella determinazione di una rigida classifica di merito. Nella quale nemmeno chi è arrivato in cima, se non vuole tornare nei bassifondi della graduatoria può sbagliare. Né distrarsi.

Da mezzogiorno a mezzanotte

Mentre scrivo queste righe, il mio punteggio di eccellenza è fermo a quota 85. Sono riuscito ad arrivare anche a 88, ma poi, un paio di settimane fa, mi sono concesso un week-end di riposo e ho così perso 3 punti. Normalmente – ma devo essere davvero rapido nell’accesso all’app – questo punteggio mi consente di prenotare 5-6 slot al giorno, solitamente collocati negli orari di pranzo e di cena. Anche se, di tanto in tanto, proprio mentre sei lì che smanetti col cellulare, capita che qualche turno si liberi improvvisamente, e allora, se cogli l’attimo, puoi perfino prenotare intere giornate lavorative. Come fanno quelli che raggiungono la vetta himalayana dei 100 punti, i super-sayan dei glover, gente come Gëz e come il Conte, punti di riferimento assoluti per la nostra comunità. 
In questo modo sono riuscito a prenotare 12 slot consecutivi per la giornata del 7 luglio. Da mezzogiorno a mezzanotte. Senza soluzione di continuità.
Prima di questa giornata campale, non mi era mai capitato di lavorare per 12 ore consecutive. Non conto, ovviamente, le giornate intere passate davanti al computer, con Albinoni nelle orecchie, l’aria condizionata a palla e una pausa pranzo a base di sushi. Perché qui si parla d’altro. Di cose da raccontare ai nipoti. Di cose degne delle porte di Tannhäuser. 12 ore sotto il sole, in piena estate, a macinare chilometri, sbattuto da una parte all’altra di Roma, a combattere con la sete e con il sudore, a respirare smog e afa.

Il primo ordine lo ritiro verso le 12.15 al McDonald’s di Piazza dei Mirti e lo consegno in zona Tor Tre Teste. Una comanda rapida, tanto per mettersi in moto. Il secondo ordine invece è lontano: devo arrivare a Piazza della Radio, all’inizio di viale Marconi. È cibo cinese. Lo consegno a un tipo che mi apre la porta in mutande. Il caldo torrido giustifica solo parzialmente questa scena. Dalla terza consegna in poi, comincio a muovermi tra Prati e Trastevere: lasagne al forno a Vicolo del Cinque, panini imbottiti a Piazzale degli Eroi, due pacchetti di Marlboro Light al Portico d’Ottavia, calamari fritti in una traversa di Via Crescenzio. Intorno alle 17 comincio davvero a soffrire il sole. Ogni volta che il semaforo è rosso cerco di fermarmi sotto l’ombra di un albero o di un cartellone pubblicitario. Sono assetato. Chiedo a Siri: “fontanella nasone vicina”. Ma Siri non capisce. E mi chiede se voglio andare al ristorante “La fontanella” di via Sistina o all’osteria “Dar nasone” al Nomentano.
Decima consegna: alette di pollo a via delle Fornaci. Suono il citofono. Mi risponde una voce di donna, con marcato accento spagnolo: “Terzo piano, Tessoro”. Prima d’ora nessuno mi aveva mai chiamato così in ambito lavorativo. Salgo le scale. Mi apre la porta una ragazza poco meno che trentenne, truccatissima, in guepiere, appena sovrappeso. L’interno dell’appartamento emana il profumo denso di un deodorante alla rosa. Mi paga, mi sorride, mi ringrazia e mi saluta chiamandomi Tessoro. Ancora una volta.
L’undicesima consegna è in zona Coppedè. Cibo thailandese. A metà pomeriggio. L’atrio dello stabile è tutto marmo rosa e colonne. Mi aspetto una mancia degna del contesto. Prendo l’ascensore e, arrivato al settimo piano, prima ancora di aprire le porte, sento un odore strano. L’uomo incorniciato nella porta aperta avrà più o meno la mia età. Sta fumando. Non una sigaretta di tabacco. Sfilo i sacchetti dal box e glieli consegno. Dietro di lui c’è un corridoio pieno di luce. Posa i sacchetti da qualche parte e inizia a tastarsi le tasche. “Aspetta un attimo”, mi dice. Ed entra in casa. Sento frugare tra barattoli e cassetti. Poi torna sconfitto. “Non ho spicci. Scusa”. “Non importa”, gli rispondo. Faccio per andarmene ma quello mi richiama: “Moro!”. Mi volto. Lui mi allunga la cannetta e mi fa: “Che per caso te voi fa’ ‘n tiro?” 
Dalle otto in avanti gli ordini si spostano man mano verso Roma Sud: prima Garbatella, poi la Cecchignola, poi l’Eur. Fino a una comanda che arriva intorno alle 23: tre milkshake da ritirare al McDonald’s di Viale Newton, in zona Trullo. Una volta lì, prendo il sacchetto, lo sistemo nel box e apro l’applicazione per conoscere l’indirizzo di consegna. Leggo. Rileggo. Penso: “E adesso?”. E sì, perché l’abitazione che devo raggiungere si trova in via Ettore Ferrari, ovvero nel Serpentone di Corviale. Sul gruppo whatsapp dei glover c’è un documento che viene aggiornato di continuo, grazie allo scambio di informazioni tra noi fattorini: è la black-list degli indirizzi da evitare perché pericolosi. È capitato, infatti, che nelle zone presenti in lista si siano verificati furti, aggressioni o altri episodi incresciosi. Come qualche mese fa, quando, al quartiere Bastogi, Massimo, un fattorino Glovo tra i più esperti, è stato circondato da quattro uomini armati di coltello. Stava per fare la fine del povero Ahmed, il fattorino di Bari. Invece, da dietro l’angolo della strada, è sbucata una volante della Polizia e quelli lì sono corsi via per i campi. Giusto in tempo. Comunque sia: via Ettore Ferrari è nella black-list e io ormai ho preso l’ordine in carico e non posso più rifiutarlo. Da via Casetta Mattei imbocco via Poggio Verde e comincio a salire la collinetta sulla cui cima già riesco a vedere il profilo del Serpentone, il simbolo più evidente della fallimentare edilizia creativa degli anni ’70. Terminata la salita, la strada si distende su un lunghissimo rettilineo che costeggia il palazzo-quartiere. Mi sfila sulla destra. Imponente, tetro, angosciante. Sembra l’astronave di Darth Vader. Sai che c’è? – penso risoluto – Io lì non ci vado. Vorrà dire che pagherò i milkshake e amen”. Così, prima dell’ultimo segmento di Serpentone, imbocco via Mazzacurati per tornare indietro. In quel momento però mi squilla il telefono. Non rispondo. Ma so che è il cliente. Deve aver seguito il mio percorso geolocalizzato dall’app ed essersi accorto che me ne sto andando. Quindi torno indietro. Non posso fare altrimenti.   
 Mezzanotte e dieci. Ultimo ordine. Si tratta di una spesa alimentare da effettuare al supermercato Carrefour Express di via Cassia. Appena giunto in loco ho accesso alla nota. Leggo: farina, 6 uova, burro, latte, vaniglina. Prendo il carrello e comincio a vagare tra gli scaffali. Mi sorge un dubbio e così chiamo il cliente. Risponde un uomo. “Mi scusi, ma la farina di tipo zero o doppio zero?” “Doppio zero”. Continuo la spesa. Ma ho un altro dubbio. “Sempre io, mi scusi. Ma il latte intero o parzialmente scremato?” “Intero”. Procedo. Ma devo nuovamente chiamare. “Qui ci sono uova grandi, medie e piccole. Quali prendo?” “Quelle più simpatiche”. E mette giù. 
Infilo la busta della spesa nel box e riparto, direzione Tor di Quinto. L’uomo che mi apre la porta indossa un completo elegante, con tanto di gemelli e fermacravatta. È molto serio, al punto da sembrare turbato da qualcosa di oscuro,  come se fosse concentrato su un compito realmente decisivo. Prende la busta, mi dà 5 euro e richiude. Senza nemmeno salutare. Vabbè, penso: per 5 euro di mancia puoi anche fare il maleducato. 
Intanto è quasi l’una. Salgo sul motorino per l’ultima volta e, senza fretta, imbocco la Tangenziale Est per tornarmene a casa. 
L’aria è fresca, adesso. Sono stanco morto, ma anche contento di aver portato a termine l’impresa. All’altezza di via Salaria, però, mi torna in mente l’uomo della spesa. Cosa doveva farci con quella roba? Un tipo del genere, in piena notte, si mette a preparare una torta? Magari non gli serve per cucinare. Magari è una situazione tipo “Ultimo tango a Parigi”. Magari peggio.

Alla fine ci licenzieranno tutti

L’estate 2019 verrà ricordata per parecchie cose. Per l’esperienza da DJ dell’ex-vicepremier Salvini sulla spiaggia di Milano Marittima, per la morte di Camilleri e di De Crescenzo, per il rinnovo del contratto del centravanti della Roma, Edin Dzeko. Tra gli episodi meno memorabili, andrebbero forse menzionate le nuove esternazioni dell’allora Ministro del Lavoro Di Maio sulla questione rider
Si tratta di un affare spinoso. Non solo perché stiamo parlando di oltre 10.000 impiegati, ma anche perché, alla fine dei conti, queste 10.000 persone non possono davvero essere chiamate impiegati. Anche l’appellativo di freelance appare impreciso. Del resto la cosiddetta gig economy – che potremmo tradurre come “economia del lavoretto” – prevede, per definizione, prestazioni lavorative on demand. Ovvero: si lavora, se c’è necessità. 
È da un anno che Di Maio si sbraccia per sventolare promesse di maggiori tutele ai rider. Anche se non è affatto chiaro come l’eventuale stabilizzazione dei fattorini possa consentire loro di lavorare con la stessa flessibilità che ha caratterizzato finora questo tipo di impiego. La verità è che le reazioni dei rider alle dichiarazioni di Di Maio il 5 agosto (“Verranno riconosciute tutele assicurative, rimborsi spese per gli strumenti di lavoro, assistenza sanitaria e un salario minimo”) sono tutt’altro che positive. Sul gruppo whatsapp si apre un ampio dibattito. Ma il sentimento prevalente sembra essere quello di una profonda inquietudine. 
Angela: “Alla fine ci licenzieranno tutti”.
Loris: “Ma io che lavoro tre ore al giorno, come faccio ad avere un contratto dipendente?”
Enzo detto l’Alce: “Finirà che Glovo se ne dovrà andare dall’Italia. Come ha fatto Uber”.
Paolone: “Ma perché ‘sti politici non pensano agli affaracci loro e ci lasciano in pace?”
Consuelo: “Es un asco”.

Io proprio non lo so quale sia la soluzione. Certo, le tutele dei rider sono al minimo e qualcosa nel merito andrebbe senz’altro fatta. Ma se le proposte dei sindacati e del Ministro provocano nei lavoratori più terrore che speranza, c’è sicuramente più di un problema. 

La vita

Il giorno di Ferragosto incontro ancora una volta Gëz. Nell’atrio di un ristorante giapponese a via delle Cave. Di nuovo abbiamo entrambi sulle spalle il cubo giallo di Glovo. Non vedevo l’ora. Voglio proprio sapere cosa ne pensa lui delle proposte di Di Maio. Anche se nel frattempo, quel Governo lì, è già arrivato al capolinea e Di Maio è diventato Ministro degli Esteri.
È lui che mi saluta per primo: “Come va, Professore?” “Mah, 3 consegne” “Io finora 12” “Mance?” “Poca roba, e tu?” “Ancora niente”.
“Senti – gli chiedo – ma tu come la vedi questa cosa della legge nuova?”. 
Gëz mi fissa dritto negli occhi per dieci secondi buoni, poi si sfila il cubo dalle spalle, lo appoggia a terra e si siede sulla panchina davanti all’ingresso del ristorante. E comincia a parlare. Stavolta senza guardarmi. E con un tono di voce diverso dal solito. 
“Sai, professore, quanto prendevo, quando facevo il muratore giù a Caserta? Te lo dico io: 35 euro al giorno. Tutto in nero. E sai quanto ho guadagnato con Glovo il mese passato? 2200 euro. L’anno scorso mi sono anche aperto la partita IVA. Sto tutto il giorno in motorino, certo. La schiena, prima o poi, mi si spaccherà in due. E se cado o se mi rubano tutto, è un problema mio. Ma tu, professore, tu te l’immagini quanto m’è cambiata la vita?”

Valdrin Pjetri, neoeletto sindaco di Scutari, proprio oggi,  dopo che i suoi avversari politici l’avevano accusato di aver nascosto una condanna per traffico di stupefacenti subita in Italia, ha rinunciato all’incarico. 
Mi sfilo anch’io il cubo dalle spalle e mi siedo vicino a Gëz.
E restiamo così. Senza dire più nulla. In attesa della prossima comanda.

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