martedì 9 novembre 2021

Quel problema innominabile - Claudia Fanti

  

Il grido dell’indigena brasiliana Txai Suruí, figlia di uno dei leader più rispettati del suo paese, Almir Suruí, è risuonato proprio in apertura della Cop 26: «Mio padre mi ha insegnato che dobbiamo ascoltare le stelle, la luna, gli animali, gli alberi. Oggi, il clima sta cambiando, gli animali stanno scomparendo, i fiumi muoiono, le nostre piante non fioriscono più come prima. La Terra ci sta dicendo che non abbiamo più tempo».

 

Ma è già troppo tardi per cambiare strada? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione, quella dei poveri e del «grande povero» che è il nostro pianeta devastato e ferito, il cui duplice – e congiunto – grido ha occupato il centro della sua intera riflessione.

 

Tra i firmatari dell’accordo sulla deforestazione raggiunto alla Cop 26 c’è anche Bolsonaro. Il trionfo dell’ipocrisia?

Nulla di minimamente credibile può venire dal governo Bolsonaro: con lui la menzogna è diventata politica di stato. Solo su un punto ha detto la verità: «Il mio governo è venuto per distruggere tutto e per ricominciare da capo». Peccato che questo reinizio sia nel segno dell’oscurantismo e del negazionismo scientifico, che si tratti di Covid o di Amazzonia. La sua opzione economica va in direzione esattamente opposta a quella per la preservazione ecologica: Bolsonaro ha favorito l’estrazione di legname, l’attività mineraria all’interno delle aree indigene, la distruzione della foresta per far spazio alla monocoltura della soia e all’allevamento. Solo da gennaio a settembre, l’Amazzonia ha perso 8.939 km² di foresta, il 39% in più rispetto allo stesso periodo del 2020 e l’indice peggiore degli ultimi 10 anni. La sua adesione al piano di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 è pura retorica. In realtà, non ci sono dubbi sul fatto che proseguirà sulla strada della deforestazione continuando a mentire al Brasile e al mondo.

L’Amazzonia potrà sopravvivere ad altri 10 anni di deforestazione?

Il grande specialista dell’Amazzonia Antônio Nobre afferma che, al ritmo attuale di distruzione, e con un tasso di deforestazione già vicino al 20%, in 10 anni si potrebbe raggiungere il punto di non ritorno, con l’avvio di un processo di trasformazione della foresta in una savana appena interrotta da alcuni boschi. La foresta è lussureggiante ma con un suolo povero di humus: non è il suolo che nutre gli alberi, ma il contrario. Il suolo è soltanto il supporto fisico di un complicata trama di radici. Le piante si intrecciano mediante le radici e si sostengono mutuamente alla base, costituendo un immenso bilanciamento equilibrato e ritmato. Tutta la foresta si muove e danza. Per questo motivo, quando una pianta viene abbattuta, ne trascina molte altre con sé.

Siamo ancora in tempo per intervenire?

I leader mondiali hanno accuratamente evitato di toccare quello che è il vero problema: il capitalismo. Se non cambiamo il modello di produzione e di consumo, non fermeremo mai il riscaldamento globale, arrivando al 2030 con un aumento della temperatura oltre il grado e mezzo. Le conseguenze sono note: molte specie non riusciranno ad adattarsi e si estingueranno, si registreranno grandi catastrofi ambientali e milioni di rifugiati climatici, in fuga da terre non più coltivabili, oltrepasseranno i confini degli stati, per disperazione, scatenando conflitti politici. E con il riscaldamento verranno anche altri virus più pericolosi, con la possibile scomparsa di milioni di esseri umani. Già ora i climatologi affermano che non c’è più tempo. Con l’anidride carbonica che si è già accumulata nell’atmosfera, e che vi resterà per 100-120 anni, più il metano che è 80 volte più nocivo della CO2, gli eventi estremi saranno inevitabili. E la scienza e la tecnologia potranno attenuare gli effetti catastrofici, ma non evitarli.

Ha sempre affermato che senza un vero cambiamento nella nostra relazione con la natura non avremo scampo. L’umanità è pronta per questo passo?

Il sistema capitalista non offre le condizioni per operare mutamenti strutturali, cioè per sviluppare un altro paradigma di produzione più amichevole nei confronti della natura e in grado di superare la disuguaglianza sociale. La sua logica interna è sempre quella di garantire in primo luogo il profitto, sacrificando la natura e le vite umane. Da questo sistema non possiamo aspettarci nulla. Sono le esperienze dal basso a offrire speranze di alternativa: dal buen vivir dei popoli indigeni all’ecosocialismo di base fino al bioregionalismo, il quale si propone di soddisfare le necessità materiali rispettando le possibilità e i limiti di ogni ecosistema locale, creando al tempo stesso le condizioni per la realizzazione dei beni spirituali, come il senso di giustizia, la solidarietà, la compassione, l’amore e la cura per tutto ciò che vive.

Fonte: il manifesto

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