sabato 23 settembre 2023

Perché Khaled fa paura a Israele

 

Pasquale Liguori intervista Luigi Daniele

 

Cittadino italiano e palestinese, Khaled el Qaisi, studente di Lingue e Civiltà Orientali all’università la Sapienza di Roma e traduttore di testi preziosi come quelli di Ghassan Kanafani, è rinchiuso in un carcere israeliano. Fino ad oggi nessuna autorità ne ha spiegato le ragioni. Al termine di una vacanza in Palestina con la famiglia, il 31 agosto, Khaled è stato improvvisamente ammanettato, davanti alla moglie e al bambino, mentre attraversava il valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, prima di rientrare in Italia. Sappiamo solo che tre udienze ne hanno prorogato la detenzione “cautelativa”. Il silenzio delle autorità politiche italiane sulla sua detenzione è sconcertante. Nei giorni scorsi, a conclusione di un’assemblea all’università romana, i familiari – insieme con il legale italiano incaricato di rappresentarli – hanno promosso la costituzione di un comitato per la sua liberazione. A partire dal rischio paventato dal legale della famiglia el Qaisi – lo “slittamento” del procedimento da un piano penale, che presume un’imputazione, con diritto alla difesa legale, a un piano di detenzione amministrativa (un “mostro” giuridico in uno stato di diritto, che in Italia è ben noto perché abitualmente utilizzato nella guerra contro i migranti) – Pasquale Liguori ha intervistato sul caso di Khaled, Luigi Daniele, Senior Lecturer in Diritto dei Conflitti Armati e Diritto Internazionale Penale presso la Nottingham Trent University in Inghilterra. Ne è nata un’ampia e straordinaria disamina che mette in luce l’intero torvo profilo, ma anche molti degli aspetti meno noti, della giustizia militare di quella che gran parte dei media e degli esponenti politici italiani si ostina a chiamare la sola democrazia del Medio Oriente. Si tratta di un sistema abietto che, spiega Luigi Daniele, sul piano giuridico rappresenta il medioevo, il pre-moderno in tutta la sua violenza. Anche per questo, per esser riuscito – suo malgrado – ad aprire uno spiraglio di luce sul complice silenzio che avvolge quel sistema (anche giuridico) di apartheid, dobbiamo ringraziare Khaled el Qaisi. E dobbiamo pretendere che ci venga restituito domani, che venga sottratto all’arbitrio di chi l’ha gettato in un carcere. Proprio come accade ogni giorno a fiumi di altre persone che Israele considera, oltre che meritevoli di soprusi e umiliazioni, ostili e pericolose. Perché forse quel che Israele teme più di ogni altra cosa è la verità.

Sono trascorse quasi tre settimane da quando la luce del giorno si è dissolta nel buio di una tetra galera israeliana. Khaled el Qaisi, palestinese e cittadino italiano, è da allora detenuto in un carcere di sicurezza nei pressi di Tel Aviv e non ci è dato sapere per quale motivo.

Strappato alla famiglia dopo ruvidi controlli alla frontiera che separa Territori Occupati e Giordania mentre rientrava a Roma al termine di una vacanza nei luoghi di origine, si sa soltanto che il malcapitato studente di Lingue e Civiltà Orientali all’università della Sapienza è in stato di isolamento con scarsa, quasi nulla possibilità di accesso al supporto di un legale del luogo.

Dal momento del suo arresto, el Qaisi è stato sottoposto a udienze farsa, atte solo a prolungare il suo stato di detenzione. Motivazioni, appunto, non pervenute.

Di fronte a quello che ha tutti i contorni di un palese, ennesimo uso arbitrario sia di forza che di strumenti giudiziari da parte di Israele, neanche un minimo riferimento alla vicenda è stato proposto dai principali notiziari televisivi e radiofonici nostrani. Fatta salva qualche lodevole eccezione, rari sono stati e prevalentemente striminziti, inesatti o tendenziosi i pavidi interventi pubblicati dalla carta stampata. A ciò si aggiungono le sparute istanze parlamentari emerse in dibattiti d’aula o di commissione con loro esiti impercettibili e un vigore pari a quello dell’isolata particella di sodio nella nota acqua minerale.  

Soprattutto, nemmeno un cenno, una timida dichiarazione pubblica da parte della patriota Meloni e del competente, per mansione, ministro Tajani.

Dopo la recente vicenda Zaki, uno sarebbe indotto a immaginare autorità italiane scaltrite, più reattive nella difesa di tutele e diritti delle vittime di metodi criminali, soprusi, e torture messi in atto da parte di regimi esteri. Sussistono, per il caso el Qaisi, aree di sovrapposizione e apparente somiglianza con quegli accadimenti, tranne per il fatto che Khaled è sequestrato da quella che i potenti d’Occidente celebrano quale esemplare e unica democrazia del Medio Oriente. Oltretutto, diciamolo, per gli etno-sovranisti di casa nostra Khaled el Qaisi è in qualche modo portatore di una fastidiosa anomalia: è sì di madre e cittadinanza italiane, ma resta pur sempre palestinese. Per l’alleato Israele, dunque, pregiudizialmente potenziale terrorista. A tal punto terrorista da insanguinare strade e piazze del mondo diffondendo, anche mediante l’attività del Centro di documentazione da lui stesso fondato, quelle pagine meravigliose di cultura del suo Paese di origine. Uno dei suoi peggiori attentati? Aver analizzato, tradotto e curato opere mirabili come quelle di Ghassan Kanafani. Già! Tipiche, inoppugnabili prove che tracciano l’identikit di un carnefice.

Non si fa fatica a supporre che, per lui, fascismi di vario calibro e tono non si asterrebbero da decisioni repressive con tanto di chiavi della segreta da buttare via.

In una folta assemblea all’Università della Sapienza, i suoi familiari insieme con il legale italiano incaricato di rappresentarli hanno promosso la costituzione di un comitato per la liberazione dell’italo-palestinese. Consapevoli della difficoltà relazionale con l’arrogante e pervicace controparte israeliana, si è scelta una strada di civica sollecitazione volta a favorire l’esito auspicato di una rapida scarcerazione di Khaled.

Non può esser, però, taciuto il tattico, assordante, omertoso silenzio circa i misfatti del regime di occupazione israeliano al quale, anche in questa occasione, è stata rinnovata l’offerta-zerbino della subalternità psicopolitica e mediatica. Un nostro connazionale è detenuto senza che gli siano stati contestati specifici capi d’accusa, tratto in arresto da forze militari che indebitamente occupano un territorio da tanti, troppi decenni con crimini, illeciti e violazioni di ogni genere a carico di migliaia e migliaia di prigionieri solo perché palestinesi. La cosa è di tale portata che non può scivolar via senza interessare profondamente le coscienze di chi abbia a cuore valori universali di garantismo e giustizia. Né può tale circostanza di lotta e sensibilizzazione essere di pertinenza dei soli addetti ai lavori, esperti e intellettuali che sostengono la via all’autodeterminazione palestinese in uno scenario di pace e giustizia le cui proposte sono però spesso paralizzate da divisioni e protagonismi delle varie anime che compongono il variegato panorama dell’attivismo filopalestinese in Italia. Un cambio di passo, anche generazionale, potrebbe forse offrire l’approdo a più efficaci istanze a sostegno dei palestinesi e del ritorno alla loro terra, in un proprio Stato.

Tra circa un mese, Meloni e una nutrita delegazione di suoi ministri saranno ospitati da un’omologa compagine israeliana in un vertice intergovernativo finalizzato a consolidare accordi strategici, economici, militari e politici tra le parti. Attorno a quel tavolo siederanno non pochi fascisti, oltranzisti e razzisti. Il caso el Qaisi – si spera vivamente, all’epoca di quel prossimo summit, già risolto da tempo – non rivestirebbe comunque gli interessi primari in agenda. Tuttavia, non vorremmo si tramutasse in un omaggio di Netanyahu alle “virtù” politico diplomatiche dell’underdog nazionale con tanto di grancassa propagandistica ed elettorale.

A quel tavolo si può essere ragionevolmente sicuri che non si parlerà del contesto crudele e penalmente rilevante sul piano delle violazioni di diritto internazionale derivanti dall’occupazione e colonizzazione dei Territori palestinesi da parte di Israele.

In questa temperie è maturato l’arresto dello stesso el Qaisi. Di tale contesto abbiamo parlato con Luigi Daniele, Senior Lecturer in Diritto dei conflitti armati e Diritto Internazionale Penale presso la Nottingham Trent University in Inghilterra.

L’avvocato Albertini Rossi che assiste la famiglia el Qaisi ha paventato il rischio di “detenzione amministrativa” per cui Khaled si troverebbe al cospetto di rinvii continui della sua scarcerazione e detenzioni prolungate per motivi di sicurezza senza che vi sia straccio di prova a suo carico. Che giustizia è questa?

Mi lasci innanzitutto osservare che in Italia esistono molte sensibilità, reti e associazioni (incluse le associazioni forensi) consapevoli dell’importanza del diritto penale minimo in un sistema democratico ed impegnate a contrastare i disastri prodotti da classi dirigenti che sempre più costruiscono il proprio consenso tramite forme radicali di populismo penale. Troppo spesso, però, questo contrasto si limita alla sfera nazionale e alla giustizia penale domestica, perdendo di vista le grandi spinte sovranazionali che contribuiscono a normalizzare quelle autoritarie ancora più gravi e distruttive per i diritti fondamentali dei ‘clienti’ dei sistemi di repressione delle democrazie liberali e dei loro alleati nel mondo. Il sistema giudiziario dell’occupazione israeliana, da questo punto di vista, è particolarmente allarmante, poiché nella sua interezza è orientato alla tutela di un’impresa proibita – nella modernità giuridica – da norme perentorie di diritto internazionale, cioè la conquista di territorio tramite uso della forza armata. È curioso che ci sia così poca discussione in Italia a riguardo, proprio mentre si proclama l’intollerabilità dell’uso della forza armata a scopi di conquista nel contesto di un’altra occupazione illegale, ovvero quella della Federazione Russa in Ucraina.

Considerazioni fondamentali che, giustamente, fanno da premessa ai rischi connessi al caso el Qaisi…

Nel merito, l’avvocato di Khaled el Qaisi parla del rischio di “slittamento” del procedimento da un piano penale, che presume un’imputazione, con diritto per l’imputato alla difesa legale, a un piano di detenzione amministrativa. La detenzione amministrativa è una misura praeter delictum, preventiva, ufficialmente intesa a scongiurare un pericolo di sicurezza o per l’ordine pubblico. Avendo collaborato anni fa alla ricerca di un team euro-mediterraneo, guidata da un collega italiano, il Prof. Mariniello, sulla pratica delle detenzioni amministrative nel territorio palestinese occupato, è per me doveroso segnalarne l’incompatibilità radicale con gli standard internazionali minimi di tutela dei diritti fondamentali. Migliaia di detenuti amministrativi palestinesi ogni anno cadono vittima di questa forma di privazione sommaria della libertà, che è ormai prassi dei comandanti militari che la ordinano e delle corti militari di occupazione che la convalidano. Ciascuno di questi detenuti non viene messo al corrente degli elementi a proprio carico (spesso secretati per motivi di ‘sicurezza’), non ha possibilità di contestarne la fondatezza in un regolare processo e la detenzione stessa può essere rinnovata ogni sei mesi senza alcun termine massimo. Abbondano, inoltre, le denunce di tortura di questi detenuti da parte di organizzazioni per i diritti dell’uomo israeliane, palestinesi ed internazionali. Ma il problema è strutturale. Si dice che si privano questi civili protetti dal diritto internazionale della libertà poiché rappresenterebbero una minaccia per la sicurezza. Ma di quale sicurezza si parla? Questo concetto di sicurezza è andato evolvendosi, nei 57 anni dell’occupazione israeliana, sino a significare sicurezza non di Israele e dei suoi cittadini, ma – al contrario – dell’occupazione stessa. La conseguenza è intuitiva: anche un palestinese che contrasti pacificamente l’occupazione, che rivendichi il diritto del proprio popolo all’autodeterminazione e si impegni pubblicamente in questo senso, è una minaccia per la sicurezza dell’occupazione. Per capirci, parliamo di reati di ‘assembramento politico o dalle intenzioni politiche’, o ‘istigazioni a turbare l’ordine pubblico’ dell’occupazione… Puniti con dieci o venti anni di reclusione!

Perché la pubblica opinione, ma se vogliamo il panorama politico in generale, sembrano così distanti dalla consapevolezza e conoscenza di temi così delicati e importanti?

La mia impressione è che i cittadini siano ben consapevoli dell’intollerabile privazione di diritti civili che da quasi sessant’anni (contando solo le violazioni conclamante delle rilevanti risoluzioni ONU) continua a danno del popolo palestinese. Tuttavia, media, politica e istituzioni sembrano sordi. In questo senso, la questione palestinese è una cifra dello smantellamento del nesso di rappresentanza e della ‘decostituzionalizzazione’ (come l’ha chiamata Ferrajoli) del nostro sistema politico. Ad una opinione pubblica solidale e convinta che l’Italia debba agire per una pace giusta e basata sulla legalità internazionale fa da contraltare un ceto politico che chiama crimini di guerra (come le demolizioni di proprietà e l’esproprio forzato di terreni a danno della popolazione civile di un territorio occupato) “dispute sulle case”… Regredendo ad uno stadio pre-giuridico dei propri posizionamenti. Quanto alle privazioni arbitrarie della libertà, tra cui incarcerare civili per conquistare territorio con la forza, nel caso dell’occupazione russa in Ucraina orientale i grandi media occidentali hanno apertamente parlato di campi di concentramento. Nel caso che qui discutiamo, per quanto la brutalità delle pratiche possa variare, la sostanza giuridica delle violazioni, come incarcerare a tempo indefinito e senza processo cittadini stranieri, residenti in un territorio che la potenza occupante intende annettere, è la stessa. 

Può esercitare simili azioni una potenza occupante dal punto di vista del diritto?

Il diritto internazionale non riconosce alcuna autorità sovrana a quell’entità statale che si trova nella posizione occupante, se non minime misure emergenziali in caso di necessità militare che, comunque, devono essere aderenti al diritto e motivate da esigenze legalmente ammissibili. In sostanza il diritto internazionale prende atto delle situazioni di occupazione militare e, temporaneamente, le ammette, dettando precise tutele per la popolazione civile che si trovi sottoposta al controllo territoriale di un esercito straniero. Israele, in ciò isolata nella comunità internazionale, si rifiuta di riconoscere il territorio palestinese occupato per ciò che è, ovvero un territorio militarmente occupato. Disconoscendo questo status internazionale, di fatto Israele rifiuta e contraddice l’unica premessa giuridica che conferirebbe ad esso autorità di temporanea e limitata amministrazione legale. Ciò che ne discende è una macroscopica violazione delle norme fondamentali dell’ordine giuridico internazionale.

Sul vasto capitolo delle violazioni ritorneremo a breve. Che idea ha dunque maturato sulla vicenda el Qaisi?

Desidero precisare che non dispongo di dettagli riguardanti il caso. Tuttavia, va segnalata, almeno sino ad ora, la gravità di un mancato intervento istituzionale italiano. Il silenzio del governo è assordante. Solleva il sospetto di un’ingiustificata sudditanza nei confronti dell’alleato israeliano: i diritti umani fondamentali dei cittadini italiani all’estero non sono un’optional. Ogni governo ha il dovere di agire affinché siano tutelati e rispettati. Indipendentemente dai sistemi di alleanze politiche internazionali, il nesso tra costituzione e diritto internazionale detta un obbligo di tutela dei diritti fondamentali sovraordinato alla discrezionalità politica. È gravissimo che il governo sia silente su questa vicenda. Partendo da queste garanzie, abbiamo anche il dovere di segnalare che gli stessi doveri istituzionali valgono per tutti i titolari di quei diritti umani. Sono diritti non dei cittadini, ma appunto diritti umani, protetti dalle rilevanti convenzioni internazionali. Ciò che Khaled sta subendo è un esempio di ciò che intere generazioni di palestinesi subiscono da decenni. In fondo il tema è proprio questo: le politiche di un governo alleato che considerano un popolo, quello sottoposto alla propria occupazione, meno umano e per nulla titolare degli stessi diritti umani dei propri cittadini.

Prima, stava infatti accennando alle violazioni di Israele in quanto potenza occupante…

La prima cosa da ribadire è che nel diritto internazionale il regime giuridico che governa le situazioni di occupazione militare non conferisce nessun potere sovrano alla potenza occupante. È un regime di eccezione, anzi forse il regime di eccezione per eccellenza, che ammette uno iato, temporalmente limitato, tra sovranità democratica e controllo di un territorio. Israele ha travalicato tutti i limiti di questa eccezione. L’occupazione israeliana è diventata perenne e si è progressivamente trasformata in annessione armata. Ha quindi cessato da decenni di rispettare i diritti della popolazione civile, che sempre più l’infrastruttura dell’occupazione-annessione e i partiti dei coloni hanno configurato come minaccia in sé, la cui esistenza come gruppo nazionale autonomo e autodeterminato non è più prevista. Ma l’autodeterminazione è un diritto inalienabile, così come inalienabili sono le garanzie di un giusto ed equo processo.

Cosa che, notoriamente, è elusa da Israele.

Fin dal 1967, Israele si arroga il diritto di privare della libertà personale, indiscriminatamente, i palestinesi considerati ostili all’occupazione. Parliamo di ostilità politica, non militare. I militanti dei gruppi armati sono obiettivo dichiarato di omicidi mirati, non di cattura e processi. È importante comprendere che, per la stragrande maggioranza dei palestinesi detenuti, non siamo nel contesto di un sistema di giustizia civile bensì dinanzi a un sistema di giustizia militare di occupazione. La prima ordinanza militare che ha fondato questo sistema di giustizia militare è stata la proclamazione nel 1967 del comandante militare delle IDF in Cisgiordania, nelle cui mani venivano a concentrarsi potere legislativo, esecutivo e giudiziario nel territorio occupato. Il popolo palestinese, da allora, è vittima di un sequestro del proprio diritto all’autodeterminazione, ivi compreso il diritto di esprimersi sulle proprie istituzioni e di essere giudicato dal potere giudiziario del proprio stato. Ciò, per i cittadini di qualsiasi stato democratico nel mondo, significa poter essere giudicati sulla base di reati codificati da un potere legislativo eletto. I palestinesi sotto occupazione sono invece da quasi sessant’anni giudicati dalla giustizia militare delle forze di occupazione. L’esercito israeliano è insomma per i palestinesi, e solo per essi, uno e trino, cioè contemporaneamente potere legislativo, esecutivo e giudiziario.

Un trattamento che Israele si guarda bene dall’applicare, invece, ai coloni stabiliti illegalmente in Cisgiordania in avamposti e insediamenti.

Sì, la giustizia militare viola il principio di territorialità e viene applicata su basi etnico-razziali solo ai palestinesi, tant’è che grandi organizzazioni internazionali a difesa dei diritti dell’uomo considerano ciò uno dei formanti fondamentali del sistema di apartheid a cui sono sottoposti. Per i coloni israeliani si utilizza il diritto “domestico”, fungendo così da vettori di annessione giuridica, che portano con sé il diritto della potenza occupante come pertinenza personale. Un diritto domestico, ovviamente, caratterizzato da garanzie e tutele diametralmente opposte agli arbìtri del diritto militare applicato ai palestinesi.

Può fare degli esempi rilevanti di questo doppiopesismo discriminatorio nei riguardi dei palestinesi?

Certo. Ad esempio, il periodo massimo di custodia senza convalida da parte di un magistrato nel diritto domestico israeliano è di sole 24 ore mentre diventa di 8 giorni per i palestinesi giudicati dalla giustizia militare di occupazione. Ancora: il periodo massimo di custodia prima di poter essere assistiti da un legale è di 48 ore per civili e coloni israeliani mentre è di 90 giorni per un palestinese. Inoltre, fino al 2011, epitome della discriminazione, l’età dell’imputabilità per reati nel diritto domestico israeliano era di 18 anni. A quell’epoca, nel sistema di legislazione militare di occupazione, bambini palestinesi dai 12 anni in su potevano essere arrestati e interrogati e quelli dai 16 anni in su venivano considerati giovani adulti. Nonostante gli emendamenti alla legislazione militare, va comunque sottolineato che continuano a tutt’oggi fermi e pratiche violente di interrogatorio di bambini palestinesi minori di 16 anni .

È logico attendersi che, per quel che riguarda i provvedimenti di condanna, le statistiche risultino ovviamente sbilanciate a sfavore delle pene comminate ai palestinesi.

L’aspetto che esprime maggiormente la discriminazione di cui parliamo è il tasso di condanne e assoluzioni. Tra gli imputati palestinesi di fronte alla giustizia militare, circa il 90-95% viene annualmente condannato con un record nel 2011 pari al 99,74% di condanne. Un dato senza eguali al mondo. Per i reati commessi dai coloni, l’85,3% delle inchieste è chiusa per impossibilità di localizzare il sospetto o per insufficienza probatoria. Il 7.4% delle inchieste conduce a una richiesta di rinvio a giudizio, ma la probabilità che dopo quel rinvio a giudizio si giunga a condanna è di circa l’1.8%, quindi quasi nulla.

Le condotte di Israele mirano alla conquista territoriale con alterazione demografica del territorio colonizzato. Esistono storicamente esempi di un colonialismo così violento?

Non so dire se ci siano esempi storici di colonialismo in cui la potenza coloniale puntasse alla progressiva alterazione demografica del territorio colonizzato, rendendola omogenea alla potenza coloniale tramite progressiva espulsione della popolazione indigena. Del resto, quello sulle politiche di alterazione demografica è uno dei quesiti che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con voto a larghissima maggioranza, ha posto alla Corte Internazionale di Giustizia per l’importante parere consultivo che si attende tra qualche mese. La Corte dovrà pronunciarsi sulla legalità o illegalità complessiva dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali della stessa.

I Territori Palestinesi Occupati sono insomma il teatro di una sommatoria, unica nel suo genere, di gravi violazioni del diritto internazionale.

In effetti, varie violazioni si intersecano. Violazioni di norme che si considerano cosiddette di ius cogens a livello internazionale. Si tratta di norme perentorie, inderogabili, di tale importanza che un ipotetico trattato volto a stabilire deroghe a queste norme sarebbe privo di validità. Tra queste, il divieto di acquisizione, quindi di conquista di territorio tramite uso della forza militare. Aspetto su cui, ad esempio, c’è stata la convergenza delle condanne di tutti i Paesi occidentali nel caso dalla Federazione Russa in Ucraina. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia di cui le parlavo prima e riguardante le violazioni israeliane verterà anche su questo aspetto. Ciò è molto rilevante, anche in considerazione del fatto che le prerogative di governo del territorio occupato sono in corso di trasferimento a ministri oltranzisti quali Smotrich e Ben Gvir, con conseguente cessione a funzionari civili di quei poteri di indirizzo che prima erano nelle mani dell’esercito. In altre parole, siamo di fronte al superamento pieno delle soglie giuridiche per parlare di annessione.

Siamo cioè a un salto di qualità dell’aggressione militare alla Palestina, che va anche oltre la sconcertante impunità di Israele di fronte a risoluzioni e norme di diritto internazionale.

Dopo una lunga occupazione, ormai, il primo ministro Netanyahu dichiara apertamente il cosiddetto diritto “esclusivo e insindacabile” degli ebrei israeliani su tutto il territorio storico. In definitiva, è esplicito nel non riconoscere nessun diritto all’autodeterminazione e persino all’esistenza dei palestinesi come gruppo nazionale. Da queste macro-violazioni derivano a cascata ulteriori abusi. I coloni, come testimoniato da decenni di report delle organizzazioni per i diritti dell’uomo, si contraddistinguono spesso per comportamenti particolarmente violenti e razzisti, in alcuni casi sfilando in cortei che incitano direttamente e pubblicamente al genocidio dei palestinesi. In questa cornice vanno inserite le dichiarazioni del ministro Smotrich, egli stesso colono, che a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, ha apertamente affermato che il popolo palestinese non esisterebbe, sarebbe un’invenzione. Tali parole espresse contro qualsiasi altro gruppo nazionale scatenerebbero un putiferio, costituendo una premessa di eliminazione e il segnale di un pericolo di genocidio. Ma la gravità della situazione si può rilevare anche a partire da commentatori israeliani e stranieri che utilizzano la locuzione “cosiddetti palestinesi”, a dimostrazione di una palese intolleranza e sprezzo, persino sul piano linguistico, verso l’esistenza di questo gruppo nazionale. Non mancano editoriali, infatti, che teorizzano apertamente la necessità di ‘cancellare la Palestina’.

Si può parlare di una strategia sempre più evidentemente finalizzata all’eliminazione fisica del popolo palestinese?

Eliminazione fisica non direi. Ma l’eliminazione incrementale del gruppo nazionale in quanto tale è un pericolo concreto. In che modo questo gruppo nazionale può sopravvivere come tale senza territorio, senza uno stato, senza diritti civili e senza autodeterminazione? Bisognerebbe cominciare a ragionare delle responsabilità cogenti degli Stati nel prevenire pericoli di genocidio. Non parliamo però di genocidio, in senso giuridico, come eliminazione fisica di un gruppo (o di una sua parte sostanziale), ma di progressiva eliminazione di uno Stato palestinese e della negazione del diritto a esistere dei palestinesi come gruppo nazionale, mettendone a rischio la sopravvivenza di insediamento coloniale in insediamento coloniale, di espulsione in espulsione, di confinamento in confinamento. Il rischio, insomma, è che nel medio termine non esisterà più un gruppo nazionale palestinese. Si discute molto di rischi di genocidio in relazione all’Ucraina, anche se la Federazione Russa non ha intenzioni di conquista territoriale integrale dell’Ucraina. Per Israele lo scopo di una conquista integrale o quasi integrale del territorio palestinese, con cancellazione incrementale dello stato di Palestina, è un obiettivo in vista.

Inoltre, il divieto di trasferimento di civili appartenenti alla potenza occupante nel territorio che essa occupa è uno dei più centrali divieti nel diritto internazionale contemporaneo, con precisa rilevanza nel diritto penale internazionale e funzionale a proteggere territori in conflitto da progetti di denazionalizzazione forzata. Proprio a Norimberga emerse un’imputazione di “germanizzazione” dei territori occupati, perché nell’abietta idea imperialista del Reich v’era la spinta all’omologazione etnico-razziale e culturale dei territori conquistati, oltre che l’obiettivo della conquista territoriale in sé. Il divieto contro queste pratiche è oggi confluito nel crimine di guerra trasferimento di civili dello Statuto della Corte penale Internazionale (di cui l’Italia è parte e che fu concluso a Roma). Date tutte queste premesse, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sarà decisivo.

Tra gli altri organismi internazionali interessati, sarebbe fondamentale un ruolo più attivo della Corte Penale dell’Aia sul tema delle violazioni in Palestina.

Sì e anche in questo caso si registra l’avanzamento dell’indagine in merito da parte della Corte Penale Internazionale. Questa, che è un organo non sospettabile di simpatie anti-occidentali, ha infatti precisato di avere giurisdizione sulla situazione in Palestina. La ex procuratrice della Corte ha ricostruito un quadro indiziante molto grave a carico di Israele, incluso il massiccio trasferimento di civili della potenza occupante in territorio occupato.

Tuttavia, con la gestione di Karim Khan, nuovo procuratore della Corte, registriamo anche un’eccessiva lentezza procedurale.

È da 15 anni che le vittime palestinesi attendono giustizia da parte dell’Aia. Ed è vero che per questo motivo si diffonde un clima di sfiducia, che però ha un effetto nichilista che rischia di allontanarci dalla responsabilità di mobilitarci affinché quelle indagini siano portate a termine e che si celebrino processi per accertare le responsabilità. Va detto che le indagini non riguardano solo le autorità israeliane, ci sono indizi di gravi crimini di guerra anche a carico di alcuni gruppi armati palestinesi, il che rende ancora più assurde le mobilitazioni del Governo Netanyahu contro la Corte stessa. Abbiamo tutti una responsabilità a mettere pressione affinché le indagini si concludano in tempi ragionevoli. Ci sono migliaia di vittime che attendono giustizia, con crimini iper-documentati da decenni di lavoro sul campo di ONG e difensori dei diritti umani.

Eppure, nel caso del mandato di arresto emesso nei confronti di Putin per i fatti ucraini, la Corte si è mossa con grande intensità e velocità procedurale…

Accade quando c’è forte pressione degli interessi dominanti, ma anche, a cascata, delle classi dirigenti, del giornalismo investigativo, dell’opinione pubblica, e così via, sicché le istituzioni inquirenti sono spronate ad agire più velocemente. Per simili, analoghe violazioni del diritto internazionale nel contesto ucraino, tutte le potenze occidentali affermano concordi che è la legalità internazionale a dover essere il punto di partenza per una pace giusta. La legge del più forte non può essere presupposto di pace. Non si capisce perché questo principio non debba applicarsi in Palestina. La via della pace non è certo l’illegalità. Per ripristinare la legalità è necessario porre fine alla costruzione di insediamenti coloniali. Parlano chiaramente le risoluzioni dell’ONU, incluso il Consiglio di Sicurezza, con l’astensione persino degli USA, che intimano ad Israele il loro smantellamento.

Sia io che lei, non nascondiamolo, per il solo fatto di discutere analiticamente e criticamente dell’operato da parte dell’occupazione israeliana, potremmo incappare in assurde accuse di antisemitismo da parte di qualcuno.

Sarebbe diffamazione, contro la quale personalmente agirei immediatamente in giudizio. Ma devo dire che lo scenario è profondamente cambiato negli ultimi dieci anni. Mentre l’antisemitismo è un male antico e ancora lungi dall’essere sconfitto, l’uso strumentale e distorto dell’accusa di antisemitismo contro chiunque denunci forme di razzismo contro i palestinesi e critichi i governi israeliani ha perso molto mordente. Certo, tale accusa, per la tragedia storica che evoca, è particolarmente sgradevole ed inquietante. Ha costretto chi ne è stato ingiustamente vittima alla necessità di difendersi e contro-argomentare, il che, per chi non è antisemita, è già una pena di per sé. È una battaglia ancora in corso, ma rispetto alla definizione IHRA, esistono altre definizioni operative di antisemitismo come la Jerusalem Declaration, che non rinunciano al sacrosanto contrasto all’antisemitismo, ma non cedono a sue indebite sovrapposizioni con le critiche a una potenza occupante. Il vento sta cambiando da questo punto di vista.

Similmente a quanto accadde per l’apartheid in Sudafrica, la mobilitazione internazionale sta abbattendo sempre più muri di complicità e smantellando le premesse della discriminazione istituzionalizzata. È in questo quadro che si inserisce la vicenda di Khaled el Qaisi ed è in questo quadro che dobbiamo tutte e tutti agire, ciascuno secondo le proprie possibilità, perché i suoi diritti e quelli del popolo palestinese siano rispettati.

da qui

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