giovedì 23 novembre 2023

Il viaggio impossibile - Lea Ypi

 

UN RACCONTO POLITICO . Per gentile concessione dell’autrice ripubblichiamo un pezzo uscito sabato sul Financial Times di Lea Ypi, docente di Filosofia politica alla London School of Economics e scrittrice. Il suo romanzo “Libera” è uscito in Italia per Feltrinelli

 

In un giorno assolato di marzo del 1997, a Durazzo, un’insegnante albanese di mezza età porta suo figlio di 11 anni sulla spiaggia. I due si bagnano i piedi nell’acqua, scrivono i loro nomi sulla sabbia e poi restano seduti a guardare il mare. Lei tira fuori uno spuntino che ha portato da casa: pane scuro, pezzettini di feta, cetrioli e pomodori avvolti in un foglio di giornale. Madre e figlio iniziano un bisticcio – il ragazzino afferma di non avere appetito e la donna insiste perché mangi, pena l’immediato rientro a casa – quando sentono una forte esplosione, simile ai fuochi d’artificio sparati durante i matrimoni.

«GLI ALBANESI festeggiano sempre – sorride la donna – anche quando restano in mutande». Intanto i rumori si fanno più vicini e frequenti. In quei giorni il sud del paese era precipitato nel caos: molte famiglie avevano investito tutti i loro risparmi in compagnie finanziarie fraudolente andate in bancarotta, la disperazione spingeva le persone in strada e le proteste sfociavano spesso in combattimenti tra gruppi armati. A Durazzo la vita andava avanti come al solito, indifferente al declino, impermeabile alla speranza. In un istante la donna capisce che quelli che credeva fuochi d’artificio erano in realtà colpi di kalashnikov. Afferra il bambino e inizia a correre a piedi nudi sulla spiaggia.

QUELLA DONNA ERA MIA MADRE. Lei e mio fratello quella sera non sono tornati a casa. Nell’arco di un mese l’intero paese è piombato nell’anarchia. C’erano spari dappertutto, come se premendo il grilletto le pallottole potessero trasformarsi nei soldi persi per sempre. Venne dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Serrata in casa, a Durazzo, mi chiedevo se mia madre e mio fratello fossero tra i morti.

Qualche giorno dopo squillò il telefono. Mentre correvano sulla spiaggia in fuga dagli spari mia madre e mio fratello avevano visto una nave requisita dai rivoltosi attraccata sul molo e si erano imbarcati. Una volta arrivati in Italia avevano trovato riparo in un centro vicino a Fasano, in Puglia. All’epoca questi centri venivano chiamati «campi profughi»: la Chiesa ne gestiva la maggior parte. Oggi sono subappaltati a compagnie private e si dividono in Centri di prima accoglienza e Centri di permanenza per i ripatri, dove i migranti sperimentano la detenzione amministrativa. Mia madre ammette di non ricordare se il loro centro fosse presidiato dalle forze dell’ordine, ma ricorda di essere scappata al calar del buio per andare alla stazione e prendere il primo treno per Roma. È certa però che non ci fossero barriere, filo spinato o telecamere di sorveglianza.

HO RIPENSATO a questa storia la scorsa settimana quando l’Italia ha siglato un accordo con il governo albanese per aprire due centri per migranti in Albania, uno per processare le richieste di asilo e l’altro per rinchiudere le persone in attesa del rimpatrio. Ho pensato alle migliaia di persone che, come mia madre e mio fratello, scappano da guerra, povertà e persecuzioni per cercare rifugio in paesi che diventano sempre più ostili nei loro confronti, sempre più indifferenti al loro destino.

Detenzione amministrativa è un termine tecnico, che veste di neutra burocrazia l’aspra realtà della coercizione. Già traumatizzati dal viaggio, i migranti attendono in isolamento la libertà o l’espulsione. C’è un modo meno diplomatico ma forse più accurato di definire la faccenda: carcerazione senza processo.

ESISTONO VARI PRECEDENTI giuridici di accordi che consentono a ricchi stati liberali di gestire le richieste di asilo fuori dai propri confini, come ad esempio quello tra Australia e Nauru e quello tra Uk e Ruanda (recentemente dichiarato illegittimo dalla Corte suprema della Gran Bretagna). Nel 1990 gli Stati Uniti usarono Guantanamo Bay per imprigionare i rifugiati haitiani. Secondo il recente protocollo firmato con l’Italia, lo stato albanese dovrebbe cedere temporaneamente la propria sovranità nelle aree dove verranno realizzati i centri, consentendo al personale italiano (di polizia, sanitario, amministrativo, giudiziario) di esercitare le proprie funzioni.

Per ricevere assistenza dallo stato albanese, i migranti devono essere già deceduti: l’articolo 9 dell’accordo, infatti, prevede che i cadaveri possano sostare negli obitori del paese per 15 giorni. Tutte le spese saranno sostenute dall’Italia mentre la terra è data in offerta, così ha chiarito il premier Rama, con spirito di gratitudine verso Roma che ha accolto gli albanesi che scappavano dall’inferno negli anni Novanta.NEL CASO DI MIA MADRE e mio fratello, la fuga dall’inferno si è fermata a un preciso indirizzo: la casa dell’anziana disabile «signora Caterina», nel quadrante nord di Roma, in un quartiere noto per le simpatie neofasciste. La signora aveva tre figli che non vivevano più con lei e un ampio appartamento di cui mia madre e mio fratello occupavano una piccola stanza.

Due dei figli della donna avevano difficoltà a memorizzare il nome di mia madre, per questo veniva presentata agli ospiti come «la badante albanese», sottolineando: «albanese, ma molto onesta». Mia madre cucinava, puliva, lavava e vestiva la signora Caterina. Di tanto in tanto spolverava anche la piccola statua di Mussolini che la signora teneva accanto al letto. Sostiene che la pagassero molto bene: un milione di lire al mese, una somma che oggi, adattata all’inflazione, potrebbe corrispondere a circa 700 euro. «Per quante ore al giorno?», le ho chiesto mentre preparavo questo articolo. «24 su 24, ma avevo la libera uscita di domenica», mi ha risposto. «Avevi un contratto?». «No, mi fidavo».

MIA MADRE si era affezionata alla signora Caterina. Le due avevano trovato un terreno comune nella condanna unanime degli orrori del comunismo e nella rispettosa considerazione per il Duce: «un politico capace che ha fatto tutto per il bene dell’Italia», usava definirlo l’anziana signora. Mio fratello iniziò a frequentare la scuola più vicina, nel tragitto passava tutti i giorni di fronte a un muro dove campeggiava la scritta «Fuori gli albanesi». Faceva i compiti da solo, giocava con un gameboy di seconda mano e aspettava con ansia la domenica, quando la madre lo portava fuori per un gelato. Si riteneva un bambino fortunato.

POCHI GIORNI DOPO la sua partenza dall’Albania, un’altra nave che trasportava più di 100 migranti, principalmente donne e bambini, veniva speronata dalla guardia costiera italiana nel porto di Otranto. La maggior parte delle persone a bordo morì in mare. Il governo albanese aveva appena firmato un accordo che autorizzava l’Italia a usare la forza per prevenire l’ingresso dei barconi nelle sue acque territoriali. Anche in quell’occasione le autorità espressero gratitudine per l’ospitalità italiana.

A settembre dello stesso anno mi trasferii anche io a Roma, con un visto di studi. Ricordo un giorno alla stazione Termini, quando aiutai una signora anziana a spostare la sua valigia: meno male che c’erano ancora giovani come me, disse lei, «che qui è pieno di albanesi». Ricordo la chiacchierata con un paziente nella sala di attesa di un medico quando mi disse che gli albanesi avevano la violenza nel sangue. E ricordo anche il racconto di un’amica giornalista che quando chiamava il suo direttore per informare di una rapina, uno stupro o un’uccisione, per prima cosa si sentiva domandare se i sospetti per caso fossero albanesi. Altrimenti ci sarebbe stato poco tiro per la notizia.

Gli albanesi, un tempo descritti come «barbari», «criminali» e «ladri» dai media italiani sono diventati oggi i bravi migranti per eccellenza. Molti si sono affermati come cantanti pop, ballerini e star televisive. Si sono integrati, esattamente come tutti i migranti tendono a fare qualche anno dopo il loro arrivo, quando il successo inizia a dipendere più dalla classe sociale che dalla provenienza geografica. Molti sono tornati in Albania e hanno investito lì i loro risparmi. Come mostrano molti studi sull’economia circolare, i migranti spesso tornano nei loro paesi di origine quando le condizioni lo permettono.

TUTTE LE FAMIGLIE albanesi hanno ricordi simili ai miei, di quando venivano presentati come «albanesi, ma gran lavoratori», di quando tentavano di nascondere l’accento, di quando mentivano sulla propria nazionalità per ottenere un posto di lavoro. Tutti sono restii a raccontare le loro storie. Potrebbe sembrare ingrato. O forse è semplicemente doloroso.

I barbari oggi sono altri. Tra le pagine del Secolo d’Italia, giornale vicino a Fratelli d’Italia, i titoli assomigliano molto a quelli che leggevo nel mio periodo in Italia. Ma il bersaglio è cambiato: «I musulmani invadono l’Italia»; «l’Islam è pericoloso e solo gli idioti non lo capiscono»; «l’Italia è già invasa dagli islamici, presto saranno metà della popolazione».

LA MAGGIORANZA degli albanesi sono di origine islamica (tendevo a nascondere anche questo aspetto della mia famiglia). Ma le loro credenziali europee sembrano certe. L’anno scorso l’Albania ha iniziato le trattative per l’accesso all’Unione Europea. Ma che cos’è l’Europa?

«Non un club», secondo Meloni. Forse ha in mente più che altro una «civiltà». Forse persino una civiltà superiore, a giudicare dai titoli dei giornali che sostengono la sua linea. «Come sapete – ha dichiarato la premier alla conferenza stampa che annunciava il protocollo – A me non piace definirlo allargamento, mi piace parlare di riunificazione».

MA RIUNIFICAZIONE è un termine giuridico. Presuppone la ricostituzione di un corpo sovrano precedentemente disgregato (viene in mente la Germania dopo il 1989). Tecnicamente l’unico periodo storico in cui l’Italia e l’Albania appartenevano allo stesso sistema giuridico è quello che va dal 1939 al 1943, quando Vittorio Emanuele III era diventato «Re d’Italia e d’Albania», a seguito dell’occupazione fascista.

«Albanesi e italiani sono una stessa razza», si scriveva nel 1941 in un articolo pubblicato sulla rivista La difesa della razza, un bisettimanale il cui segretario di redazione era Giorgio Almirante. In seguito avrebbe ricoperto il ruolo di capo dello staff del ministero della Cultura nella Repubblica di Salò per poi diventare il leader del Movimento sociale italiano, partito neofascista dove Meloni ha mosso i suoi primi passi. Quando il primo ministro sostiene che non si tratta di allargamento ma di riunificazione, si sta rivolgendo al pubblico europeista illuminato o sta solleticando le fantasie della sua base più nostalgica?

FORTUNATAMENTE per Meloni, gli albanesi sono ancora troppo traumatizzati dal recente passato comunista per voler riaprire le remote ferite coloniali. La storia insegna che il modo in cui il centro coloniale rappresenta una crisi politica plasma la versione che viene proiettata nella periferia. Molti albanesi sembrano convinti del fatto che l’immigrazione sia un problema, nonostante la piaga reale del paese sia invece l’emigrazione (la costante fuga di cittadini).

L’OPINIONE PUBBLICA critica verso l’accordo Meloni-Rama, anche incarnata da intellettuali, ha offerto per lo più un triste spettacolo di ostinata distorsione dei fatti: grandiose celebrazioni dell’eredità greco-romana-cristiana del paese, imbarazzante silenzio sul periodo ottomano e su quello comunista, fino ad arrivare al razzismo puro e semplice. Ma mentre in molti stati europei questi discorsi sono alimentati da politici al governo, in Albania perlomeno si limitano ai commenti sulle reti sociali.
Il primo ministro albanese, dal canto suo, ha firmato l’accordo dichiarando di non voler rivendicare pubblicamente i suoi meriti. Scelta sorprendente, visto che due anni prima durante la trattativa per un accordo simile con la Gran Bretagna ci aveva tenuto a rendere esplicita la sua posizione: «L’Albania non sarà mai la discarica per migranti dei paesi ricchi». Cosa è cambiato?L’AMICIZIA TRA I DUE PAESI, a quanto sembra. Ma la vera amicizia è fondata sulla reciprocità ed è interessante immaginare come Meloni avrebbe risposto se l’Albania avesse fatto una richiesta analoga. Dalle scorse elezioni politiche italiane, un netto aumento degli sbarchi in Italia ha portato all’implementazione di politiche sempre più securitarie.

Qualche settimana fa Meloni ha inviato una lettera al cancelliere tedesco Olaf Scholz in cui esprime il suo sconcerto di fronte alla decisione del governo tedesco di finanziare le Ong impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo. Secondo lei queste missioni di soccorso incoraggiano il traffico di essere umani, una tesi che come dimostrano molti studi tra cui uno recente di Harvard, non è fondata su alcuna prova empirica. La Ue, secondo Meloni, deve concentrare i suoi sforzi nella costruzione di «soluzioni strutturali» per i migranti.

LE SOLUZIONI STRUTTURALI, però, necessitano di una diagnosi adeguata del problema e di una valutazione coerente delle alternative. L’immigrazione non è un’emergenza: al contrario, aiuta a contrastare il declino demografico, e i paesi di provenienza beneficiano in ultima stanza degli effetti dell’economia circolare. Ma anche nel caso fosse un’emergenza, la posizione di Meloni è priva di fondamento logico. Il suo slogan «Prima gli italiani» è un principio egoista che non si può generalizzare. Se l’interesse nazionale trionfa sulla solidarietà internazionale, la sua «soluzione strutturale» non fa che perpetuare il problema che vorrebbe risolvere. Forse è proprio questo l’intento: non riformare l’Europa ma demolirla dall’interno. Non creare una nuova cornice per la giustizia cosmopolita ma semplicemente affermare la volontà di potenza delle nazioni, non Kant ma Nietzsche.

È una visione coerente, anche se per niente auspicabile: una narrativa che ruota attorno al concetto di «civiltà», che distingue gli autoctoni da proteggere dai barbari da deportare, una «soluzione strutturale» che punta all’implosione della struttura. Questo è il vero motivo per cui l’unica concreta proposta sulle migrazioni è la rimozione fisica dell’Altro. La detenzione amministrativa già rende i migranti invisibili dietro le sbarre, con lo spostamento fuori dai confini anche le sbarre stesse spariscono dalla vista.

PURTROPPO FUNZIONA. La Germania e l’Austria stanno già valutando soluzioni di gestione extraterritoriale dei migranti. Il nuovo ministro degli Interni britannico James Cleverly ha commentato la sentenza della Corte suprema sugli accordi con il Ruanda sottolineando che «c’è interesse intorno a questo concetto».

Ma ci sono anche molte perplessità. Questi accordi sono spesso giuridicamente controversi (c’è una questione di compatibilità con il diritto internazionale e con i diritti umani), inefficienti dal punto di vista amministrativo (le procedure di valutazione dei casi potrebbero allungarsi ancora di più), economicamente dispendiosi (gli stati continuano a coprire tutte le spese) e moralmente dubbie. Violano quello che Kant chiamava un diritto cosmopolita, «il diritto dei cittadini del mondo di provare a fondare una comunità con gli altri».

IL GUAIO È CHE questi progetti continuano a danneggiare anche quando falliscono, anzi proprio in quanto progetti fallimentari. Anche questo è «strutturale». Se agitare lo spauracchio delle migrazioni diventa la condizione per vincere le elezioni, gli avversari politici sfidano i partiti al governo proponendo misure sempre più dure, accrescendo il costo umanitario e incoraggiando l’ostilità verso le corti che rovesciano decisioni politiche problematiche.

Anche se il partito di Meloni appare più moderato oggi che governa il paese, la corsa al ribasso non si fermerà. L’autoritarismo non è qualcosa che c’è o non c’è, è un processo. Considerare l’immigrazione come un problema è il cavallo di Troia che rischia di incendiare la democrazia. La destra ha creato in Europa un’avanguardia della devastazione: provando a sostituire un lungimirante progetto di integrazione con il pericoloso mito di un passato comune, nascondendo lo sfruttamento del lavoro migrante con la criminalizzazione degli stranieri.

L’ALTERNATIVA NON È discutere dei contorni ma rifiutare l’intera cornice, spostando l’attenzione sull’ingiustizia di un ordine globale che forza le persone a lasciare il proprio paese. E rivendicare maggiori diritti per i migranti (diritti politici e sociali) per fornire loro più strumenti per lottare.

La signora Caterina è morta tra le braccia di mia madre pochi mesi dopo averla incontrata. Lei e mio fratello sono poi tornati in Albania. Quando ha saputo dell’accordo con l’Italia mia madre ne è stata entusiasta. «Certo che l’Albania deve accogliere migranti, sono disperati, proprio come lo eravamo noi». Poi le ho spiegato come la «detenzione amministrativa» avrebbe consentito all’Italia di rifiutare quell’accoglienza che in qualche modo era stata offerta a lei. «Allora non è una soluzione – ha asserito – Solo propaganda. Ne abbiamo già vista parecchia in passato».

da qui

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