mercoledì 1 novembre 2023

Una “nuova” riforma per gli istituti tecnici e professionali? - Giovanna Lo Presti

  

Il disegno di legge che istituisce la “filiera formativa tecnologico-professionale” mi ha fatto sorgere – e con prepotenza – un dubbio: che non sia stato scritto con l’ausilio dell’intelligenza artificiale? Gran parte del testo mi pareva di averlo già letto in precedenza, da altre parti. Persino Giuseppe Fioroni, il più umile dei “riformatori scolatici” nostrani, quello che aveva dichiarato di voler “usare il cacciavite”, aveva immaginato “poli tecnico-professionali”, organismi di natura consortile formati da tre componenti: istituti tecnici e professionali, strutture formative accreditate per il conseguimento di qualifiche (gli attuali percorsi triennali) e istituti tecnici superiori che avrebbero dovuto essere l’evoluzione degli Ifts. Da Berlinguer a Renzi il tentativo di “riformare” tecnici e professionali, rendendoli adeguati alle richieste del mercato del lavoro e riducendo il tempo-scuola, è andato avanti, ancorché a rilento.

Nella “riforma” Valditara ho cercato invano idee nuove, prospettive inconsuete nate da una analisi spregiudicata della realtà scolastica esistente e, purtroppo, ho trovato una ripetizione di luoghi comuni che, da almeno un quarto di secolo, vengono ripetuti da coloro che dovrebbero governare la scuola. I primi sono, per così dire, di ordine generale e si riassumono in due affermazioni categoriche. La prima: gli istituti tecnici e i professionali non sono scuole di serie B (quindi, debbono diventare scuole di serie A). La seconda: c’è un mismatch, una mancata corrispondenza tra formazione e richieste del mondo del lavoro e a questo bisogna porre rimedio se si vuole diminuire il dato preoccupante della disoccupazione giovanile. L’una e l’altra affermazione, in apparenza così sensate, sono invece infondate.

Le attuali “scuole di serie A” (sostanzialmente i licei, come rileva anche l’ultimo rapporto Invalsi) sono tali perché frequentate dai figli delle classi più abbienti e più colte. I dati sono incontestabili e forniti da varie indagini: è la famiglia che orienta verso la scelta della scuola superiore e, in gran parte, contribuisce al successo scolastico dei figli. E lo stato della famiglia di provenienza incide per tutta la durata degli studi: «tra i figli di genitori con la laurea, il 75% ha la probabilità di laurearsi a sua volta. Dato che scende al 48% tra chi ha alle spalle una famiglia dove il titolo di studio massimo è il diploma e al 12% se i genitori hanno la licenza media» (https://www.openpolis.it/in-italia-il-titolo-di-studio-dei-figli-dipende-troppo-spesso-da-quello-dei-genitori/). La scuola, insomma, non è in grado di colmare il divario di partenza. Ma potrebbe farlo se, nelle prime fasi della scolarizzazione, si tenesse davvero conto di quel motto tanto citato quanto disatteso: “dare di più a chi ha di meno”. Ne consegue che, in una società sempre più marcata dalle diseguaglianze come la nostra, professionali e tecnici non potranno diventare “scuole di serie A” magicamente e che le differenze tra le scuole superiori verranno appianate soltanto quando la scelta della scuola verrà determinata dall’inclinazione dello studente e non dalla collocazione sociale della sua famiglia. Da questo traguardo siamo molto distanti.

Passiamo al secondo assioma (e anche qui siamo di fronte alla pedissequa ripetizione di un luogo comune): il mismatch tra formazione scolastica e mondo del lavoro sarebbe all’origine dell’alta percentuale di disoccupazione giovanile in Italia. Si tratta di una bugia grossolana ma che, a forza di essere ripetuta da decenni e da più parti, rischia di assumere il colore della verità. Invece di individuare le cause della disoccupazione giovanile in dati strutturali (la totale e pluridecennale mancanza di politiche del lavoro volte ad arginare la precarizzazione e la diminuzione di posti di lavoro, gli effetti sciagurati connessi all’allungamento della vita lavorativa etc.) si individua nella scuola la vera colpevole. Ma io so che, secondo l’Istat, nel decennio 2012-2021, sono andati via dall’Italia circa 337mila giovani tra i 25 e i 34 anni; di essi oltre 120 mila al momento della partenza erano laureati. Pur tenendo conto dei rimpatri, il saldo è sempre negativo; nel periodo considerato sono espatriati oltre 79mila giovani laureati. Come mai? A causa del mismatch o a causa dell’impossibilità di trovare un’occupazione dignitosa?

So anche che a metà degli anni Ottanta persino i diplomati tecnici con punteggio minimo ricevevano (almeno nelle zone industrializzate) in tempi brevi numerose proposte di colloquio dalle aziende e, in tempi altrettanto brevi, trovavano un posto di lavoro stabile e quasi sempre adeguato alla loro qualifica. Poi arrivarono gli anni Novanta e la parola “flessibilità” prese il sopravvento, le tutele per i lavoratori diminuirono (e con esse le retribuzioni) e si cominciò a parlare con insistenza sempre maggiore di long life learning connesso al lavoro. Chi aveva il potere (industria e Governo, con l’appoggio di intellettuali neoliberisti mainstream) disegnava il profilo di un lavoratore “flessibile” (cioè precario) e pronto ad adeguarsi alle nuove richieste del datore di lavoro. Non ci vuol molto a comprendere che qui non si sta parlando di “posti di lavoro ad alta qualifica”; questi vengono sempre sbandierati, ma già nel 2007 Luciano Gallino (tra i maggiori sociologi italiani) metteva in rilievo come il mercato del lavoro di allora offrisse prevalentemente posti di lavoro a bassa qualifica. Saltabeccare da una mansione all’altra (eufemisticamente detto “flessibilità”) è possibile a condizione che ci si occupi di mansioni esecutive, va da sé. A meno che non si faccia il manager. Per occultare la mancanza di serie politiche economiche e del lavoro – la cui debolezza ha portato a questa situazione – è stato necessario trovare una giustificazione all’inaccettabile tasso di disoccupazione giovanile. La scuola, che non preparerebbe al lavoro futuro, svolge così la funzione di capro espiatorio.

Il terreno per sottrarre alla scuola la sua vera funzione – istruire ed educare – è stato dissodato dalle classi dirigenti europee almeno dall’inizio degli anni Novanta. Ci limitiamo a ricordare l’incipit del Libro bianco di Edith Cresson Insegnare e apprendere. Verso una società conoscitiva (1995): «Le mutazioni in corso hanno incrementato le possibilità di ciascun individuo di accedere all’informazione e al sapere. Tuttavia, al tempo stesso, questi fenomeni comportano una modifica delle competenze necessarie e del sistemi di lavoro che necessitano notevoli adattamenti. Per tutti questa evoluzione ha significato più incertezza. Per alcuni si è venuta a creare una situazione di emarginazione intollerabile. Sempre più la posizione di ciascuno di noi nella società verrà determinata dalle conoscenze che avrà acquisito. La società del futuro sarà quindi una società che saprà investire nell’intelligenza, una società in cui si insegna e si apprende, in cui ciascun individuo potrà costruire la propria qualifica».

Non è necessario essere raffinati ermeneuti per comprendere cosa non va in queste affermazioni. Una “evoluzione” che dà a tutti la possibilità di accedere al sapere e all’informazione, come può generare “incertezza” o addirittura “creare una situazione di emarginazione intollerabile”? Risulta chiaro che, invece, non tutti possono davvero accedere al sapere, considerato in queste righe, secondo una visione neoliberista, non un patrimonio sociale ma un bene di cui l’individuo in quanto tale, sgomitando, si può appropriare. Ed ecco chiaro cosa c’è che non va: ridurre la scuola a una pura propedeutica per il lavoro futuro comporta uno snaturamento radicale dell’istituzione. Ma questo non importa a chi vuole avere manodopera formata e a basso costo; anzi, i padroni del vapore (perché il capitalismo italiano non si distanzia da tale bozzettistico e arcaico modello) plaudono ad ogni tentativo di “riforma” scolastica che vada nella loro direzione.

L’ultimo tentativo di far sì che la metà degli istituti superiori italiani (tecnici e professionali) siano asserviti al mercato del lavoro, porta quindi la firma di Valditara. Non vale la pena di considerare i dettagli, che forse saranno destinati a cambiare. I passaggi più significativi concernono la riduzione del numero di anni di studio: si passa da cinque a quattro. Ma niente paura: il grado di istruzione dei giovani, ci assicurano, non calerà. Ancora una volta il pensiero magico si impone. Quanto ad abbreviare il percorso di studi superiori il disegno di legge non è così coerente: si afferma che, concluso il percorso quadriennale gli studenti potranno «sostenere l’esame di Stato presso l’istituto professionale, statale o paritario, assegnato dall’Ufficio scolastico regionale territorialmente competente, in deroga al previo sostenimento dell’esame preliminare». Si troveranno perciò, dopo quattro anni accanto a loro compagni che hanno frequentato un anno più di loro. Non comprendo perché “professionale” e non “tecnico”, ma non importa. Lasciamo pure perdere la domanda di buon senso: chi li preparerà per l’esame del quinto anno?

Ma una via d’uscita c’è: gli studenti, finito il percorso quadriennale, potranno accedere agli ITS Academy, caldeggiati a suo tempo da Draghi. Il rapporto Indire 2023 fornisce i dati relativi a nove anni di monitoraggio (dal 2013 al 20021) dei corsi post-diploma: su un totale di 36.562 iscritti si sono diplomati in 27.892 e 22.827 hanno trovato un impiego (per oltre il 91% coerente con il percorso di studi), mentre 5.065 risultavano non occupati. La percentuale di occupati è quindi dell’81,8%, quella dei non occupati (19,2%) non si discosta di molto dalla percentuale relativa alla disoccupazione giovanile (22,1% a dicembre 2022). Ci saremmo aspettati la piena occupazione, visto il numero relativamente basso di diplomati ITS! Sorge il sospetto che qualcuno ci stia raccontando una cosa per un’altra o che, ipotizzando percorsi fantasmagorici in cui si intrecciano come in un arabesco ITS Academy, IeFP (percorsi di istruzione e formazione professionale), IFTS (percorsi di istruzione e formazione tecnica), “reti, denominate «campus»”(?) tutti volti a costruire la complicata architettura della “filiera formativa tecnologico-professionale” voglia in realtà distrarci dal leggere il comma 9 dell’articolo 1 del disegno di legge in questione. Arrivare sino al comma 9 è un’impresa, ma leggiamo: «All’attuazione delle disposizioni del presente articolo si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Siamo di fronte ad una ennesima “riforma” a costo zero”! Ma non disperiamo: lo Stato vuole investire i soldi dei cittadini dove serve. Ce lo chiarisce l’articolo 2, dedicato alla “struttura tecnica per la promozione della filiera formativa tecnologico-professionale”. Anche questo senza oneri per lo Stato? Macché: «Per le finalità di cui al presente articolo, è autorizzata la spesa di 815.228 euro».

Vogliamo ancora mettere in luce un’altra bella pensata: nella futura filiera si prevede «la stipula di contratti di prestazione d’opera per attività di insegnamento con soggetti del mondo del lavoro e delle professioni»: detto più brutalmente, le industrie cercheranno di provvedere, loro sì a costo zero, alla formazione dei potenziali neo-assunti e lo Stato pagherà “esperti” gentilmente “prestati” dalle suddette aziende, affinché svolgano attività di insegnamento. C’è da meravigliarsi se Confindustria plaude a questo disegno sconclusionato, le cui fonti possono rintracciarsi in tutti i progetti di riforma dei tecnici e dei professionali ad esso precedenti?

Il rapporto Indire 2023 ci informa inoltre che «gli ITS Academy oggi propongono un modello organizzativo e didattico basato su tre parole chiave: flessibilità, agilità e autonomia». Si vede che all’Indire quella “coscienza critica” che i nostri studenti dovrebbero sviluppare è ben lungi dall’essere raggiunta. L’ultimo quarto di secolo ha illustrato quali siano i danni della “flessibilità” e della (presunta) auto-organizzazione (agilità) nel mondo del lavoro, dell’“autonomia” nella scuola. Così il cerchio si chiude e, come un rospo, la verità viene sputata fuori: il disegno di legge in questione è regressivo, vuol porre rimedio a un problema che affonda le proprie radici nello sfruttamento e nella dis-valorizzazione del lavoro dipendente, le cui cause non sono certo da cercare nei percorsi scolatici. Questi però sono effettivamente inadeguati, poiché circa la metà dei nostri diplomati esce dalle scuole, soprattutto tecniche e professionali, senza essere in grado di comprendere un articolo di giornale. Un bel problema, che non si risolve sottraendo tempo all’istruzione e incrementando l’addestramento al lavoro futuro.

da qui

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