Stabilimenti, campeggi, circoli sportivi e complessi turistici privati occupano oltre il 40% dei circa 8mila chilometri di coste italiane. In alcune Regioni raggiungono picchi del 70%. Tra proroghe illegittime, contestazioni della Commissione europea e strampalati calcoli del governo, i litorali continuano a essere un’esclusiva fonte di profitto. Ma di fronte all’inazione c’è chi ha deciso, pacificamente, di ribellarsi
“Questo non
è il lungomare, è il lungomuro”. Così si rivolge Fabio (nome di fantasia) a due
turisti stranieri sul litorale romano, a Ostia, quando gli chiedono dove sia la
spiaggia libera. Lungo i 13 chilometri di costa ci sono 71 stabilimenti
balneari, che negli anni hanno edificato al punto da rendere invisibile il mare
dalla strada.
Fabio vive a
Ostia da molti anni e in passato ha lavorato in questi stessi stabilimenti;
adesso preferisce non farsi riconoscere, per il timore di subire ritorsioni. È
infatti un attivista di Mare Libero, l’associazione che dal 2019 riunisce
comitati diffusi sul territorio nazionale intorno al Manifesto per il mare, con l’obiettivo di ridiscutere le
politiche che regolano le concessioni demaniali sulle coste italiane. Da cinque
anni organizzano il 14 luglio la “Presa della Battigia”, una serie di azioni
coordinate sparse su tutti i territori, durante le quali gli attivisti si
recano negli stabilimenti balneari reclamando il diritto a transitare e sostare
liberamente nei primi cinque metri di arenile antistanti il mare, che devono
essere per legge lasciati sgombri da attrezzature e liberamente fruibili.
Quest’anno
si sono spinti oltre, piantando i propri ombrelloni nello spazio degli
stabilimenti rivendicando il diritto a fruire della spiaggia dato che le
concessioni risultano scadute. Ad aprile infatti il Consiglio di
Stato ha ritenuto illegittime le proroghe automatiche che il governo aveva firmato
estendendo il termine delle concessioni fino alla fine del 2024. Il giudice
amministrativo ha ritenuto incompatibile il provvedimento, accordato ormai da
diversi anni, con il diritto dell’Unione europea, e in particolare con la direttiva “Bolkestein”, che impone invece che le
concessioni balneari vengano messe a gara.
“Il problema
è pensare che la Bolkestein crei più spiagge libere, non è così: al posto
dell’attuale concessionario viene un grande imprenditore, che aumenta le
tariffe e trasforma lo stabilimento in un
luogo di superlusso”, sostiene Antonio Capacchione, presidente del Sindacato italiano
balneari. “Nessuno può rubare il lavoro di un altro -prosegue Capacchione- se
qualcuno vuole fare il balneare che apra la propria azienda dove c’è spazio,
noi riteniamo che ci sia spazio per nuove concessioni in Italia”.
Ciò su cui
gli imprenditori insistono è la necessità di garanzie di continuità per le
aziende del settore, che offrirebbero un servizio di qualità in grado di
attrarre turisti anche dall’estero; in quest’ottica la proroga automatica
sarebbe una forma di assicurazione nei confronti degli investimenti fatti negli
anni. Il riconoscimento di un indennizzo economico per i concessionari uscenti
è infatti una delle motivazioni alla base dello sciopero indetto dalla Federazione italiana
pubblici esercizi e la Federazione sindacale della Confesercenti per il 9
agosto, quando gli stabilimenti che aderiranno alla protesta apriranno alle 10
di mattina, invece che alle 8. Tra i motivi dello sciopero c’è anche la
mancanza di criteri nazionali sulle gare, che alcuni enti locali e regionali
hanno già iniziato a organizzare.
Al di là
della Bolkestein, Mare Libero chiede di ripensare le politiche sul mare.
“L’idea che la spiaggia sia un luogo di profitto è un’anomalia tutta italiana”
dice Roberto Del Bove, coordinatore dell’associazione nel Lazio. “La
concessione deve essere un’eccezione, non la regola -prosegue Agostino Biondo,
del direttivo nazionale- se il Comune non è in grado di bandire la gara, questa
non si fa e la spiaggia rimane libera”.
È sulla
percentuale di costa data in concessione che si gioca la partita
sull’applicazione della direttiva europea: questa infatti regolamenta
esclusivamente beni di cui sia provata la scarsità. Il governo ha istituito a
giugno 2023 un tavolo interministeriale, con anche le associazioni di
categoria, per mappare lo stato delle spiagge italiane. Le conclusioni
pubblicate a ottobre, ottenute attraverso la banca dati Sid del ministero delle
Infrastrutture, stabilivano che solo un terzo delle zone demaniali era dato in
concessione, mentre il 67% rimaneva libero: pertanto non sarebbe stato
necessario applicare la Bolkestein.
Un risultato
contestato però dalla Commissione europea, perché era stata tenuta in
considerazione tutta la costa senza alcuna distinzione. E non è solo
l’istituzione comunitaria a reputare la mappatura del governo italiano non
idonea. “Gli errori sono sia nel metodo che nel merito” spiega Sebastiano
Venneri, vicepresidente di Legambiente, dove da oltre trent’anni si occupa di
mare, aree protette e turismo. “Nel merito perché a quel tavolo erano assenti
le associazioni ambientaliste, i consumatori e soprattutto i Comuni, che
dovranno fare i bandi per le procedure di trasparenza amministrativa. Nel metodo
perché hanno dichiarato la costa italiana di 11mila chilometri, mentre non
arriva a 8.000”.
Sono stati
infatti inclusi i moli commerciali, i porti industriali, gli impianti
petroliferi e i pontili delle centrali elettriche. Oltre alle coste a falesia
alta e ai pontili frangiflutti dove è impossibile collocare uno stabilimento
balneare. “La costa sabbiosa accessibile in Italia non arriva ai 4.000 mila
chilometri” spiega ancora Venneri, che è autore del Rapporto Spiagge di Legambiente che quest’anno
si è concentrato soprattutto sull’erosione costiera, un fenomeno che negli
ultimi cinquant’anni è costato la perdita di 40 milioni di metri quadrati di
spiaggia. “Più si irrigidisce il terreno costiero più si determina l’erosione.
Per questo le concessioni dovrebbero prevedere sempre opere facilmente
amovibili, che tuttavia sono più l’eccezione che la regola”.
È proprio la
durata pluriennale delle concessioni ad aver favorito il gigantismo degli
stabilimenti balneari che in casi come Ostia ospitano piscine, spa, ristoranti
e boutique, come nelle spiagge di lusso della Versilia, e che in
Regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania occupano oltre il 70%
delle spiagge. Con un costo, oltre che ambientale, di impedimento di accesso al
mare per i cittadini.
“Oltre alle
spiagge occupate dagli stabilimenti bisogna tenere conto della percentuale dei
tratti di costa interdetti e abbandonati. Se si sommano questi casi a una
percentuale già molto bassa di spiagge libere, si può dire che in Campania il
diritto al mare è negato” racconta Klarissa Pica, portavoce di Mare Libero per
la Campania e ricercatrice.
Nonostante
infatti in alcune Regioni ci siano leggi che stabiliscono una quota minima di
spiagge libere, difficilmente queste vengono rispettate. In Emilia-Romagna, ad
esempio, la legge regionale del 31 maggio 2002 prevede che debba essere del
20%, senza specificare però se a livello regionale o comunale. “A Rimini le
spiagge libere non arrivano all’8% e a Cervia neanche al 4%”, spiega Nicoletta
Zampriolo, referente di Mare Libero in Emilia-Romagna. “Sempre nei Comuni più
vicini al delta del Po, inoltre, il conteggio non tiene conto della presenza di
riserve naturali interdette al pubblico per tutto l’anno o in alcuni periodi
specifici”, aggiunge.
Ed è proprio
grazie all’escamotage di conteggiare tratti di costa di fatto
inaccessibili, come le scogliere che circondano Punta dell’Olmo, nel Comune di
Celle Ligure, che l’ex presidente della Liguria Giovanni Toti avrebbe previsto
di sdemanializzare la spiaggia libera in cambio di un finanziamento per le
elezioni del 2021 da parte degli imprenditori Aldo e Roberto Spinelli, che alle
spalle della spiaggia hanno avviato la costruzione di 48 appartamenti e
un resort di lusso dal valore di 90 milioni di euro.
Anche in
Liguria la legge regionale del 28 aprile 1999 stabilisce chiaramente
l’obbligo di garantire il 40% di spiagge libere in ogni Comune. “Una
percentuale che non è mai stata rispettata, dato che la legge ne lega
l’applicazione alla messa in gara delle concessioni”, spiega Selena Candia,
consigliera regionale della coalizione di centrosinistra.
“Gli
imprenditori e i balneari hanno fatto sponda con il centrodestra pensando di
andare avanti all’infinito: non è così. E lo stesso vale per le persone che pensano
che allo strapotere degli stabilimenti balneari non ci sia alternativa. Sono
barriere culturali e politiche da abbattere attraverso gare trasparenti che
prevedano il pagamento di canoni congrui”, afferma Stefano Salvetti, referente
di Mare Libero in Liguria.
Secondo l’ultimo rapporto della Corte dei conti, infatti, tra
il 2016 e il 2020 lo Stato ha incassato in media 101,7 milioni di euro
all’anno, contro un fatturato medio per ogni stabilimento stimato da Nomisma di 260mila euro. “I Comuni
potrebbero usare queste risorse per garantire il salvamento e la presenza di
servizi igienici nelle spiagge libere. A pochi chilometri di distanza, in
Francia, tutto questo è già realtà -conclude Salvetti-. E può esserlo anche
qui”.
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