martedì 6 agosto 2024

Sulle tracce delle armi. La ricerca indipendente e l’economia di guerra - Carlo Tombola

 

Non è più il caso – se mai lo è stato – di disegnare scenari. Quello che è già avvenuto sotto i nostri occhi spiega bene cosa avverrà nei prossimi mesi e anni. Se eliminiamo i rumori di fondo, vediamo con chiarezza la rivincita globale dei fabbricanti di armi, che per molti e lunghi decenni hanno pagato con la marginalità il disastroso primo Novecento, quello della doppia guerra mondiale.

L’escalation guerresca in corso serve a soddisfare le ambizioni di un complesso militare-industriale in sofferenza, quello Usa, la cui forza politica è ben maggiore di quella economica. È abbastanza impressionante considerare come le principali aziende militari erano uscite dal biennio Covid. Tutti i colossi Usa registravano fatturati in diminuzione nel 2022 rispetto all’anno precedente: -8,9% Lockheed Martin, -12% Raytheon, -19% Boeing (un crollo di mercato dovuto soprattutto ai disastri causati dal 737 Max), -5,6% General Dynamics, -13% L3Harris, Northrop Grumman a crescita zero. Anche le più “americane” delle aziende europee faticavano, -7% Leonardo, BAE Systems in crescita a zero. Da un anno all’altro, ai sei supergiganti della difesa sono mancati 22-23 miliardi di dollari di fatturato militare. Alla Borsa di New York, l’azienda leader Lockheed Martin, che nel marzo 2020 aveva registrato la quotazione minima degli ultimi cinque anni, alla fine del 2021 aveva recuperato solo il 17%, ma un anno dopo, alla fine del 2022, incamerava un +70%, oggi (luglio 2024) stabilizzato intorno al +60%.

Notiamo tra parentesi che invece le cose non erano andate male per i grandi gruppi cinesi (Norinco +4,4%, AVIC +4,7%, CASC +4,5%, CETC +2,2%), in generale ancora centrati sulle produzioni civili, così come per le europee Airbus (+17%) e Thales (+2.5%).[1]

Come accade per ogni spedizione militare, con la guerra in Ucraina l’industria logistica si è mobilitata immediatamente, si è messo in moto il meccanismo dei contratti charter gestiti dall’US Military Sealift Command, le prelazioni di navi portacontainer, petroliere, ro-ro. Dopo il 7 ottobre 2023, i noli marittimi non hanno reagito subito, si sono infiammati dal gennaio 2024 come conseguenza di una catena di avvenimenti: gli houthi attaccano le “navi sioniste” in transito al largo dello Yemen in solidarietà con Gaza; Washington risponde lanciando l’operazione “Prosperity Guardian” (dicembre 2023); le assicurazioni marittime applicano il war risk surcharge al transito tra il Golfo di Aden e lo stretto di Bab el-Madeb; sulla rotta Far East-Europa le maggiori compagnie (Maersk e MSC in testa) decidono di evitare il passaggio da Suez, preferendo circumnavigare l’Africa (gennaio 2024).

Il costo di un container da quaranta piedi spedito da Shangai a Genova balza dai 1.300 dollari  di fine ottobre 2023 ai 6.400 di tre mesi dopo, e mentre scriviamo sta superando i 7.500.

Anche dalla prospettiva logistica, come da quella dei fabbricanti di armi, la guerra moltiplica i guadagni. Il blocco di Aden si è tramutato in un insperato vantaggio persino nel caso di ZIM, la compagnia marittima di bandiera di Israele, obiettivo dichiarato delle minacce yemenite, arrestando la disastrosa discesa del titolo quotato a New York, sprofondato nei venti mesi precedenti al 7 ottobre da 84 a 6,9 dollari, ma salito all’inizio di gennaio 2024 a 12,6 per superare i 22 a inizio luglio.

Com’è ovvio, i sovra-costi marittimi si stanno scaricando sui consumatori finali, in primo luogo quelli dei paesi maggiori importatori dalla Cina. Così il cerchio si chiude, la barriera protezionistica contro le merci cinesi si alza sempre più e si crea il presupposto di un brutale blocco commerciale anti-cinese.

Dal punto di osservazione di Weapon Watch, gli ultimi mesi hanno portato due importanti novità.

Innanzi tutto si è fatto più visibile – perché più intenso – il movimento di armi e munizioni che partono dalla “piattaforma Italia”, la attraversano o la lambiscono. In generale, lo sdegno per ciò che accade a Gaza ha mobilitato le proteste e con esse le giustificazioni governative. Così, per fare un esempio, è il caso di tre navi – Borkum, Vertom Odette e Marianne Danica ­– dirette a Cartagena (Spagna), le prime due provenienti da Chennai (India) e dirette a Capodistria (Slovenia) e indicate dalle Ong come cariche di munizioni per Israele. La Borkum trasportava trentadue container di munizioni della classe 1.1, ha rinunciato alla tappa di Cartagena, quindi ha raggiunto Capodistria e poi Venezia, porti entrambi utili sia per raggiungere via terra la Repubblica Ceca – forte esportatore verso Israele – che per il reimbarco delle munizioni su una nave di ZIM o sulla Marianne Danica con destinazione Haifa o Ashdod.

È un punto acquisito dalle analisi dei traffici: l’asse portante della logistica militare al servizio sia di Israele che di Arabia Saudita ed Emirati, in partenza dai porti Usa della Costa orientale, passa molto di frequente dalla Spagna e dall’Italia. Lo sappiamo bene, anche perché è la stessa supply chain delle navi della compagnia Bahri, che da anni tocca stabilmente Genova e saltuariamente un porto spagnolo.

Questa maggiore visibilità della logistica per la difesa è stata intercettata – rimanendo in area italiana – da un nuovo tipo di ricerca auto-commissionata, portata avanti da gruppi che sentono l’urgenza di agire prima che le guerre scoppino, e soprattutto prima che scoppi la der des ders nucleare. Gruppi di giovani, senza riferimenti precisi con l’università, curiosi dei metodi e orientati al social activism hanno cominciato a guardare alla propria realtà locale, e almeno a cercare di rispondere alla prima ovvia domanda: si fabbricano armi qui, dalle nostre parti? Così si sono mossi i primi passi di una ricerca che dovrà rispondere anche a una seconda domanda: dove vanno a finire le armi che si producono qui? Su questa strada abbiamo in questi mesi incontrato i compagni di Lecco, dell’Alto Vicentino, di Padova e Marghera, di Imola e del Ravennate, di Torino, di Rovereto. E piccole aggregazioni sono in gestazione tra i “ferrovieri contro la guerra”, nel collettivo dei portuali livornesi… Speriamo che non si disperda almeno l’urgenza di queste esperienze.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento