Luoghi
comuni e oblio attorno agli istituti penitenziari italiani nell’ignavia della
politica
Con l’arrivo di Ferragosto arriveranno le solite
visite di parlamentari nelle carceri italiani, eppure sono proprio le aule
parlamentari l’ambito nel quale si dovrebbe parlare della condizioni di vita
dei detenuti.
Il carcere è un luogo dimenticato, se ne ricordano i
parlamentari di destra invocando organici maggiori per la Polizia penitenziaria
ma è del tutto assente una inchiesta che permetterebbe di comprendere un mondo
avvolto nell’oblio ed evocato solo per imporre logiche securitarie e
repressive.
In carcere si entra sani e si esce malati, i centri
medici sono pochi e al collasso, investire in operatori culturali appare ormai
uno spreco di denaro pubblico.
La soluzione prospettata è sempre la stessa:
accrescere il numero della Polizia penitenziaria e costruire nuovi istituti di
pena per non affrontare il sovraffollamento che scaturisce dalla carenza di
misure alternative alla pena, di luoghi ove potrebbe avvenire un pieno recupero
del detenuto.
Manca insomma una risposta complessiva di natura
sociale, è assente la volontà di rivedere i codici penali che condannano alla
detenzione uomini e donne per reati che potrebbero essere espiati con misure
alternative.
Il carcere è da tempo una discarica sociale dove la
dignità umana viene calpestata. Sarebbe utile riflettere sui vantaggi derivanti
dalla istituzione di percorsi di avviamento lavorativo, di mera inclusione
sociale per offrire la opportunità di acquisire un titolo di studio, sarebbero
scelte importanti ma inconciliabili con quella logica securitaria e repressiva
che la fa da padrona.
Il supporto psicologico non è banale in contesti nei
quali ogni anno decine di detenuti si suicidano, nei primi sette mesi del 2024
i suicidi sono più numerosi di quelli del 2023, frutto della perdita di ogni
speranza e fiducia in un domani al di fuori dalle sbarre. Se poi
guardiamo alla liberazione anticipata per molti detenuti ci imbattiamo nel muro
eretto dal Governo per il quale scelte del genere sarebbero solo una sorta di
resa dello Stato, quello Stato implacabile con le classi subalterne ma assai
conciliante con quelle benestanti.
Uno Stato che vorrebbe eliminare il reato di tortura e
rendere impuniti i reati commessi dalle forze dell’ordine, si disattendono
sistematicamente i principi guida della Carta dimenticata da chi, fino a prova
contraria, dovrebbe metterli in pratica. E così il diritto penale si
trasforma in stato penale, le condizioni “inumane e degradanti” non
appaiono mai sufficientemente severe e si cercano nuove leggi per rendere
ancora più efferata la gestione delle carceri affermando una logica solo
punitiva e non di rieducazione, di vendetta dello Stato.
La condizione di vita degli ex detenuti non è
certamente migliore, nel corso degli anni sono quasi scomparse cooperative
pensate un tempo per la inclusione lavorativa e sociale di quanti hanno espiato
le loro pene. Questa è la condizione penitenziaria nel 2024, non c’è da esserne
fieri, ci sarebbero motivi sufficienti per indignarsi ma anche la rabbia e la
indignazione possono diventare motivo di ulteriore repressione, basti pensare
alle misure adottate contro le proteste dentro il carcere e alle azioni di
solidarietà fuori dalle sbarre, iniziative considerate alla stregua di rivolta
contro uno stato implacabile verso gli ultimi ma sempre più passivo davanti ai
reati fiscali, ai disastri ambientali e alle morti sul lavoro
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