Appena qualche anno fa si parlava con enfasi di ‘diamanti di sangue’. Ciò in riferimento al ruolo giocato da questo simbolo di bellezza, prestigio e perennità nella nascita, lo sviluppo e la perpetuazione dei conflitti armati. Alcuni di questi, grazie tra l’altro alla facilità di commercio e trasporto, avevano contribuito a finanziare le ribellioni armate in Sierra Leone, Liberia e Angola. Anche la vendita di tronchi di legno pregiato aveva giocato un ruolo simile, seppur in minore misura. In effetti il controllo delle transazioni del legname sembrava più facile e non si è mai parlato seriamente di questo commercio. Charles Taylor, uno dei ‘signori’ della guerra in Liberia, aveva utilizzato entrambe le risorse al tornante del millennio!
Lo spazio saheliano è ricco di vari
minerali e tra questi spicca lo sfruttamento dell’oro. Assieme
alle armi, alla droga e alle persone, secondo vari osservatori, contribuisce in
modo rilevante al finanziamento dei ‘gruppi armati terroristi’, i GAT, come
vengono talvolta definiti. Il fenomeno è conosciuto, studiato; eppure,
stranamente, non appare alla luce la dicitura ‘oro di sangue’, eppure proprio
di questo si tratta. Con lo scopo di finanziare i gruppi armati continuano
i rapimenti di persone, specie nelle zone di
frontiera con la vicina Nigeria… Ma è l’oro, ormai, a farla da padrone.
L’oro, ‘nervo della guerra nel Sahel’
– rileva la rivista L’opinion, che
sottolinea quanto le giunte al potere, i gruppi armati e gli jihadisti si
affrontino per il controllo delle miniere d’oro nello spazio sahelo-sahariano.
‘La corsa all’oro costituisce una nuova manna finanziaria e
opportunità di reclutamento per i gruppi armati’, si può leggere nel recente
rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, Unodoc.
Le multinazionali che sfruttano l’oro del Sahel sono essenzialmente
australiane, canadesi, russe e sudafricane, associate ad attori nazionali. Una
parte importante dell’oro del Sahel usa circuiti clandestini e passa tramite i
libanesi e altri agenti basati in Svizzera, Turchia, Dubai, Singapore e Cina.
Anche in seguito alla desolazione e
distruzione della Libia ad opera della Nato nel
2011, armi, gruppi ben formati al terrorismo e finanziati da poteri non troppo
occulti hanno seminato morte e distruzione nel Mali e poi nei Paesi adiacenti,
il Burkina Faso e il Niger. Quanto alla Nigeria, l’impatto nefasto della setta
chiamata Boko Haram è cominciato ancora prima, provocando
l’esodo di milioni di persone all’interno e all’esterno del Paese. Il ruolo poi,
di gruppi come Al Qaeda e lo Stato Islamico ha fatto del Sahel una delle nuove
frontiere del terrorismo internazionale.
L’oro ha il colore di guerra.
‘Finché c’è guerra c’è speranza’, recitava
così il titolo di un film apparso sugli schermi nel 1974. Un’affermazione a
prima vista paradossale ma non quanto possa sembrare. Secondo l’istituto per la
Pace basato a Stoccolma in Svezia, praticamente tutti gli stati nei vari
continenti hanno aumentato le spese militari. Ciò è vero
anche per i Paesi del Sahel più colpiti dalla violenza armata ‘terrorista’. Ciò
ha signìficato, tra le altre cose, un graduale spostamento del baricentro del
potere. Passare dal potere politico a quello ‘militare’ non è stato difficile.
I colpi di stato dei militari nel Sahel non sono casuali.
La ‘speranza’ della guerra riguarda,
evidentemente, i gruppi armati, i fabbricanti e i commercianti d’armi e
l’apparato militare che, anche grazie a ciò, può giustificare la conquista e la
permanenza al potere. Il perdurare del conflitto armato è
ben visto anche da quei giovani che, marginalizzati e frustrati dall’esclusione
sociale, potranno trovare nelle armi un’identità e posizione che difficilmente
avrebbero raggiunto in una situazione ‘normale’. E, infine, la continuità della
guerra non può che favorire le imprese che
patteggiano coi gruppi armati e, come sempre, il mondo umanitario.
Presto o tardi bisognerà tentare di capire
fattori esogeni ed endogeni di questa guerra quotidiana. Ideologhi, mandanti,
esecutori e condizioni che continuano a favorire la perpetuazione della violenza armata in questo straordinario spazio
umano che nel passato, assieme a conflitti armati, jihad, imperi, colonialismi
e esodi, ha saputo creare ambiti di creativa convivialità. Sahel significa in
arabo ‘riva, sponda’, riferito naturalmente al grande ‘mare’ chiamato Sahara.
Sotto certe condizioni il Sahel potrà offrire una ‘riva d’oro’ differente alla
nobile popolazione che l’abita. La prima di queste è la verità.
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