In quel
primo viaggio, ritornai all’aeroporto per la stessa strada, costellata di
bidonville. Perfino dalla scaletta dell’aereo si scorgevano i barrios, sulle
colline adiacenti, a poche centinaia di metri. Ma possibile che i ricchi del
paese non li avessero mai visti in precedenza? Che non si fossero mai chiesti
per anni e anni, andando a prendere un aereo per fare shopping a Miami o per studiare in un’università
americana, come vivesse quella popolazione lasciata ai margini del
miracolo economico del «Venezuela saudita»?
Perché si
scandalizzavano così tanto del fenomeno Chavez? Perché non si erano svegliati
prima? Io che non sono guevarista, né un ribelle e che credo nel libero mercato ripensai d’un botto a tutti gli
stupidi discorsi ascoltati nei giorni precedenti. A quell’indifferenza
ostentata. Al disprezzo per la miseria. E pensai che quel pazzo di Chavez i
ricchi del Venezuela se l’erano meritato. Non uno, ma due, tre, quattro,
centomila di Chavez dovevano rimanere per un po’ sul loro gobbone.
da
qui (Articolo di Leonardo Martinelli)
un interessante documentario argentino su Chavez, sottotitolato in francese:
Hugo Chávez non è stato un
dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti
politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e
per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del
riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della
causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo
apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in
America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove
cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura,
con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo
Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America
latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e
civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale
socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di
Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo
Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un
continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e
rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata
sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati
indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran
democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano
nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della
popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne
restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione
del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con
l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un
sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque
abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri
di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire
dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante
messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante
che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento
della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista.
Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto,
la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo
squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha
mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare
con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a
chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi
anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese
terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino
“socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine
demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha
realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere
la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in
beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica
rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina
riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti
che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un
riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati
impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla
ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato
al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e
José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel
fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a
Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia
petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la
cassaforte di politiche sociali generose…
da
qui (articolo di Gennaro Carotenuto)
un interessante documentario argentino su Chavez, sottotitolato in francese:
Bellissimo! Grazie! Perché a sinistra della Storia c'è sempre una grande passione e l'America Latina riesce a renderla in modo fantastico. Purtroppo, in questo caso, l'umanità è mortale!
RispondiEliminaè stato davvero un esempio per molti, e non credo sarà dimenticato.
RispondiEliminala storia, poi, gli darà la parte che merita, di un Davide contro Golia.
da noi non ha mai avuto successo, non era un fighetto elegante da comprare, per nostra fortuna.