è stato uno dei rari uomini politici nobili (nel senso di non ignobili, Pertini, Gramsci e Berlinguer sono della stessa specie), a cui addirittura potrebbe essere dedicato qualche aeroporto sardo.
si citano due episodi che lo riguardano (per dare l’idea di chi era) e una pagina indimenticabile, nella quale l’umanità vince la disumanità e la bestialità alla quale si era costretti.
racconta Vittorio Foa:
…Nel settembre 1945, quando Lussu era ministro nel governo Parri, chi scrive andò a chiedergli, per aiutare finanziariamente il partito di cui entrambi facevano parte, di mettere una firma sotto una autorizzazione, cosa consueta nel sottobosco politico del tempo. Lussu rispose: «Compagno, puoi chiedermi di montare a cavallo e andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io – per il partito – lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia, giammai». Nell’irrealismo dell’immagine il poeta riusciva a cogliere e giudicare la squallida realtà del mondo in cui ci avvolgevamo e ad avanzare, almeno come ipotesi, un mondo diverso.
di Emilio Lussu si ricordano ancora:
…E’ la storia di un ragazzino, Mario. Il fratello di Paolo.
Mario, nelle campagne di Lu Nibareddu ai confini con Mureu, fa pascolare il bestiame.
C’è una strada che immagino polverosa che costeggia quelle proprietà.
E’ il 1945, la guerra è appena finita. A Bortigiadas la guerra non si saprebbe nemmeno che cosa sia se non fosse per quei figli, fratelli o mariti partiti e mai ritornati, tornati e mutilati, tenuti prigionieri in Russia. O prima ancora sulle montagne del Carso, nella Guerra del 15/18.
La strada polverosa, ricordatevela.
Macchine ne passavano davvero poche che si stava settimane intere senza vederle.
Carri, magari, a trafficare grano e carbone con l’Anglona.
Arriva da Sassari una macchina e alla vista di Mario si ferma. Ne scende un uomo alto, elegante. Di una eleganza e una bellezza d’altri tempi, una specie di Cavaliere.
Lo chiama a sè, il ragazzino.
Come ti chiami, gli domanda.
Mario, risponde quello impaurito.
Mario come, gli dice il Cavaliere.
Passaghe, risponde Mario.
Avevo un attendente che si chiamava Passaghe, durante la guerra. Io sono Emilio Lussu.
Era mio zio, risponde pronto il ragazzino.
Anche in quelle campagne sperdute di Gallura l’eco di quel nome e di quelle gesta era arrivato, anche a Lu Nibareddu. Estremo confine del mondo allora conosciuto. Solo la guerra li aveva portati altrove, le migrazioni non erano ancora venute, l’onda delle migrazioni a riportarseli via.
Meglio la miseria, meglio la fame.
E poi quel Cavaliere che nel frattempo, leggendo i libri di storia, è diventato Ministro dell’assistenza postbellica chiede a Mario come si chiamano i posti, quante famiglie li abitino, quanti bambini ci siano e se frequentino la scuola.
Non ce n’è di scuola, risponde Mario.
Poi se ne parte quell’uomo, il Cavaliere, sulla macchina: lascia una scia di polvere e di vento nella strada che si arrampica verso Tempio.
Si lascia Mario, dietro le bestie.
Poi arriva l’anno dopo e il Sindaco del paese incontrando gli abitanti di Nibareddu si complimenta per l’istanza avanzata per avere la scuola.
Noi non abbiamo fatto nessuna domanda, rispondono quelli.
Più semplicemente Emilio Lussu era intervenuto e fatto aprire la scuola a Lu Nibareddu, infinitesima frazione del Comune di Bortigiadas.
Una scuola con i banchi, il maestro e tutto quanto.
Una scuola dove in molti impararono a leggere e a scrivere…
ha scritto un libro, “Un anno sull’altipiano” (da cui Francesco Rosi, guadagnadosi una denuncia per vilipendio all’esercito, ha tratto “Uomini contro”, un film ‘leggermente’ antimilitarista, con Gian Maria Volontè), nel quale si può leggere la seguente pagina:
“Non si parlava più di nuovi assalti. La calma sembrava ridiscesa per lungo tempo sulla vallata. Dall’una parte e dall’altra, si rafforzavano le posizioni. I zappatori lavoravano tutta la notte. Il cannoncino da 37 continuava a darci fastidi, sempre invisibile. Rimaneva dei giorni interi senza sparare un colpo, poi, improvvisamente, apriva il fuoco contro una feritoia e ci feriva una vedetta.
Il mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di rincalzo ci desse il cambio. Io volevo poter dare indicazioni precise al comandante del reparto che mi avrebbe sostituito. Giorno e notte, avevo un servizio speciale di osservazione, nella speranza che il bagliore dello sparo o il movimento dei serventi tradisse la postazione del pezzo.
La notte precedente a quella del cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci aveva dato alcun risultato, accompagnato da un caporale, io stesso m’ero voluto mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all’apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa dava un’apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse sempre d’una illusione. Potevano anche essere uomini che si spostassero, non alberi che, per la velocità del passaggio della luce dei razzi attraverso i rami, sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti all’estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alie trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina dall’austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea antistante.
Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v’erano alberi: non era quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d’infilata. Un simile posto non l’avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò di rimanere là tutta la notte, per essere in grado di osservare l’animarsi della trincea nemica, ai primi chiarori dell’alba. Che il cannoncino sparasse o tacesse, mi era ormai indifferente. L’essenziale era mantenere quell'insperato posto di osservazione.
Il cespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano così bene che decisi di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto clandestino d’osservazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire un graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro. In poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento di comunicazione. Il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la nostra linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al coperto, anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra scavata fu ritirata indietro nella trincea, e dello scavo non rimasero tracce appariscenti. Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento.
Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l’alba ci compensò dell’attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d’infilata della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch’egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v’era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v’era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all’arrivo d’un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch’era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l’uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott’anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l’ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido ” è un’altra. È assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: “Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! “
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l’imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.”
anche qui
La notte precedente a quella del cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci aveva dato alcun risultato, accompagnato da un caporale, io stesso m’ero voluto mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all’apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa dava un’apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse sempre d’una illusione. Potevano anche essere uomini che si spostassero, non alberi che, per la velocità del passaggio della luce dei razzi attraverso i rami, sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti all’estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alie trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina dall’austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea antistante.
Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v’erano alberi: non era quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d’infilata. Un simile posto non l’avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò di rimanere là tutta la notte, per essere in grado di osservare l’animarsi della trincea nemica, ai primi chiarori dell’alba. Che il cannoncino sparasse o tacesse, mi era ormai indifferente. L’essenziale era mantenere quell'insperato posto di osservazione.
Il cespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano così bene che decisi di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto clandestino d’osservazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire un graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro. In poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento di comunicazione. Il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la nostra linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al coperto, anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra scavata fu ritirata indietro nella trincea, e dello scavo non rimasero tracce appariscenti. Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento.
Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l’alba ci compensò dell’attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d’infilata della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch’egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v’era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v’era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all’arrivo d’un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch’era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l’uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott’anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l’ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido ” è un’altra. È assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: “Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! “
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l’imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.”
anche qui
Meraviglioso questo passo. "Un anno sull'altopiano" è uno dei miei libri preferiti, uno di quelli che non ci si stanca di rileggere. Anche "marcia su Roma e dintorni", bellissimo, è da conoscere non solo per lo stile straordinario dello scrittore, ma anche per capire la storia dell'epoca e quella attuale (quante analogie)... Grande personaggio, Lussu.
RispondiEliminanel film di Rosi la scena c'è, ed è davvero emozionante, con Gian Maria Volontè
RispondiEliminapeccato essere contemporanei di tanta gentaglia:(