mercoledì 28 ottobre 2015

Sulla felicità – Pietro Ratto

E’ incredibile come gli uomini, in ogni istante della loro vita, tendano alla Felicità pur non avendo in alcun modo chiaro in cosa essa consista. Com’è possibile cercare qualcosa e, contemporaneamente, non sapere cosa si stia cercando? Inoltre, davvero siamo certi che la felicità sia da “cercare”? Uno dei problemi tipici dell’umanità, d’altra parte, sta proprio nel trascorrere il tempo a cercare ciò che non conosce, a rispondere frettolosamente alla domanda senza averla compresa.
Il termine felice veniva anticamente attribuito agli alberi (“arbor felix”, secondo una dolce espressione di Catone), designando in tal modo piante particolarmente feconde, capaci di produrre molti frutti. L’etimo originario (Féo – in greco Phyô, “produco”), suggerisce proprio l’idea della fertilità, della produttività. Da qui la riflessione. La felicità non ha evidentemente a che fare con ciò che deriva dall’esterno, con ciò che ci viene dato o che possiamo procurarci, bensì è strettamente connessa con la nostra capacità di essere fecondi, creativi; consiste nel dare, insomma. Non nell’avere. Un dare che, però, si traduce nell’offrire ciò che appartiene alla nostra stessa natura, così come l’albero davvero fecondo offre in abbondanza i suoi stessi frutti realizzando pienamente, in tal modo, la sua profonda e particolarissima natura.
La felicità consiste, allora, nell’essere pienamente se stessi e nel donare copiosamente i propri frutti al mondo, non come sacrificio – si badi bene – bensì come unica via per realizzare pienamente la propria personalità.
E’ lo stesso Socrate, autentico padre della filosofia occidentale, a ricordarci che ciò che rende felici è la realizzazione della propria essenza. E a chiamare tale realizzazione virtù (in greco ρετή, areté).
Nessun essere vivente fischia come il merlo; il fischiare è quindi la virtù propria di questo animale, una virtù che, tutte le volte che è posta in essere, lo rende felice proprio perché gli permette di sentirsi pienamente se stesso. Nessun essere vivente è così felice come il ghepardo quando corre, perché nessuno corre come il ghepardo. Ecco perché i greci usano la parola areté. Essa designa la capacità stabile di un essere, di eccellere in qualcosa; una capacità che Socrate fa dipendere dalla natura stessa delle cose, riconoscendone una diversa e peculiare in ogni essere.
Tradotto nella parola latina virtus, tale concetto rivela il successivo intento filosofico di restringerne il significato al solo campo umano (da vir, uomo), laddove Socrate aveva riconosciuto una areté in ogni essere vivente. A proposito dell’uomo, l’insegnamento socratico era stato per altro chiarissimo: la sua virtù consiste nel pensare; niente pensa come l’uomo. In altre parole, ciò che ci contraddistingue e che ci permette di produrre i nostri particolare frutti, ciò ce ci rende davvero felici è pensare, riflettere, meditare. Siccome però ognuno di noi possiede inclinazioni ed attitudini diverse, la nostra personale virtù consiste nell’applicazione di tale facoltà razionale ai singoli campi della vita verso cui ci sentiamo maggiormente portati. Comporre sinfonie, costruire finestre, innalzare muri di cinta, insegnare geografia: tutte queste sono attività razionali applicate alle diverse mansioni che – per carattere, per inclinazione ed anche, certamente, per motivazioni legate all’ambiente in cui siamo nati e vissuti – ci sentiamo portati a svolgere.
Riassumendo, allora, la vera felicità sta nel sentirsi fecondi ed in grado di produrre frutti nell’ambito per il quale ci sentiamo naturalmente portati; significa sentirsi se stessi, liberi di fiorire nel modo che più ci contraddistingue e ci permette di contribuire, in maniera del tutto personale, al bene collettivo. Ho sempre in testa la frase che il grande atleta e corridore Eric Liddel pronuncia nel celebre film di cui è protagonista, Momenti di gloria: “Quando corro sento che Dio è felice”. Ognuno di noi è chiamato ad essere se stesso, nulla più; ad ognuno di noi è chiesto di fare ciò per cui è nato. Nulla può renderci più felici, e nulla può rendere più felice Dio – se ci crediamo – che ci ha creati così come siamo e che ci vuole puri, autentici. La purezza tanto venerata dalle religioni nulla ha, infatti, a che fare con l’astinenza sessuale o con la rinuncia di principio a qualsivoglia piacere; essa consiste solo ed unicamente nell’autenticità, nell’essere se stessi, puri nello stesso senso in cui viene detta pural’acqua incontaminata, priva di commistioni con altre sostanze.
E’ un altro gigante della filosofia greca, Platone, ad evidenziare nella sua Repubblicacome ogni cittadino, nella società, debba svolgere il compito verso cui si sente maggiormente portato; solo così uno Stato potrà dirsi veramente giusto, giacché la giustizia, per il grande allievo di Socrate, si può dire che non abbia a che fare con la distribuzione dei beni – così come comunemente ed impropriamente si ritiene – bensì con la “distribuzione delle persone” nei diversi ruoli della comunità. Uno stato in cui ognuno “fa ciò che è” è uno stato felice, composto da persone felici. E’ soltanto per questo, non per chissà quale crisi economica, che il nostro mondo è così infelice.
Perfettamente in linea con questa visione della felicità è anche Epicuro, filosofo ellenistico di grande spessore, convinto che la felicità debba essere considerata il reale obiettivo della ricerca filosofica. Accusato erroneamente di edonismo, Epicuro ritiene, sì, che la felicità consista nel piacere, ma considera altresì il piacere in modo molto diverso da come abitualmente lo si intende. La sua famosa teoria che distingue piaceri in movimento e piaceri stabili afferma infatti che se i primi ci derivano dall’esterno e sono quindi soggetti a mutamento, solo i secondi sono da preferire e sono in grado di accordarci la piena felicità, in quanto si traducono in assenza di dolore e di turbamento (atarassia ed aponia). Non dunque la temporanea gioia procurataci da un avvenimento particolarmente gratificante o fortunato, da un successo o da un qualsiasi bene materiale, può produrre in noi vera felicità, bensì l’estemporanea consapevolezza (che capita ogni tanto, in rari momenti di grazia e di effettivo e profondo piacere), di star bene, di essere vivi, sani e sereni, momentaneamente liberi da dolori fisici e da dispiaceri o preoccupazioni. Una felicità, ancora una volta, che deriva da noi stessi, dal nostro stesso esistere, dall’essere al mondo, e non da qualsiasi causa esterna.
Da tutto ciò l’uomo deve trarre l’insegnamento secondo cui la felicità è a portata di tutti. Ogni essere vivente, e quindi anche ogni uomo, può essere realmente felice se solo ha il coraggio di imparare ad esser se stesso. Ma tutto ciò, per i più, è davvero troppo: l’esser se stessi costa, espone, sbilancia pericolosamente al di là dei rassicuranti confini del gruppo.
Personalmente sono convinto che ciò che veramente ci appartenga sia solo ciò che non possediamo. Tutto quello che consideriamo in nostro possesso può venirci tolto dagli altri, dal caso, dalla malattia; ma solo chi ha vissuto l’esperienza della perdita di quelle cose che possedeva e per le quali aveva lottato anni ed anni, quelle stesse che riteneva indispensabili alla propria esistenza, solo costui conosce bene quel rendersi conto di poter vivere felice anche senza nulla, solo un tale individuo ha assaporato appieno quell’irrinunciabile senso di un vivere autentico, concessogli proprio dal precario equilibrio del trovarsi improvvisamente sulla punta estrema dell’universo, a diretto contatto con l’essere. Gli alberi, le piante, gli uccelli in volo, il vento nei capelli, il senso di libertà di fronte al mare agitato, lo spettacolo meraviglioso di un tramonto infuocato, di una notte disseminata di stelle… Tutto ciò non potrà mai esserci sottratto. Tutto ciò, davvero, ci apparterrà per la vita, proprio perché non è in alcun modo in nostro possesso.
A guardare bene, ogni manifestazione naturale, ogni pianta, ogni animale, rivela la propria profonda felicità derivante dal proprio esser se stesso. Soltanto l’uomo, nel suo costringersi a dissimulare, a far violenza alla propria natura, volontariamente si forza ad adulare gli idoli della convenienza e dell’interesse e a condurre, così, un’esistenza infelice, continuando a sperare in qualcosa o qualcuno che possa un giorno donargli la tanto sospirata, incompresa, costantemente rifiutata felicità.
Così ho imparato a distinguere tra felicità e contentezza; ho capito che si può essere molto felici anche in momenti di profonda tristezza. Felici seppur scontenti e in lotta, come spesso accade a me, nella quotidiana guerra contro un mondo talvolta disumano e ingiusto, un mondo che fa di tutto per ostacolare, invece che favorire, la felicità delle persone. Una guerra, sì. Ma una guerra felice, perché combattuta in maniera autentica e libera, in piena sintonia con il mio io più profondo e più puro.
La felicità, infatti, non ha a che fare con la gioia o l’allegria: essa consiste nel non tradire se stessi, nel rispettare la propria personalità e le proprie inclinazioni, producendo i propri frutti e dando al mondo i propri colori, ottenendo così l’effetto di render contenti gli altri.
Questa divina disposizione, se davvero si ha il coraggio di raggiungerla, costituisce una condizione esistenziale stabile, al di là delle fasi tristi o di quelle gioiose la cui costante alternanza, inevitabilmente, caratterizza il nostro vivere nel mondo.

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