Il nome di Achille Mbembe, storico camerunese di lingua francese, non
è molto noto in Italia, dove pochi dei suoi libri hanno trovato un editore Postcolonialismo e media, Booklet; Necropolitica, Ombre Corte), e sempre uno piccolo
nonostante che nel nostro paese si pubblichi di tutto e di più e in troppi
amano fingersi teorici e guru del nuovo secolo e dei suoi dilemmi. Ricordiamo,
editi da La Découverte, De la postcolonie en France,
studiatissimo nelle università Usa come modello di ricerca in storia
contemporanea,Critique de la raison nègre (dove
usa la parola “negro” “politicamente scorretta”, e vede il “negro” in tutti i
dannati della terra in movimento tra un paese e l’altro, tra un continente e
l’altro) e il più recente Politique de l’inimitié. I suoi
saggi appartengono a quella dimensione internazionale, globale, della cultura
di oggi, necessariamente, obbligatoriamente meticcia. Scrive però in francese,
per scelta, e viene considerato in Francia come l’anti-Finkielkraut, perché
invece di insistere sull’identità insiste sulla storia comune di oggi, su ciò
che lega gli uomini a un destino nuovo diverso comune. La sua formazione è
stata segnata (nello Zimbabwe) dal cristianesimo, in una sua personale visione
profetica, e in qualche modo nella linea dei gesuiti e nell’idea di una comune
umanità senza frontiere. Sul numero di “Libération” del 2 giugno scorso è stato
intervistato da Cécile Daumas e Sonya Faure. Ecco alcuni stralci di
quell’intervista:
“Ciò che l’umanità
ha oggi in comune è il fatto che siano chiamati a vivere esposti gli uni agli
altri e non chiusi dentro frontiere e identità. Questo fa parte dell’umano, ma
è anche il corso che prende ormai la nostra storia con altre specie su questa
Terra. Vivere esposti gli uni agli altri presuppone di riconoscere che una
parte della nostra ‘identità’ ha origine nella nostra vulnerabilità. Che deve
essere vissuta e intesa come un appello a tessere solidarietà e non a
costruirci dei nemici. Sfortunatamente tutto questo è troppo complicato per il
temperamento della nostra epoca, portata invece verso idee preconcette. Più il
nostro mondo diventa complesso e più si tende a ricorrere a idee semplici.”
Parla della voga di un “universalismo etnico”, “quando l’identità si coniuga
con il razzismo e la cultura si presenta sotto l’aspetto di un’essenza
immutabile. Quella che viene chiamata identità non è una cosa essenziale. In
fondo siamo tutti dei passanti… Mentre emerge lentamente una nuova coscienza
planetaria, la realtà di una comunità oggettiva di destino deve vincerla
sull’attaccamento alla differenza… Essere nati in qualche poso è accaduto per
caso, non per scelta. Sacralizzare le origini è un po’ come adorare i vitelli
d’oro. Quel che importa è il tragitto, il percorso, il cammino, gli incontri
con altri uomini e donne in cammino, e quello che facciamo. Si diventa uomini
nel mondo camminando, non rimanendo prostrati dentro un’identità.”
Mbembe è durissimo
nei confronti dell’Europa e della Francia in particolare: “se nell’epoca
coloniale il razzismo e la violenza europei erano sintomatici del crescere in
supremazia di un continente, oggi la loro funzione è tutt’altra: sono il
prodotto di una vecchia potenza che si rifiuta di guardare in faccia il suo
declassamento internazionale”. L’ossessione identitaria francese nasconde
l’incapacità di guardare in faccia il mondo com’è, come sta diventando. E
quanto al “negro”, i negri di oggi sono per esempio i Greci, cui si sono
imposti trattamenti riservati ai popoli vinti in una guerra e si è esteso il
disprezzo sin qui riservato ai neri. Chi sono dunque i negri di oggi? Il colore
della pelle non conta più, “la vecchia distinzione tra il soggetto umano e la
cosa non conta più. Peggio: si è gente di cui non si ha bisogno, una classe di
superflui di cui nessun padrone ha bisogno o che amerebbe avere neanche come
schiavi. Il problema non è più quello di sfruttarli, anche se essi volessero
esserlo, non troverebbero chi vuol farlo…”
Oggi, dice Mbembe,
“i vinti sono costretti, per sopravvivere, a conoscere non solo la loro storia
ma anche quella dei loro dominatori. I dominatori, no, l’ignoranza gli basta.
Non è più perché si è avuto un passto insieme che ci sarà necessariamente un
futuro in comune. Un futuro di questo tipo bisognerà costruirlo coscientemente.
Con la lotta. (…) Abbiamo bisogno di aprire porte e finestre. Abbiamo bisogno
di un po’ d’aria on questi tempi soffocanti, irrespirabili. L’epoca ci costringe
a dormire ma anche a impedirci di sognare. Bisogna ridare al sogno le sue
possibilità. Bisogna ridare la loro chance al sogno e alla poesia, e cioè a
nuove forme di lotta, e stavolta su una scala davvero planetaria.”
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