Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto.
Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato.
Davvero è successo?
Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più
efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia?
Davvero l’Italia è peggio di Boko haram?
Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli
attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla
sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo
nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto
intorno, la paura, il dolore, la furia.
Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale
significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte
anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le
mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non
prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la
spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno
strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è
colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia
non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
“Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati
jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo
ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del
terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il
razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy.
Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far
finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause
profonde di questa sciagura.
Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con
Ahmed, Jerry, Abba, Samb.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto
in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio
in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva
più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica
lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato
considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma
Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di
quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di
Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre
più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi
quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati
gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace,
a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza
era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di
sinistra. Solo un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la
sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm
americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in
Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una
coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A
Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in
visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di
sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a
scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava
il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così
intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a
testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia
troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola
friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra.
E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo
attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P.
(14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la
lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era
il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi
anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei
pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed
estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era
spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro
sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti,
“non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano
scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter
camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse
dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava
molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui.
Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione
razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il
Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con
delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove
dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si
impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo
dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent:
dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia
che il razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto
di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la
morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale
fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato
un colpo scoprirsi razzista.
A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto
Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso
preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca
Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un
rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di
Casa Pound .
E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo
teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed
il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli
si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata
allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente
non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma
anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava
dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri.
Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da
giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai
titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente
scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che
parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa
provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è
formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del
diverso.
Sul luogo dell’omicidio a Fermo, il 7 luglio 2016. (Cristiano
Chiodi/Sandro Perozzi, Ansa)
Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo
hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano.
Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura
astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco
ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò
il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e
diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto,
quello a cui l’Italia si doveva opporre.
Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire
una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato
all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu
oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso
schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva
somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non
solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una
campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni
abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo
assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo
bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per
il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni
genere.
L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era
“un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente
l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza
contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista
dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è
nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero
Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi
sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”.
In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un
Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le
sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella
canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a
dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non
gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che
spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di
mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è
l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre
manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un
vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con
quei cioccolatini”.
Topolino va in Abissinia, una canzone per
bambini….
La macchina del razzismo
Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono
alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti
quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del
quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una
società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non
sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto
Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia
culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di
razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione
dell’identità nazionale italiana”.
Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un
volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa
aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei
genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei
genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino
Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei
sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No,
certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e
l’altra sbagliata.
Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile”
che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche
spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte
della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a
punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può
essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al
momento buono, in un momento di crisi, partire”.
Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di
alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel
ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che
flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una
manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici
scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di
vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
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