La lettera di Paolo Virzì a Eddi – cioè Maria Edgarda Marcucci – irreperibile dal
21 giugno
LA LETTERA
Eddi
dove sei? Perché sei costretta a scappare? Per quale motivo ti vogliono
arrestare? Credo che valga la pena raccontare la tua storia.
Ti
chiami Maria Edgarda Marcucci. Ti ho conosciuta sul set del mio film «Caterina
va in città». Eri tra le
comparse con mia figlia Ottavia, tua amica in quell’epoca in cui avevi appena
dodici anni, ma l’intelligenza, la sensibilità e la passione già ti accendevano
lo sguardo e lo facevano vibrare. Adesso ne hai 25, sei studentessa di
Filosofia all’università di Torino e ti fai notare alle assemblee studentesche
perché mobiliti i tuoi amici per portare solidarietà e aiuto agli sfrattati, ai
rifugiati, ai senzatetto, e tutti ti chiamano Eddi.
Ma
cos’è successo di così grave, che ti ha fatto decidere di sparire, e di non dare
più tue notizie a nessuno, neanche ai tuoi genitori?
Nel
novembre scorso tu ed altri studenti vi siete opposti all’eventualità che
un’aula dell’università fosse concessa per un uso privato a un’organizzazione
politica, il Fuan, rivendicando qualcosa di molto elementare, ovvero che le
aule dell’università servono agli studenti per studiare, ripassare, stare
insieme, ripetere prima dell’esame, e non per la propaganda di organizzazioni
politiche neofasciste il cui principale impegno sembra sia quello di alimentare
il razzismo e la xenofobia, come se non ce ne fosse già abbastanza in giro.
Sono intervenuti numerosi agenti di polizia in assetto antisommossa, è
intervenuta la Digos, hanno fatto irruzione nell’aula, hanno identificato e
fermato una trentina di studenti fra i quali tu, e siete stati rilasciati solo
dopo l’intervento di altri universitari esterrefatti, fra i quali anche molti
professori. Ma in seguito a questo episodio la Procura di Torino ha emesso un
provvedimento contro di te: obbligo di firma, e scusa se non riesco a capir
bene di cosa si tratti, credo che tu dovessi recarti inutilmente tutti i giorni
in questura a firmare un foglio. Ma non ti sei sottratta, hai eseguito
diligentemente quello che ti veniva chiesto.
Cinque ragazze
Qualche
giorno dopo, insieme ad altre studentesse volevate entrare in un’aula dov’era
in corso un incontro pubblico presieduto dal rettore, il cui tema era qualcosa
come «Il futuro dell’Università», ma sulla porta alcuni uomini in borghese,
senza identificarsi, volevano impedirvelo. Eravate in cinque, cinque ragazze, e
avete chiesto spiegazioni a quei signori, che invece hanno cominciato a
spintonarvi. Di questa circostanza esiste un breve filmato realizzato con un
telefonino che ho avuto occasione di vedere. La sensazione che se ne ricava è
che quelle persone, che poi si sono rivelati agenti della Digos, cerchino di
suscitare un comportamento che possa poi essere censurato come pericoloso e
quindi punito. Cosa succede, poi? Per intercessione del rettore, che apre la porta
e forse si rende conto di aver esagerato a chiedere l’intervento delle forze
dell’ordine, riuscite ad entrare e tu ti iscrivi a parlare e dal palco, senza
urlare, in modo pacato e perfino sorridente, provi a esprimere la tua opinione
su quello che ritieni un presidio costante e improprio della Digos
dell’Università di Torino, riferendoti anche ad altre circostanze nelle quali
agli studenti è impedito di accedere agli spazi della loro facoltà. In seguito
a questo episodio, Eddi, ricevi un inasprimento delle misure cautelari: da
obbligo di firma a divieto di dimora a Torino. Uno di quegli agenti della Digos
avrebbe dichiarato in un verbale di aver subìto un colpo violento da te, tale
da causare l’incrinatura di una costola. Dichiarazione sulla quale sembra lecito
esprimere – sommessamente, eh? – qualche dubbio, dal momento che questo agente
invece di fermarti, di arrestarti, di correre al Pronto Soccorso, lo vediamo
nel filmato chiacchierare tranquillamente con altri colleghi durante il tuo
intervento. Forse si è accorto della costola incrinata solo più tardi, forse
gli sei venuta in mente tu, che forse lo avevi colpito. Ma andiamo avanti,
perché c’è un ultimo episodio da raccontare.
Risale
a qualche mese prima, a Chiomonte, in Val di Susa, teatro purtroppo come
sappiamo di altri scontri sul tema Tav, a proposito del quale non è mia
intenzione qui esprimere giudizi e valutazioni. Nel filmato, che uno può vedere
comodamente su YouTube, un gruppetto di manifestanti cerca goffamente di tirar
giù una recinzione del cantiere legandola a una corda, ma sono così pochi ed
evidentemente così poco forzuti che non riescono a spostarla di un millimetro.
Fin lì siamo a una scenetta abbastanza buffa che non sfigurerebbe nei filmati
di «Paperissima» ma la risposta delle forze dell’ordine invece è imponente: un
centinaio di poliziotti armati e in assetto di guerra respinge con lacrimogeni
e idranti quel gruppetto di manifestanti, che definire pericoloso è quantomeno
iperbolico, se non altro per la disparità delle forze in campo.
Invece
in seguito a questo episodio è partito dalla Procura di Torino un provvedimento
contro circa 20 persone, fra i quali ci sei tu, sottoposta agli arresti
domiciliari. Quindi, nell’ordine: secondo la Procura saresti sottoposta
all’obbligo di firma, al divieto di dimora a Torino e infine ai domiciliari
(sempre a Torino, dove abiti). A me pare che ci sia qualcosa di spropositato e
anche di involontariamente comico in questi provvedimenti tanto severi quanto
contraddittori. Devi averlo pensato anche tu, che infatti hai deciso di
scappare e adesso nessuno sa più dove tu sia.
La cosa
che colpisce è che i magistrati si confrontino con te con uno spirito così
intransigente, come se davvero tu fossi un pericolo per la collettività. Non
vorremmo che un intervento così pesante – che peraltro, insieme ad altri
analoghi, occupa le ore preziose dell’attività della Procura di Torino
rischiando di distrarla dalle tante emergenze che stanno a cuore a tutti –
finisca col trasformare te, Maria Edgarda detta Eddi, e quelli come te, ragazzi
idealisti e appassionati rompicoglioni, in cinici disillusi, mosci e sfiduciati
verso le virtù civili di una democrazia come la nostra.
Un altro finale
Mi
verrebbe di dirti, se ovunque tu sia avrai modo di leggere queste mie parole,
che non deve andare a finire così: io sono certo che l’Italia non sia l’Egitto
di Al-Sisi, o la Turchia di Erdogan e che le autorità sapranno trovare lo
sguardo e la misura per valutare nelle giuste dimensioni la tua posizione. Può
darsi che tu abbia violato qualche legge, ma questo non mi trattiene
dall’avvertire per te una simpatia struggente. Perché nell’indifferenza di una
società distratta, egocentrica, coi più giovani impegnati a esibirsi sulle
bacheche dei social network – tra selfie con la boccuccia a cuore, fotine di
gattini e di pietanze impiattate alla maniera degli chef – o che si eccitano a
sfogarsi rabbiosamente contro i diversi, i più deboli, in un clima dove
crescono la paura e l’intolleranza, ti sembrerà che sia destinata a cadere
esclusivamente sulle fragili spalle tue e di quella manciata di tuoi coetanei
la responsabilità di esprimere quella quota di dissenso di cui ogni società
complessa ha un bisogno fisiologico, quella cosa che don Milani definiva «la
disobbedienza virtuosa». Capisco come devi sentirti, Eddi, sola e sconfortata,
in un mondo che non sa che farsene dei tuoi slanci ribelli, delle tue domande
generose e ingenue, e che deve sembrarti triste e sordo se sa risponderti solo
coi gendarmi e la galera.
Noi
tutti, come cittadini, come genitori, vorremmo capire com’è possibile che tu
sia costretta a nasconderti e vorremmo ascoltare dalla tua voce le tue ragioni.
Spero che tu ti faccia viva, spero che tu non abbia paura, spero che non ti
arrabbi se ho messo il naso in questa tua vicenda personale cercando di usare
un tono sdrammatizzante. Intanto ti mando un abbraccio.
La lettera di Paolo Virzì è stata pubblicata sul
quotidiano “La stampa” il 7 luglio
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