Ma i cavalli dei cosacchi non si stanno abbeverando a
Trafalgar square né la svastica sventola su Buckingam palace. Eppure proprio
questo verrebbe da credere stando alla reazione, ai limiti dell'isteria,
all'esito del referendum britannico sull'uscita dall'Unione europea. I mitici
“mercati” (sempre al plurale, e sempre “razionali”) hanno bruciato in un
giorno, dopo il voto, 2.000 miliardi di dollari, più dell'intero prodotto
interno lordo annuo dell'Italia. Ora i britannici hanno sì compiuto una
scelta critica, ma in definitiva non hanno fatto che rescindere il contratto di
adesione a un'associazione internazionale, già piuttosto malconcia di per sé.
Ammettiamo pure che per qualche oscura ragione i “mercati” non avessero
previsto l'esito del voto. E allora?
Per decenni i cantori della globalizzazione ci hanno frastornato le orecchie raccontandoci che il capitale si è deterritorializzato, che non ha più radici, che è gioiosamente nomade come un soggetto di Guattari o di Rosi Braidotti, che è apolide e in perpetuo movimento. Perciò, se anche i quartier generali di banche, assicurazioni e fondi d'investimento dovessero emigrare da Londra in un'altra global city, siamo sicuri che i mercati nella loro infinita razionalità troverebbero una residenza vivibile per continuare a macinare profitti.
Per decenni i cantori della globalizzazione ci hanno frastornato le orecchie raccontandoci che il capitale si è deterritorializzato, che non ha più radici, che è gioiosamente nomade come un soggetto di Guattari o di Rosi Braidotti, che è apolide e in perpetuo movimento. Perciò, se anche i quartier generali di banche, assicurazioni e fondi d'investimento dovessero emigrare da Londra in un'altra global city, siamo sicuri che i mercati nella loro infinita razionalità troverebbero una residenza vivibile per continuare a macinare profitti.
Né è spiegabile la ben orchestrata indignazione
europea che questo voto ha suscitato. Mutatis mutandis, se la Scozia si fosse
separata dall'Inghiterra (e magari lo farà), sarebbe stata una lacerazione ben
più grave e dolorosa, visto che scozzesi e inglesi hanno condiviso la stessa
nazione, la stessa lingua, lo stesso impero coloniale per più di trecento anni,
ma certo non avrebbe suscitato l'indignazione che ha sollevato la Brexit, che
pure ha deciso la separazione di un'unione durata solo 43 anni, ma mai davvero
celebrata e tanto meno consumata, senza comunità di progetto e di obiettivi (il
Regno unito non ha mai fatto propria la carta fondamentale dei diritti europei,
ha aderito solo a quelle norme del trattato di Lisbona che non contraddicono la
sua legislazione, e così via). Il Regno unito non fu uno dei fondatori
dell'Unione europea e anzi ha sempre remato contro, sempre recalcitrante; ma
ora improvvisamene l'Europa scopre che la Gran Bretagna era il suo socio più
importante e che senza di lei la catastrofe incombe.
Anche all'interno dello stesso Regno unito la reazione
è stata tutt'altro che british. La sola proposta di far ripetere il referendum
è assai più che balzana. Immaginate se in Italia nel 1946 i monarchici avessero
voluto far ripetere il referendum che instaurò la repubblica, o se nel 1974 la
Chiesa cattolica avesse lanciato una campagna di massa per far replicare il
referendum che aveva rifiutato l'abrogazione della legge sul divorzio. Non solo
è insensato, ma è una sfida alla democrazia e costituisce un precedente
pericolosissimo, dalle conseguenze, queste sì, incalcolabili. Sulla proposta di
ripetere il voto ha scritto Wolfgang Munchau sul Financial Times: “Non riesco a
immaginare una singola misura che produca più acrimonia, più divisione e più
danno economico della decisione di ignorare un voto democratico”. Eppure questa
proposta letteralmente eversiva è stata appoggiata con giulivo entusiasmo dai
più benpensanti organi di stampa europei, dalla Repubblica alla Süddeutsche
Zeitung.
Dietro la proposta di ripetere il voto, si delinea,
neanche tanto nascosta, l'idea di invalidare la volontà popolare. È quel che
l'Europa fece esattamente un anno fa con Atene quando cancellò il voto dei
greci nel loro referendum sull'austerità. Allora la Troika decise di chiarire
al mondo che le schede elettorali i greci potevano usarle solo come carta da
toletta e che la volontà popolare non ha alcun potere di fronte alla superiore
volontà dei banchieri, dei mercati e delle cancellerie. I greci erano
abbastanza deboli da dover ingoiare questo pitone salato (altri rettili
avrebbero ingerito in seguito). Con il Regno unito l'Europa ha provato la
stessa mossa: costringere la classe politica inglese a vanificare il voto
britannico. Solo che l'Inghilterra non è la Grecia (la Grecia non siede nel
Consiglio di sicurezza dell'Onu, non è la quinta economia al mondo, non ha un
arsenale atomico, non è un ex impero coloniale, non ospita il più importante
centro della finanza mondiale). Ma ciò non vuol dire che alla lunga non si
riesca ad annullare il voto britannico, come si è annullato quello greco.
La definizione più precisa della scomposta reazione
mondiale alla Brexit è quella di “lesa maestà”.
Gli inglesi hanno osato sfidare, “ledere” il volere
dei partner europei, della grande finanza, del padronato industriale, della
potenza imperiale (gli Usa). È questa sfida all'ordine costituito che ha
mandato tutti nel pallone e ha fatto dare a tutti di matto. Se avessero potuto,
avrebbero emanato una lettre de cachet per l'intero popolo inglese per
rinchiuderlo tutto nell'equivalente odierno della Bastiglia.
Eppure le avvisaglie c'erano. Intanto in Gran
Bretagna, dopo Edward Heath nel lontano 1973, nessun politico nazionale ha mai
osato esporsi come europeista convinto. Nessun premier si è mai dichiarato
fautore dell'Unità europea, semplicemente perché sapeva che avrebbe perso voti.
C'era chi era poco o molto antieuropeista, come i laburisti Wilson e Callaghan,
i conservatori Thatcher, Major e Cameron, o più possibilista verso l'Europa
come Tony Blair. Il consenso nazionale era che la Gran Bretagna avrebbe dovuto
far parte del mercato unico europeo, ma mai e poi mai di un'entità politica
europea (e questo consenso è durato solo finché persino la semplice
appartenenza al mercato unico non ha significato anche frontiere aperte agli
immigrati europei).
In secondo luogo, per 40 anni con i tabloid in testa –
ma non solo –, la stampa britannica – anch'essa controllata da quel gran
capitale che oggi recrimina – , ha martellato l'opinione pubblica inglese
descrivendo l'Europa come l'origine di tutti i mali, come la pretesa di
legiferare sui minimi aspetti della vita degli inglesi (litri invece di pinte,
chili invece di libbre), come una burocrazia stolta, tracotante, pignola e
parassita.
Da tempo frequento la Gran Bretagna (e non solo
Londra, a differenza di molti) e mai ho sentito una voce che spingesse per più
Europa. Al massimo, invece degli insulti, un silenzio pudico. Perciò non aveva
la minima possibilità di successo una campagna basata sul ricatto della paura:
“o l'Europa o la catastrofe”. Scrive sempre Munchau a proposito della reazione
al voto: “Gli anti-Brexit sono ancora intrappolati nella seconda delle cinque
fasi del lutto: la fase della rabbia. La prima fase è il rifiuto, che è quella
in cui sono rimasti durante tutta la campagna: negavano persino la possibilità
che la parte opposta potesse vincere e negavano il disastro politico di una
campagna basata sul Progetto Paura”.
L'antieuropeismo inglese è così radicato che nel 2012,
solo quattro anni fa, uno dei padri spirituali dell'Unione politica europea,
Jacques Delors, invitava Londra a lasciare l'Europa: “Se i britannici non
seguono la tendenza che va verso una maggiore integrazione nell'Unione europea,
potremmo malgrado tutto restare amici, ma in un'altra forma”, “una forma come
quella dello spazio economico europeo”, o un accordo di libero scambio”.
Perciò nel voto di uscita dall'Unione l'unica cosa che
stupisce è lo stupore che ha suscitato. Tutti caduti dalle nuvole.
Questo stupore, questo sdegno è stato condito dal
solito, ennesimo vituperio del populismo. E sempre più si dimostra che questa
categoria, “populismo”, è totalmente inutile da un punto di vista euristico.
Anzi, essendo usata come puro insulto, impedisce di capire quel che sta
succedendo e funziona da paraocchi perché veicola solo un malcelato disprezzo
per il volgo, per la plebe, per la teppaglia sempre irrazionale, sempre
bestiale, sempre preda dei demagoghi. En passant, fu la Santa Alleanza
monarchica e reazionaria che in nome dell'amoreimprigionò i demagoghi, come
avvenne con i Decreti di Carlsabd (1822) e per l'Hambacher Fest (1832) con la
vituperata (ma oggi rivalutata)Demagogenverfolgung (“persecuzione dei
demagoghi”).
Usando la categoria del “populismo” qualunque evento
viene letto in chiave regressiva, di ritorno al tribalismo, ricaduta nella
barbarie. O tempora, o mores!
È ancora sotto i nostri occhi il sorrisino sprezzante
con cui ci è stato annunciato che i fautori del Restare (in Europa) erano
giovani, colti, agiati (magari anche belli), mentre i fautori della Brexit
erano poveri, ignoranti e anziani.
Tutto vero, mi si obietterà, ma intanto chi è uscito
vincitore dalla Brexit in Inghilterra è Nigel Farage, leader dell'Ukip (United
Kingdom Independence Party) e in Europa Marine Le Pen del Front National
francese. A parte il fatto che la Francia non ha aspettato la Brexit per far
volare il lepenismo: già 14 anni fa, nel 2002, il candidato della sinistra
Lionel Jospin fu estromesso dal secondo turno delle elezioni presidenziali che
si giocarono tutte a destra tra Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen, va rilevato
che questo spauracchio dell'estrema destra è curiosamente selettivo e viene
sbandierato solo in alcuni casi e mai in altri. Il fascista Viktor Orbán in
Ungheria non preoccupa nessuno, come viene tollerato che in Polonia governi
l'altrettanto fascista partito Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia) di
Jarosław Aleksander Kaczyński; mentre si regalano miliardi di euro a un
aspirante dittatore come il premier turco Recep Tayyip Erdoğan (leader del
Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) che tiene l'Europa sotto ricatto
aprendo e chiudendo il rubinetto dei rifugiati, mentre imprigiona oppositori e
chiude giornali critici.
Non solo, ma con la “vibrata indignazione” nei
confronti del populismo, ci si esime dal capire perché in Francia i comuni
delle banlieues rouges siano passati da giunte di sinistra a giunte lepeniste,
perché a Roma le borgate e le roccaforti del Pci siano tutti passate ai 5
Stelle.
Questa narrazione ci fa dimenticare che a votare per
la Brexit è stato il proletariato inglese in massa, sono state le aree del
declino industriale, mentre a votare per l'Europa sono stati i quartieri bene,
i centri finanziari, i suburbi residenziali delle classi agiate. E ci fa
regalare la Brexit alla destra. Mentre è vero l'inverso (non il contrario) e
cioè che è l'involuzione autoritaria della politica continentale, lo svuotamento
progressivo della democrazia sia a livello nazionale, sia a livello europeo ad
aver spinto gli inglesi fuori dall'Europa.
Non è la Brexit che mette in crisi l'Unione europea,
ma è la crisi dell'Unione europea a provocare le spinte all'uscita. Come ha scritto
prima del voto un lettore della (assai di sinistra) London Review of Books,
“La Ue di cui la Gran Bretagna è membro, è la stessa Ue che ha brutalizzato il
popolo greco. È la stessa Ue che attualmente, con un piccolo aiuto della Nato,
cerca di respingere i disperati rifugiati dalla Siria, dall'Afghanistan,
dall'Eritrea e da altrove. È la stessa Ue che sta conducendo trattative segrete
sul Ttip (il trattato commerciale transatlantico), sul Ceta (Ue-Canada
Comprehensive Economic and Trade Agreement) e Tisa (Trade in Services
Agreement), trattati che mirano a rafforzare il ruolo dellecorporations
multinazionali e a scalzare le regole che proteggono le persone da esse. I
socialisti non dovrebbero scusarsi per lanciare una campagna indipendente e
internazionalista contro l'Ue”.
Resto convinto che se l'Europa non avesse trattato la
Grecia come ha fatto, se non avesse dato questa brutale dimostrazione di come
si schiaccia una volontà popolare in nome di ragioni sovranazionali, forse il
voto inglese sarebbe stato diverso. Non ci rendiamo conto che di quest'Europa è
restato ben poco da difendere. Destra e sinistra propongono le stesse
politiche, tanto che spesso, come in Italia e in Germania, governano insieme,
mentre in Francia la politica di Hollande è indistinguibile da quella di
Sarkozy. Non sono i partiti cosiddetti populisti a svuotare la democrazia, ma è
lo svuotamento della politica a produrre le scelte elettorali a cui assistiamo.
Cosa deve fare un elettore che non la pensa come i benpensanti moderati unanimi
gli impongono di pensare? Sono decenni che la sinistra non offre più soluzioni
“di sinistra”, ma fa propria la vulgata neoliberista secondo cui l'equità
costituirebbe un ostacolo all'efficienza economica (e quindi, all'inverso,
l'ingiustizia va ricercata per avere un'economia più “efficiente”).
Non so se per opportunismo, calcolo, per vocazione o
per convinzione, ma Angela Merkel è stata nell'ultimo decennio la regista della
più grande controrivoluzione sociale a livello continentale che l'Europa abbia
mai visto. L’Ue della Merkel ha fatto a livello europeo quello che alla Thatcher
non era pienamente riuscito in ambito inglese: lo smantellamento dello stato
sociale, l'annientamento dei sindacati, lo sbriciolamento della sinistra
politica. Negli ultimi 10 anni in tutti i paesi, Germania compresa, la
diseguaglianza è cresciuta (l'indice Gini è aumentato), in tutti i paesi
(Germania compresa) i cittadini delle fasce basse hanno perso potere d'acquisto
e hanno visto scemare il loro tenore di vita. Le protezioni sociali sono state
smontate, le possibilità di ascensione sociale stoppate. A un numero sempre
crescente di giovani è stato letteralmente scippato il futuro.
Perciò l'unico modo per superare la crisi dell'Europa
non è criminalizzare la Brexit, non è tuonare contro i populismi o il ritorno
al tribalismo. È infondervi democrazia, è invertire rotta nelle politiche
sociali, abbandonare il dogma dell'austerità neoliberista. Solo così saranno
sottratti argomenti all'euroscetticismo. A meno di non ritenere che la ricetta
giusta fosse quella ironicamente suggerita da Bertold Brecht quando lesse che
il segretario generale dell'Unione degli scrittori della Ddr, di fronte ai moti
operai del 1953 aveva detto: ”Il popolo ha tradito la fiducia che il governo
gli aveva riposto: ora dovrà lavorare il doppio per riconquistarla”. Brecht
disse “Non sarebbe più facile se il governo sciogliesse il popolo e ne
nominasse un altro?”
(Fonte: MicroMega online)
Nessun commento:
Posta un commento