lunedì 18 luglio 2016

intervista a Peter Brook

(intervista di Anna Bandettini)

Sono passati 31 anni da quel rivoluzionario spettacolo che fu il "Mahabharata" di Peter Brook: nove ore consecutive di teatro, sconvolgenti per la semplicità, l'eleganza, l'ironia con cui il regista anglo-francese rileggeva il suggestivo poema epico indiano. Brook oggi ha 91 anni, è un omino cauto e gentile, dal sorriso dolce e la voce chiara, ferma: dovrebbe essere appagato, sereno, i suoi capolavori sono conservati nella storia del teatro e egli stesso è universalmente riconosciuto come un grande maestro della scena. Invece, insaziabile, è tornato a interrogare il "Mahabharata" per un nuovo spettacolo che sta girando il mondo, battagliero non solo nel titolo, Battlefield, atteso dal 6 al Teatro dell'Aquila di Fermo, dall'11 al Teatro Argentina di Roma, il 19 a Solomeo, dal 24 alla Pergola di Firenze, dal 29 allo Storchi di Modena. Con lo stesso scarno linguaggio - niente scena, elementi e colori naturali - stesso adattamento di Jean-Claude Carrière del capolavoro dell'85, rivisto con Marie-Hélène Estienne, e solo 4 attori, lo spettacolo racconta la guerra fratricida tra i cinque fratelli Pandava e i cugini Kaurava. Yudishtira, il re dei Pandava ne esce vincitore, ma guardando intorno la morte e la distruzione provocata, ammette la sua sconfitta.

Mr. Brook che significa?
"Non lo deve chiedere me, ma al pianeta. Lo stato della Terra peggiora giorno dopo giorno, confermando ciò che è già scritto nel "Mahabharata": l'umanità è divisa in 4 epoche, le 4 yuga, ci dice quel libro. La prima è la rapida evoluzione dell'umanità fino al suo punto più alto, le altre tre sono la discesa verso la distruzione totale. Noi siamo tragicamente alla quarta era. Mi fa paura pensare che quando facemmo il primo "Mahabharata", c'era un grande ottimismo nel mondo e speranza per il futuro e solo trent'anni dopo siamo di fronte al nostro sfacelo. Se sono tornato al poema indiano è perché lì ci sono le risposte. Come Shakespeare nei suoi 36 testi, copre ogni aspetto della vita umana, assimilando pensieri cosmici e metafisici alle storie semplici della vita quotidiana. Nell'Amleto e in questa grande epopea indiana hai il pensiero più profondo e metafisico accanto al più triviale dei comportamenti umani. È una guida, per restare solidi, realistici nel combattere la grande marea che rischia di seppellirci".

A cosa pensa quando parla di sfacelo?
"Alle guerre, al male, all'indifferenza con cui distruggiamo il nostro pianeta, alla Siria, ai migranti, ai risultati di tutti gli errori umani nel corso dei secoli. Prenda le ondate migratorie cui assistiamo in Europa: la costruzione di muri è ancora una volta la soluzione più semplice, quella che i politici alla Trump sbandierano perché fa credere alla gente che sei forte, potente, che risolvi il problema. E temo che la gente lo seguirà perché la dinamica è la stessa che ha portato alle feroci dittature del Novecento: la gente, lei, io siamo pigri, avere uno che risolve tutto, anche per noi, ci fa tragicamente piacere".

Lei ha detto che lo spettacolo devono vederlo Obama, Putin, Hollande. Che voleva dire loro?
"Non voglio certo dare consigli ai politici, voglio solo raccontare la storia di Battlefield per indurli a pensare a loro stessi, perché possano vedere le grandi domande e capire cosa succede dopo la battaglia. Se tu sei un leader e fai o sostieni una guerra devi sapere che farai milioni di morti, anche se vinci. Sono certo che i leader del mondo se lo chiedono, ma non profondamente come ce lo pone il "Mahabharata". Per Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène e me il punto di partenza è stata una frase di quel testo: in guerra una vittoria è una sconfitta. Se si vede la storia da questo punto di vista, potrebbe cambiare il futuro".

Lo spettacolo è molto austero, forse anche più di quello dell'85.
"Da giovane ho usato in palcoscenico tutte le tecniche del cinema, della musica, della danza, poi gradualmente ho iniziato a capire che c'è qualcosa di essenziale. E la parola essenziale significa che c'è qualcosa di più profondo e più forte di ogni effetto. E così in ogni produzione ho imparato che di tutto quello messo in campo durante le prove molte cose non sono necessarie, che un'idea è bella ma se è tolta è meglio... L'importante è restare a stretto contatto con gli spettatori su qualcosa che credo sia essenziale per tutti".

Lei è considerato un maestro: ci si sente?
"Ma no, sono uno studente, come lei, come tutti. Posso portare la mia esperienza in più, ma tutto ciò che s'impara va messo in discussione se vuoi andare avanti. Una delle tragedie dell'umanità è quando sento dire "questa è la verità". Sono certo, sicuro che neanche il nostro meraviglioso Papa si sognerebbe di pensare che egli può insegnare. No, cerca di guidare, ispirare, non di dettare legge".

Lavora ancora molto? Come passa ora le sue giornate?
"Ogni giorno è diverso, ma queste sono cose personali, intime. La mia convinzione è che ognuno deve vivere cercando di essere utile agli altri e per farlo c'è bisogno di molte cose diverse, anche studiare. Posso solo dirle che alla mia età devo risparmiare un po' di tempo. E visto il peso di quello che ci circonda cerco di vivere la mia giornata con più umorismo possibile. Perché credo che il più grande dono che ci è stato dato è la nostra capacità di ridere".

È un segno di ottimismo?
"No, di realismo. Tenere gli occhi ben aperti, rende forti. Ciò che conta non è l'ottimismo, è la speranza, che non è
la stessa cosa. La speranza non può esistere senza coraggio. Per me, per esempio, fare uno spettacolo è come dare cibo a qualcuno. Se lo assimila ne ha bisogno sempre di più, e sempre più rinnovato, rinvigorito. E ancora e ancora e ancora. Ecco la speranza".

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