Il primo
effetto del referendum inglese è stato il tentativo di colpo di palazzo portato
avanti dalla stragrande maggioranza dei deputati laburisti contro Jeremy
Corbyn. In realtà, parlare di primo effetto è un poco fuorviante: la rivolta era stata organizzata nei minimi dettagli
ben prima del referendum, e la consultazione popolare è stata
usata come un puro pretesto per cercare di far fuori un leader inviso
all’establishment.
Cerchiamo di
fare chiarezza, distinguendo fatti e propaganda che, sapientemente orchestrata,
rimbalza sugli organi di stampa anche nostrani. La vulgata che va per la
maggiore è che Corbyn non
si sia speso per il referendum, che abbia addirittura sabotato il campo del Remain e
che, dunque, la Brexit sia avvenuta per colpa soprattutto della dirigenza
Labour. La grancassa è iniziata con agguati mediatici e
la compiacenza di varie testate, da sempre intente a contrastare la svolta a
sinistra del Labour.
I fatti
dicono altro: è vero che Corbyn ha offerto un sostegno critico alla campagna
del Remain, sottolineando come la UE abbia un bisogno inderogabile di riforme,
ma è altrettanto vero che due elettori laburisti su tre hanno votato Remain,
esattamente la stessa percentuale degli elettori dello Scottish National Party,
la cui leader, Nicola Sturgeon, viene ora acclamata come campione
dell’europeismo.
Certo, in
larga parte del Nord post-industriale dell’Inghilterra, in quelle che una volta
erano roccaforti del Labour, i lavoratori hanno votato per lasciare l’Europa.
Difficile però incolpare Corbyn, come provano a fare i complottisti. E’, anzi,
vero il contrario: il voto anti-europeista e il divorzio tra la working
class e il partito laburista vengono da molto lontano: dagli anni ’80, quando i lavoratori britannici sono
stati marginalizzati, ignorati ed impoveriti; e da quando il New
Labour di Blair ha deciso di privilegiare gli interessi del Capitale,
soprattutto finanziario, a scapito della classe operaia. E’ chiaro che il
problema non è certo l’immigrazione ma la mancanza di ammortizzatori sociali, ma
dato che tanto i Tories quanto il Labour pre-Corbyn nulla hanno fatto per
migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e dei più poveri, questi hanno
scelto il nemico più facilmente eliminabile: l’immigrato. Non a caso già alle
scorse elezioni furono in molti a lasciare il Labour per lo UKIP di Farage.
A questa
ondata xenofoba si sono ora uniti molti esponenti della fronda anti-Corbyn che
pur dichiarandosi, per l’appunto, europeisti, se la prendono con la libera circolazione dei
lavoratori, scavalcando a destra l’ala moderata dei
Conservatori. Corbyn sembra invece l’unico a parlare un linguaggio radicale, a
cercare di riconnettere il Partito con una base tradita e in libera uscita,
criticando la UE e rompendo col neoliberismo senza cedere al razzismo e alla
guerra tra poveri.
Non è dunque
la Brexit il motivo della rivolta dei deputati laburisti. O meglio, il
risultato del referendum è comunque importante per capire i successivi eventi
perché ha scatenato il panico tra le elite dominati che percepiscono un momento
di crisi molto pericolosa per larghi settori del Capitale Britannico, e con un
sistema politico a rischio di implosione, senza un partito in grado di difendere
gli interessi dell’establishment.
Da una parte
i Conservatori ormai in balia delle onde, politicamente egemonizzati da Farage,
e a rischio di essere guidati da un personaggio inaffidabile come Boris
Johnson. Dall’altra, un Labour che ha deciso a stragrande maggioranza,
all’ultimo congresso, di rompere con il New Labour Blariano e ripartire da una
critica dura del Capitalismo.
Ecco allora
la rivolta anti-Corbyn, capeggiata da deputati che si erano già fatti ammirare
per aver votato in favore dei tagli al Welfare State del Governo Cameron o per
aver sostenuto la necessità dell’intervento armato in Libia in contrapposizione
alla posizione pacifista della dirigenza. Questo gruppo, nel momento di
maggiore crisi dei Conservatori, è accorso in soccorso del governo, scatenando
una guerra all’ultimo sangue contro la leadership del Partito Laburista,
venendo allo scoperto come vera e propria testa di ponte degli interessi
dell’1% che si sente, giustamente, minacciato dal radicalismo di Corbyn.
Il problema
non è, come dicono i frondisti, che non si possa vincere con un programma di
rottura e socialista. Il problema, per costoro e per le classi sociali che
veramente rappresentano, sarebbe proprio la vittoria di un Labour davvero dalla
parte dei lavoratori.
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