Ho molti amici che per lavoro hanno passato del tempo a Dhaka, in Bangladesh.
In questi anni ho avuto l’opportunità di conoscere il paese attraverso i loro
occhi. Ed ecco che già sapevo della premier Sheikh Hasina che guida il paese da
tanto (troppo?) tempo, delle diseguaglianze estreme tra Bangladesh rurale ed
élite ricca con studi all’estero, dei cambiamenti climatici e dello
sfruttamento nel settore tessile. Dopo l’attentato a Dhaka naturalmente i miei
amici, chi in privato chi sui social, hanno dato voce al loro dolore per quella
terra straziata e per quelle vite spezzate. Un mio amico conosceva Claudia
D’Antona, l’imprenditrice che viveva in Bangladesh da vent’anni. Una donna
solare, aperta, piena di idee, caparbia. Una donna che tanto si era spesa per gli
altri, che credeva nel Bangladesh e in un mondo migliore. Ho fatto le
condoglianze al mio amico. Ero triste per lui, per me, per tutti.
Ed ecco che improvvisamente il viso di Claudia D’Antona si è mischiato con un altro viso, quello di Bur’i Mohamed Hamza.
Stavo vivendo quasi un déjà vu. Alcuni giorni prima avevo dovuto fare altre condoglianze per lo stesso motivo, il terrorismo. La vittima si chiamava Bur’i (che in somalo si scrive Burci) ed è morto il 25 giugno per mano dei terroristi di Al Shabaab nell’attacco all’Hotel Naso-Hablod di Mogadiscio. Bur’i era un uomo di cultura e dalle vedute ampie, che sognava una Somalia migliore. Ed è per la Somalia che si era impegnato in politica. Nei siti e nei social somali è circolata per una settimana una foto che lo ritraeva insieme ai due figli. Una foto tenera: lui in mezzo e i figli che lo baciavano sulle guance. I tre formavano un triangolo perfetto, un triangolo di affetto che mi strazia il cuore al pensiero di come tutto è andato distrutto. Di come quel bacio è stato interrotto dalla follia del terrorismo. Ho guardato quella foto in trance. Per ore. E ho sentito come non mai quanto il terrorismo ci stia addosso. Di come le vittime di questo massacro siano a noi così vicine.
Claudia e Bur’i sono morti per la stessa furia, nello stesso modo. Entrambi colti in un momento di quiete, entrambi uccisi quando avevano ancora tanto da dare.
Ed ecco che improvvisamente il viso di Claudia D’Antona si è mischiato con un altro viso, quello di Bur’i Mohamed Hamza.
Stavo vivendo quasi un déjà vu. Alcuni giorni prima avevo dovuto fare altre condoglianze per lo stesso motivo, il terrorismo. La vittima si chiamava Bur’i (che in somalo si scrive Burci) ed è morto il 25 giugno per mano dei terroristi di Al Shabaab nell’attacco all’Hotel Naso-Hablod di Mogadiscio. Bur’i era un uomo di cultura e dalle vedute ampie, che sognava una Somalia migliore. Ed è per la Somalia che si era impegnato in politica. Nei siti e nei social somali è circolata per una settimana una foto che lo ritraeva insieme ai due figli. Una foto tenera: lui in mezzo e i figli che lo baciavano sulle guance. I tre formavano un triangolo perfetto, un triangolo di affetto che mi strazia il cuore al pensiero di come tutto è andato distrutto. Di come quel bacio è stato interrotto dalla follia del terrorismo. Ho guardato quella foto in trance. Per ore. E ho sentito come non mai quanto il terrorismo ci stia addosso. Di come le vittime di questo massacro siano a noi così vicine.
Claudia e Bur’i sono morti per la stessa furia, nello stesso modo. Entrambi colti in un momento di quiete, entrambi uccisi quando avevano ancora tanto da dare.
Ci tocca resistere, rimanere saldi. Stiamo vivendo i nostri anni
di piombo
Il mio amico Tarek Ben Abdallah, grande direttore della
fotografia, aiuto regista e uomo di cinema, una volta me lo aveva detto: ci
tocca resistere, rimanere saldi, stiamo vivendo i nostri anni di piombo.
Non ho capito subito la sua frase. Cosa c’entravano gli anni di piombo? Era un terrorismo diverso.
Ma con il passare del tempo tutto mi è diventato chiaro. Gli anni di piombo sono diversi per la sostanza dei fatti rispetto al terrorismo transnazionale di oggi. Ma quello che è simile è il nostro stato d’animo. Mia madre, che si era trasferita in Italia proprio negli anni settanta, mi ha sempre raccontato di quella cappa di paura che ti accompagnava costantemente quando camminavi per le strade di Roma. Tutto ti era fatalmente vicino. Un rapimento, un omicidio poteva avere te come testimone. Mamma mi racconta sempre, con il terrore negli occhi, che Aldo Moro era stato rapito a pochi metri dalla pensione dove abitavamo. E poi i posti di blocco, i controlli estenuanti, il clima di paura costante, il sospetto. “La gente non si fidava del prossimo”, mi racconta mia madre. “Io ero così disperata. Ero scappata dalla dittatura militare somala per finire in una situazione forse anche peggiore”.
Anche oggi viviamo in clima di sospetto continuo. Dopo ogni attentato, e questo di Dhaka non ha fatto eccezione, è stato chiesto a noi musulmani di schierarci contro il terrorismo, di farlo attraverso gli imam e di farlo con chiarezza. “Dovete dissociarvi” è stato il grido che è rimbalzato da social a social, da giornale a giornale. E io mi sono chiesta da cosa dovevo dissociarmi.
Io (e la gran parte dei musulmani) non sono una terrorista. Anzi, del terrorismo ho paura. Penso sempre a mio fratello che ha lasciato la tranquillità dell’Australia per tornare a fare politica in Somalia – “perché dobbiamo credere nel sogno di una terra senza guerra” – e che ha un bersaglio sulla fronte, come tutti quelli che si occupano di politica laggiù. Sì, un bersaglio sulla fronte bello grosso, perché Al Shabaab, il gruppo terrorista che sta mettendo a ferro e fuoco il paese, ha giurato di farla finita con chiunque si impegni per una pace vera e duratura. Certo che sono contro il terrorismo. Possono uccidere persone a me vicine, ma anche i piccoli sogni di miglioramento che ho per il mio paese di origine.
Non ho capito subito la sua frase. Cosa c’entravano gli anni di piombo? Era un terrorismo diverso.
Ma con il passare del tempo tutto mi è diventato chiaro. Gli anni di piombo sono diversi per la sostanza dei fatti rispetto al terrorismo transnazionale di oggi. Ma quello che è simile è il nostro stato d’animo. Mia madre, che si era trasferita in Italia proprio negli anni settanta, mi ha sempre raccontato di quella cappa di paura che ti accompagnava costantemente quando camminavi per le strade di Roma. Tutto ti era fatalmente vicino. Un rapimento, un omicidio poteva avere te come testimone. Mamma mi racconta sempre, con il terrore negli occhi, che Aldo Moro era stato rapito a pochi metri dalla pensione dove abitavamo. E poi i posti di blocco, i controlli estenuanti, il clima di paura costante, il sospetto. “La gente non si fidava del prossimo”, mi racconta mia madre. “Io ero così disperata. Ero scappata dalla dittatura militare somala per finire in una situazione forse anche peggiore”.
Anche oggi viviamo in clima di sospetto continuo. Dopo ogni attentato, e questo di Dhaka non ha fatto eccezione, è stato chiesto a noi musulmani di schierarci contro il terrorismo, di farlo attraverso gli imam e di farlo con chiarezza. “Dovete dissociarvi” è stato il grido che è rimbalzato da social a social, da giornale a giornale. E io mi sono chiesta da cosa dovevo dissociarmi.
Io (e la gran parte dei musulmani) non sono una terrorista. Anzi, del terrorismo ho paura. Penso sempre a mio fratello che ha lasciato la tranquillità dell’Australia per tornare a fare politica in Somalia – “perché dobbiamo credere nel sogno di una terra senza guerra” – e che ha un bersaglio sulla fronte, come tutti quelli che si occupano di politica laggiù. Sì, un bersaglio sulla fronte bello grosso, perché Al Shabaab, il gruppo terrorista che sta mettendo a ferro e fuoco il paese, ha giurato di farla finita con chiunque si impegni per una pace vera e duratura. Certo che sono contro il terrorismo. Possono uccidere persone a me vicine, ma anche i piccoli sogni di miglioramento che ho per il mio paese di origine.
Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. È un mondo
variegato che parla molte lingue
Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole,
ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il
fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di
quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che
conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze
diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici,
ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di
cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti
mondi. Andrebbe coniugato al plurale.
Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.
“Not in my name”, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.
Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.
Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.
Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.
“Not in my name”, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.
Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.
Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.
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