Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato. Non
si può neanche dire che lo abbia dovuto lasciare, perché non tutti i giovani
egiziani protagonisti della rivoluzione di Tahrir hanno scelto di lasciare il
proprio paese. Nonostante l’altissimo rischio di essere arrestati, torturati,
uccisi. O fatti sparire nel nulla, com’è successo da oltre un anno a questa
parte a più di duemila persone. Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato, è andato a
vivere e a lavorare in Svezia. Come lui, una schiera sempre più folta di
“ragazzi” ha attraversato il confine, ha preso un aereo, ha una borsa di
studio, lavora, vive in Europa. O negli Stati Uniti. Sono, forse, una diaspora
politica Ramy Essam ha lasciato l’Egitto, ma non la rivoluzione che lo aveva
reso famoso. Il suo “Irhal, Irhal” era diventato virale, nell’epopea di piazza
Tahrir. “Irhal, Irhal”. “Vattene, vattene”, cantato e urlato all’indirizzo di
Hosni Mubarak. Ramy Essam, il musicista Ramy Essam era uno degli artisti della
rivoluzione, insomma, come gli autori dei graffiti che avevano riempito i muri
della downtown del Cairo, prima che anche quelli – come qualsiasi simbolo della
rivoluzione del 2011 – venissero coperti o inghiottiti dal regime di Abdel
Fattah al Sisi. E la rivoluzione la continua a cantare, Ramy Essam, ma a
Stoccolma.
Niente di nuovo, sin qui. L’emigrazione politica, nella
storia contemporanea, ha avuto le sue fasi, i suoi colori, le sue latitudini.
C’è chi, giovane, riempie i ranghi degli esuli. E chi, soprattutto giovane,
rimane in una patria sotto smacco. “Sotto occupazione. E un popolo
addormentato. La notte è caduta su di voi, e gli avvoltoi governano il paese”:
così la descrive il rocker Ramy Essam in uno dei suoi ultimi brani dal titolo
indicativo, Segn bel Alwan, Carcere a colori.
Ecco, la prima differenza col passato, con la storia dell’emigrazione politica
del Novecento, si trova nel legame quotidiano tra chi sta dentro e chi sta
fuori. Tra il Centro Estero e l’Interno. Passa attraverso la realtà virtuale
(che è via, autostrada, tessuto, legame, soprattutto comunità). Nonostante la
comunicazione sia ora più difficile a causa di un’attenzione spasmodica del
regime egiziano ai nuovi connettori (social, whatsapp e via elencando), la
comunità del dissenso continua a produrre giornalismo d’inchiesta, arte,
analisi politologiche, rapporti e denunce. Il dissenso ha, cioè, ancora
capacità di disseminare informazioni, e soprattutto di attraversare la
frontiera, di sconfinare per investire la comunità internazionale dei suoi
doveri di protezione dei diritti.
Le rivoluzioni, certo, non si fanno con un clic. Né con una bella canzone, un
mix tra pop e rap. E i social, se non tradotti e interpretati a dovere, creano
illusioni ottiche che talvolta provocano delusioni cocenti. Nella storia della
dissidenza giovanile egiziana, però, ciò che accade (o non accade) nell’agorà
virtuale è segno di quello che sta per accadere. Che accadrà. O che, come in
questo caso, non si è concluso. Anzi, è il prodotto di oltre dieci anni di
dissidenza che si è consolidata via web, e poi si è unita in una comunità del tutto
fisica, reale.
Intimoriscono i manifestanti (pacifici) che si sono ritrovati per strada al
Cairo. Intimoriscono gli avvocati, come Ahmed Abdallah, uomo di punta della
Commissione egiziana per i diritti e la libertà, consultato anche dai legali
della famiglia di Giulio Regeni. Intimoriscono, e molto, i giornalisti contro i
quali il ministero degli Interni aveva addirittura stilato un rapporto pieno di
strategia di comunicazione e contromisure.
Il dissenso egiziano, incarnato dalle giovani generazioni, è una rivoluzione.
Una rivoluzione perché i cambiamenti al vertice – prima la presidenza
fallimentare del capo dello Stato democraticamente eletto Mohammed al Morsi,
poi il golpe militare di Abdel Fattah al Sisi – non hanno normalizzato e
neanche eliminato un’opposizione attiva, tenace, quotidiana che deve contare
decine di migliaia di persone, se decine di migliaia di persone sono in
carcere. Fatti salvi i tanti casi in cui, a essere dietro le sbarre, sono
persone che non avevano un interesse politico.
Il regime egiziano, in sostanza, non riesce a rispondere al paniere colmo di
richieste che Piazza Tahrir aveva consegnato al sistema di potere guidato da
Hosni Mubarak, e poi reiterato a coloro che erano saliti al vertice dello Stato
egiziano. Nessuno, in questi cinque anni, è stato capace o ha voluto affrontare
i nodi strutturali, etici, politici, economici, sociali che hanno provocato la
rivoluzione. Diritti umani, diritti di cittadinanza, diritti sindacali,
dignità, equità sociale, trasparenza, pari opportunità: le richieste del 2011
erano talmente chiare da far comprendere, al regime di allora, che nulla
avrebbero potuto dare a chi era sceso in piazza, se non al prezzo di una caduta
del sistema. Il ritorno nel 2013 del regime in altre forme, ancora più
autocratiche di prima, significa che non esiste per ora una possibile
mediazione, una possibile transizione che metta attorno al tavolo i diversi
attori, il regime e il dissenso, la gerontocrazia militare, burocratica,
economica e, dall’altra parte, chi ne ha chiesto l’esautorazione per giungere a
un sistema di potere nuovo.
E se i numeri non sono bastanti a spiegare la forza reale
di un dissenso che si oppone a un regime, possono comunque sorprenderci, tanto
da porci alcune domande. I numeri sono numeri virtuali. Mezzo milione di
visualizzazioni in un mese e mezzo per uno dei brani politici di Ramy Essam.
Mezzo milione di clic, per un brano che parla di carcere, di detenuti politici
in Egitto, di attivisti dietro le sbarre con tanto di nome e cognome. Mahienour
El Masry, Ahmed Douma, Sana Seif.
La prima domanda, una domanda che non è solo curiosità,
riguarda il “chi è” di coloro che hanno visto il video di Segn bel alwan. Tutti
egiziani? Oppure Ramy Essam ha fan in tutto il mondo? Sarebbe importante
saperlo, certo. E forse i suoi estimatori sono ormai ben oltre i confini
dell’Egitto. Molti, però, sono ancora lì dentro, confinati in una scatola, un
campo in cui i diritti richiesti nel 2011 non sono stati difesi. Semmai, sono
stati vilipesi soprattutto negli ultimi due anni e mezzo. Centinaia di migliaia
di persone, si suppone in gran parte giovanissime, hanno visto e canticchiato
una videoclip in cui si contesta al regime di Abdel Fattah al Sisi di aver
messo in carcere e torturato gli oppositori, come denunciato da tutte le
organizzazioni di difesa dei diritti umani e civili. Una videoclip in cui si
dice che l’unica reazione è la rivoluzione.
La seconda, cruciale domanda è, dunque, se quella in
corso al Cairo sia stata e sia ancora una rivoluzione. Io credo di sì. Per il
mezzo milione di clic a un brano di Ramy Essam, icona pop della canzone di
protesta egiziana? Anche. Quel mezzo milione parla di un disagio forte,
all’interno di un settore sociale e generazionale che comprende la maggioranza
degli egiziani: è un disagio che diviene concreto nonostante una repressione
considerata peggiore di quella del regime di Hosni Mubarak. Il mezzo milione di
clic dice anche che una potenziale base di dissenso è ampia quanto lo era ampia
cinque anni fa, quando la pagina “Kollena Khaled Said”, cioè “Siamo tutti
Khaled Said” in onore di un ragazzo ammazzato di botte dalla polizia egiziana ad
Alessandria, aveva raccolto ottocentomila “mi piace”.
Allora, nel 2010-2011, il social era stato l’aggregatore
di un dissenso/disagio reale che non poteva scendere in piazza a causa di una
immediata repressione da parte delle forze di sicurezza. Le manifestazioni
contavano al massimo cinquanta, cento persone accerchiate da un imponente
apparato di sicurezza. I cordoni di polizia, insomma. E oggi? Oggi la
repressione è ancora più dura, più diffusa, più arrogante. Non risparmia alcuna
organizzazione e categoria professionale. Non risparmia gli avvocati
specializzati nella difesa dei diritti umani, né i giornalisti. Non risparmia
ragazzi di 19 anni, di 23 anni, i giovani uomini di 28. E la durezza della
repressione è lo specchio patente della fragilità del regime egiziano, così
come la spia che ben poco sia normalizzato nel paese. Basti pensare che, nel
momento di massima repressione, il regime egiziano ha arrestato oltre mille
persone prima, durante e dopo le manifestazioni dello scorso 25 aprile contro
la decisione, da parte del Cairo, di cedere all’Arabia Saudita le due isolette
di Tiran e Sanafir.
A fronte di una repressione conclamata, denunciata, e
della quale si sa moltissimo, il dissenso non si tira indietro. Tanto meno ora,
in una situazione che sembra la più delicata dal tempo del golpe militare del
luglio 2013. Gli attivisti si fanno arrestare. Alcuni si consegnano addirittura
spontaneamente ai commissariati di polizia. Affrontano la giustizia e sfidano
al tempo stesso il regime in condizioni di assenza di uno Stato di diritto che
protegga i diritti individuali. Se i numeri anche in questo caso sono la spia
che si accende, il segno di altro, allora come si dovrebbero interpretare le
decine di migliaia di detenuti politici? Oltre ventimila per le stime più
basse. Oltre quarantamila per altre associazioni. Sono o non sono, questi numeri,
al tempo stesso la conferma di una repressione e il segno di una rivoluzione?
Intanto, a Stoccolma, Ramy Essam canta che la “rivoluzione
è la soluzione”. Né l’Islam, come dicevano i Fratelli musulmani. Né la
democrazia, come scriveva Alaa al Aswany. No, non sono solo canzonette. In
fondo, nella storia musicale araba, non lo sono mai state.
Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato. Non
si può neanche dire che lo abbia dovuto lasciare, perché non tutti i giovani
egiziani protagonisti della rivoluzione di Tahrir hanno scelto di lasciare il
proprio paese. Nonostante l’altissimo rischio di essere arrestati, torturati,
uccisi. O fatti sparire nel nulla, com’è successo da oltre un anno a questa
parte a più di duemila persone. Ramy Essam l’Egitto lo ha lasciato, è andato a
vivere e a lavorare in Svezia. Come lui, una schiera sempre più folta di
“ragazzi” ha attraversato il confine, ha preso un aereo, ha una borsa di
studio, lavora, vive in Europa. O negli Stati Uniti. Sono, forse, una diaspora
politica Ramy Essam ha lasciato l’Egitto, ma non la rivoluzione che lo aveva
reso famoso. Il suo “Irhal, Irhal” era diventato virale, nell’epopea di piazza
Tahrir. “Irhal, Irhal”. “Vattene, vattene”, cantato e urlato all’indirizzo di
Hosni Mubarak. Ramy Essam, il musicista Ramy Essam era uno degli artisti della
rivoluzione, insomma, come gli autori dei graffiti che avevano riempito i muri
della downtown del Cairo, prima che anche quelli – come qualsiasi simbolo della
rivoluzione del 2011 – venissero coperti o inghiottiti dal regime di Abdel
Fattah al Sisi. E la rivoluzione la continua a cantare, Ramy Essam, ma a
Stoccolma.
Niente di nuovo, sin qui. L’emigrazione politica, nella
storia contemporanea, ha avuto le sue fasi, i suoi colori, le sue latitudini.
C’è chi, giovane, riempie i ranghi degli esuli. E chi, soprattutto giovane,
rimane in una patria sotto smacco. “Sotto occupazione. E un popolo
addormentato. La notte è caduta su di voi, e gli avvoltoi governano il paese”:
così la descrive il rocker Ramy Essam in uno dei suoi ultimi brani dal titolo
indicativo, Segn bel Alwan, Carcere a colori.
E se i numeri non sono bastanti a spiegare la forza reale
di un dissenso che si oppone a un regime, possono comunque sorprenderci, tanto
da porci alcune domande. I numeri sono numeri virtuali. Mezzo milione di
visualizzazioni in un mese e mezzo per uno dei brani politici di Ramy Essam.
Mezzo milione di clic, per un brano che parla di carcere, di detenuti politici
in Egitto, di attivisti dietro le sbarre con tanto di nome e cognome. Mahienour
El Masry, Ahmed Douma, Sana Seif.
La prima domanda, una domanda che non è solo curiosità,
riguarda il “chi è” di coloro che hanno visto il video di Segn bel alwan. Tutti
egiziani? Oppure Ramy Essam ha fan in tutto il mondo? Sarebbe importante
saperlo, certo. E forse i suoi estimatori sono ormai ben oltre i confini
dell’Egitto. Molti, però, sono ancora lì dentro, confinati in una scatola, un
campo in cui i diritti richiesti nel 2011 non sono stati difesi. Semmai, sono
stati vilipesi soprattutto negli ultimi due anni e mezzo. Centinaia di migliaia
di persone, si suppone in gran parte giovanissime, hanno visto e canticchiato
una videoclip in cui si contesta al regime di Abdel Fattah al Sisi di aver
messo in carcere e torturato gli oppositori, come denunciato da tutte le
organizzazioni di difesa dei diritti umani e civili. Una videoclip in cui si
dice che l’unica reazione è la rivoluzione.
La seconda, cruciale domanda è, dunque, se quella in
corso al Cairo sia stata e sia ancora una rivoluzione. Io credo di sì. Per il
mezzo milione di clic a un brano di Ramy Essam, icona pop della canzone di
protesta egiziana? Anche. Quel mezzo milione parla di un disagio forte,
all’interno di un settore sociale e generazionale che comprende la maggioranza
degli egiziani: è un disagio che diviene concreto nonostante una repressione
considerata peggiore di quella del regime di Hosni Mubarak. Il mezzo milione di
clic dice anche che una potenziale base di dissenso è ampia quanto lo era ampia
cinque anni fa, quando la pagina “Kollena Khaled Said”, cioè “Siamo tutti
Khaled Said” in onore di un ragazzo ammazzato di botte dalla polizia egiziana ad
Alessandria, aveva raccolto ottocentomila “mi piace”.
Allora, nel 2010-2011, il social era stato l’aggregatore
di un dissenso/disagio reale che non poteva scendere in piazza a causa di una
immediata repressione da parte delle forze di sicurezza. Le manifestazioni
contavano al massimo cinquanta, cento persone accerchiate da un imponente
apparato di sicurezza. I cordoni di polizia, insomma. E oggi? Oggi la
repressione è ancora più dura, più diffusa, più arrogante. Non risparmia alcuna
organizzazione e categoria professionale. Non risparmia gli avvocati
specializzati nella difesa dei diritti umani, né i giornalisti. Non risparmia
ragazzi di 19 anni, di 23 anni, i giovani uomini di 28. E la durezza della
repressione è lo specchio patente della fragilità del regime egiziano, così
come la spia che ben poco sia normalizzato nel paese. Basti pensare che, nel
momento di massima repressione, il regime egiziano ha arrestato oltre mille
persone prima, durante e dopo le manifestazioni dello scorso 25 aprile contro
la decisione, da parte del Cairo, di cedere all’Arabia Saudita le due isolette
di Tiran e Sanafir.
A fronte di una repressione conclamata, denunciata, e
della quale si sa moltissimo, il dissenso non si tira indietro. Tanto meno ora,
in una situazione che sembra la più delicata dal tempo del golpe militare del
luglio 2013. Gli attivisti si fanno arrestare. Alcuni si consegnano addirittura
spontaneamente ai commissariati di polizia. Affrontano la giustizia e sfidano
al tempo stesso il regime in condizioni di assenza di uno Stato di diritto che
protegga i diritti individuali. Se i numeri anche in questo caso sono la spia
che si accende, il segno di altro, allora come si dovrebbero interpretare le
decine di migliaia di detenuti politici? Oltre ventimila per le stime più
basse. Oltre quarantamila per altre associazioni. Sono o non sono, questi numeri,
al tempo stesso la conferma di una repressione e il segno di una rivoluzione?
Intanto, a Stoccolma, Ramy Essam canta che la “rivoluzione
è la soluzione”. Né l’Islam, come dicevano i Fratelli musulmani. Né la
democrazia, come scriveva Alaa al Aswany. No, non sono solo canzonette. In
fondo, nella storia musicale araba, non lo sono mai state.
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