venerdì 29 marzo 2024

La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

                  

video e articoli di Susan Abulhawa, Piero Bevilacqua, Francesca Albanese, Amira Hass, Eric Salerno, Norberto Albano, Chris Hedges, Jason Burke, Peter Oborne, Mohammed El Kurd, Antoine Raffoul, Norman Finkelstein, Eman Hillis



La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto – Susan Abulhawa

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto l’aeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato l’assenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie d’erba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa dell’oro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto l’umiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dell’umanità di un altro. È la riduzione di un’antica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare l’indicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dell’umanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming l’immagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

da qui

 

 

Il genocidio del popolo palestinese e la complicità dell’Europa – Piero Bevilacqua

Di fronte al genocidio – sì, genocidio, perché, come è ormai evidente, Israele persegue apertamente lo sterminio della popolazione palestinese – un richiamo al lontano passato delle guerre può farci percepire l’orrore in cui siamo precipitati.

Nella pagina della Storia d’Italia in cui narra la discesa di Carlo VIII nel nostro Paese, Francesco Guicciardini ci offre uno spaccato prezioso delle regole e dell’etica della guerra nel Medioevo. Colpito dalla ferocia con cui l’esercito francese aveva distrutto, a inizio invasione, un castello e gli abitati in terra d’Abruzzo, segnalava l’episodio come una terribile novità: «un modo di guerreggiare non usato da molti secoli in Italia». E rammentava le diverse regole con cui sino ad allora si concludevano le battaglie: «Nelle vittorie, in qualunque modo conquistate, l’ultimo dove soleva procedere la crudeltà de’ vincitori, era spogliare e poi liberare i soldati vinti, saccheggiare le terre prese per forza, e fare prigione gli abitatori perché pagassino le taglie, perdonando sempre alla vita degli uomini i quali non fussino stati ammazzati nello ardore del combattere».

Questa osservazione, che registra una realtà del 1494, getta una luce sinistra su quanto accade oggi a Gaza. Mostra una regressione di civiltà clamorosa. Là è in corso una guerra che per numero di morti civili, modalità di combattimento, forme di oppressione della popolazione civile (privazione di acqua, cibo, energia, medicinali, assistenza medica) fa impallidire per ferocia le guerre che si combattevano nel Medioevo, quando non esisteva un diritto europeo che regolasse i conflitti. A ispirare il comportamento dell’esercito israeliano è una inaudita efferatezza programmatica: bombardare indiscriminatamente gli abitati, gli ospedali, le scuole, le piazze dei mercati, gli accampamenti dei fuggiaschi e uccidere migliaia di cittadini per potere eliminare qualche centinaio di guerriglieri di Hamas. Anche se il fine ultimo, in realtà, è rendere inabitabile Gaza, non si può non osservare la differenza di comportamento perfino rispetto all’esercito nazista. La pratica della decimazione, messa in atto dalle truppe tedesche alla fine della seconda guerra in Italia, appare infinitamente più moderata. Col che non si vuol definire nazista l’esercito israeliano. Allo storico non è consentito pasticciare con le parole. E tuttavia, dal momento che, a ragione, si definiscono terroristi gli uomini di Hamas, per l’uccisione di tanti civili innocenti il 7 ottobre, come dovremmo definire i soldati di Israele che ne stanno uccidendo, per ormai evidente progettazione politica, un numero infinitamente superiore?

Ma un’altra grande novità, più tragica forse per i significati generali che ne emergono, è che oggi al massacro della popolazione di Gaza assistono pressoché i cittadini di tutto il mondo. In diretta e giorno per giorno. Forse non era mai accaduto che un eccidio di tali proporzioni assumesse i caratteri di uno spettacolo universalmente disponibile. Le immagini dei bambini col viso coperto di sangue, delle madri vestite di nero accasciate sulle macerie, dei morti trasportati a spalla, arrivano ormai dovunque e a chiunque, con sullo sfondo un cimitero di edifici sventrati e fumanti. Ebbene da queste certificazioni dell’orrore alla portata di tutti, da questa possibilità di essere contemporanei consapevoli di un eccidio che inciderà nella memoria del secolo, i governanti e gran parte dei politici europei, intellettuali, giornalisti, con l’Italia in prima fila, si sono mostrati avversi a sostenere un cessate il fuoco. Hanno deciso più volte e in vario modo di opporsi a che finissero i bombardamenti, a che potessero essere portati cibo, acqua, medicine, energia agli sfollati e ai feriti. Ora gli israeliani stanno negando all’ UNVRA (l’organismo dell’ONU per il soccorso ai rifugiati) di operare, bloccando l’accesso a Gaza dei tir carichi di viveri e medicinali. Di fatto, dunque le élite europee hanno contribuito e contribuiscono a che tanti feriti muoiano, tanti sopravvissuti periscano per stenti e fame, infezioni e malattie. È sommamente difficile negare che tale comportamento si configuri come una correità dell’UE con il Governo e con l’esercito israeliano.

Da questa constatazione discendono due conseguenze che sgomentano. La prima è che le dirigenze europee hanno raggiunto un grado così spinto di subordinazione agli interessi militari degli USA, da tradire ormai apertamente la volontà dei propri popoli, restringendo tanto la sovranità che la democrazia dei rispettivi Paesi; l’interesse imperiale di uno Stato straniero prevale su quello dei popoli che essi sono chiamati a rappresentare. L’altra inevitabile conseguenza è che tali élite si configurano apertamente come dei raggruppamenti criminali, perché violano il diritto internazionale e concorrono indirettamente alla morte di migliaia di persone innocenti. Criminale, dal tardo latino crimen, «azione inumana compiuta da membri delle forze armate in contrasto con le norme di diritto internazionale» o «da individui agenti come privati o come organi di uno Stato» (Zingarelli.) L’UE sta mostrando quale soglia di barbarie è disposta a varcare per restare al traino di un impero sanguinario in declino.

da qui

 

 

Albanese, relatrice Onu: “Fondati motivi“ che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, ha pubblicato un rapporto drammatico sulla guerra di Israele a Gaza, ribadendo che ci sono “fondati motivi” per ritenere che Israele stia commettendo un genocidio nell’enclave palestinese.

Albanese ha spiegato che le prove – raccolte da organizzazioni sul campo, rapporti investigativi e consultazioni con le popolazioni colpite – suggeriscono che Israele ha commesso almeno tre dei cinque atti elencati dalla Convenzione ONU che comportano l’accusa di genocidio.

Questi atti includono: “l’uccisione di membri del gruppo; il causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; e l’infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica in tutto o in parte”.

Sul primo punto, Albanese ha osservato che Israele ha ucciso più di 30.000 palestinesi a Gaza dal 7 ottobre. Altri 12.000 risultano dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie.

Più del 70% dei morti dichiarati sono donne e bambini e Israele non è riuscito a dimostrare che il restante 30% – maschi adulti – erano combattenti attivi di Hamas.

L’inasprimento del blocco di Gaza da parte di Israele sta provocando anche morti per fame, tra le quali quelle di 10 bambini al giorno.

Sul secondo punto, Albanese ha osservato che le forze israeliane hanno ferito più di 70.000 palestinesi e imprigionato migliaia di uomini e ragazzi palestinesi, sottoponendoli a torture e maltrattamenti.

Sul terzo punto, Albanese ha precisato che Israele ha distrutto o gravemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture vitali di Gaza, compresi ospedali e terreni agricoli.

La relatrice delle Nazioni Unite ha sottolineato che Israele ha utilizzato concetti del diritto umanitario internazionale – come scudi umani, danni collaterali e zone sicure – come copertura legale per commettere crimini di guerra a Gaza.

Per esempio, Albanese ha ricordato che Israele ha cercato di dipingere tutta la popolazione di Gaza come scudi umani, con i leader politici e militari israeliani di alto livello che hanno costantemente inquadrato i civili palestinesi come agenti di Hamas, “complici” o scudi umani, integrati con il movimento palestinese.

Israele ha “de facto trattato un intero gruppo protetto e le sue infrastrutture vitali come ‘terroristi’ o ‘sostenitori del terrorismo’, trasformando così ogni cosa e ogni persona in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruggibile”, ha scritto.

Infine, Albanese ha avvertito che “in questo modo, nessun palestinese a Gaza è al sicuro per definizione. Questo ha avuto effetti devastanti e intenzionali, costando la vita a decine di migliaia di palestinesi, distruggendo il tessuto di vita di Gaza e causando danni irreparabili a tutta la sua popolazione”.

La reazione di Israele

La missione israeliana a Ginevra ha respinto l’accusa di genocidio avanzata dall’esperto dell’ONU, definendo le accuse come “oltraggiose” e “un’oscena inversione della realtà”, come ha riportato l’agenzia di stampa AFP. La missione diplomatica di Tel Aviv ha inoltre descritto il rapporto come “semplicemente un’estensione di una campagna che cerca di minare l’istituzione stessa dello Stato ebraico”.

da qui

 

 

La crudeltà di Israele è nascosta dal suo decentramento – Amira Hass

Nella competizione sulla crudeltà, il premio va a chi è più bravo a nasconderla. Ciò rende Israele il grande vincitore e Hamas e i palestinesi i perdenti. La crudeltà di Israele ha diversi tratti che la nascondono a tutti tranne che alle sue vittime. Rendono facile per alleati come gli Stati Uniti e la Germania trattare Israele come una vittima del popolo che soggioga e continuare a vendergli armi.

La crudeltà nascosta di Israele funziona come la catena di montaggio di una fabbrica. Il suo prodotto finale: l’impoverimento, l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi come una questione ordinaria in tempi normali, e la distruzione, l’uccisione, l’espropriazione e l’impoverimento in tempo di guerra, non ha un produttore responsabile. Ci sono molti complici nella creazione del prodotto finale, tutti traendo autorità da una legge parlamentare o divina, o da sentenze della Corte Suprema. La responsabilità è dissipata e distribuita tra ciascuna parte dietro questa catena di montaggio. A causa della loro moltitudine, sono tutti esenti dall’essere definiti “crudeli”.

Ogni israeliano che sta lungo questa catena di montaggio e aggiunge un altro componente al prodotto che gli passa davanti è una persona normale, spesso qualcuno che è assolutamente gradevole, forse qualcuno che ha il senso dell’umorismo, rispetta i suoi genitori ed è appassionato di cinema. Anche gli ingegneri e gli amministratori coinvolti hanno attributi positivi.

Prendiamo l’esempio delle cisterne per l’immagazzinamento dell’acqua che le comunità palestinesi utilizzano (perché Israele si rifiuta di collegarle alla rete idrica) e che l’Amministrazione Civile, l’organo di governo israeliano in Cisgiordania, ha ordinato di distruggere, o dei serbatoi dell’acqua che ha confiscato. Una lunga catena di estranei ha creato il prodotto finale: sabbia e ghiaia versate per riempire la cisterna e assorbire la preziosa acqua. O lo spazio vuoto su cui un tempo sorgevano i serbatoi d’acqua.

Dopotutto, l’operatore del bulldozer che ha demolito o spostato il serbatoio dell’acqua incriminato deve sfamare i suoi figli. I membri della Polizia di Frontiera che si sono assicurati che nessuno interferisse con il bulldozer hanno obbedito agli ordini. Non hanno fabbricato il gas lacrimogeno o la granata stordente che hanno lanciato contro bambini e donne che hanno interferito con l’ordine pubblico. Coloro che li hanno realizzati erano lavoratori latinoamericani o afroamericani che dovevano anche loro sfamare i propri figli.

Il soldato/impiegato si limitava a coordinare lo schieramento delle varie unità all’alba. Il supervisore ha firmato il modulo di un ordine di demolizione di strutture costruite senza permesso o all’interno di aree dichiarate zone di fuoco militari, come se la cosa fosse comandata da Dio. Il giurista che ha approvato o addirittura scritto il testo dell’ordine di demolizione o di confisca è morto molto tempo fa, e i suoi nipoti se la passano bene negli Stati Uniti o nell’Unità di Intelligence d’élite dell’IDF.

Il capo dell’Amministrazione Civile in Cisgiordania è sia un soldato che un cittadino rispettoso della legge. Come i suoi predecessori, non chiuderà un occhio davanti al crimine di essere assetato commesso da un palestinese e dal suo gregge di pecore mentre vagano insolenti nella sacra Area C, che gli Accordi di Oslo hanno posto sotto pieno controllo israeliano e che avrebbero dovuto scadere nel 1999. Dopotutto, lui e i suoi predecessori non sono responsabili del caldo intenso nella Valle del Giordano…

continua qui

 

 

La morte solitaria di una donna sfollata – Eman Hillis

Suhaila era sola nel suo appartamento quando Israele ha iniziato la sua guerra genocida il 7 ottobre.

Tutto quello che poteva sentire erano i suoni delle esplosioni. Tutto quello che poteva fare era pregare per le persone che venivano martirizzate.

Prima di tornare a Gaza qualche anno fa, Suhaila aveva vissuto dieci anni in Egitto.

Era tornata perché voleva vedere i suoi nipoti e le sue nipoti. Non poteva immaginare quali orrori le sarebbero stati riservati

Suhaila, una donna di 63 anni costretta su sedia a rotelle, viveva nella zona di Sheikh Radwan a Gaza City. Era rimasta lì dopo che Israele aveva ordinato a tutti nel nord di Gaza – compresa Gaza City – di lasciare le proprie case durante i primi giorni della guerra.

La situazione a Sheikh Radwan era diventata sempre più grave, soprattutto dopo che Israele aveva inviato carri armati nella zona. Israele non ha mostrato pietà verso i bambini e gli anziani.

La violenza si era avvicinata sempre di più all’appartamento di Suhaila.

Tutto quello che poteva sentire erano le esplosioni, il suono delle sirene delle ambulanze, le urla della gente. I rumori erano così forti e intensi che pensava che sarebbe diventata sorda.

Quando ci fu una pausa, Suhaila sentì bussare alla sua porta.

“C’è qualcuno lì?” aveva chiamato una voce.

“Sì”, aveva risposto lei. “Io sono qui.”

La sua voce era debole e non riusciva ad alzarla.

I colpi alla sua porta continuavano e Suhaila continuava a dire “Sono qui”. Era riuscita a sedersi sulla sedia a rotelle.

Poco dopo la porta si era spalancata. Era apparso un uomo.

“Sei l’unica in questo appartamento?” aveva chiesto.

Suhaila aveva annuito. “Chi sei?” lei aveva chiesto.

L’uomo aveva spiegato di essere un impiegato della Protezione civile. Le disse che  doveva uscire velocemente dall’appartamento.

L’intero blocco, ha aggiunto, stava per essere preso di mira da Israele.

Suhaila era scioccata e arrabbiata per la notizia, ma aveva represso le sue emozioni. Chiese all’operatore della protezione civile di aiutarla a prendere due thobe dal suo armadio.

Poi aveva lasciato frettolosamente il suo appartamento.

Suhaila fu portata a Khan Younis, nel sud di Gaza. Andò a stare lì con i parenti.

La casa dei suoi parenti non era adatta a chi usa una sedia a rotelle.

Suhaila aveva bisogno di aiuto per andare in bagno. Dipendeva dai suoi parenti per cibo e acqua.

Non era rimasta a lungo a Khan Younis.

Non molto tempo dopo il suo arrivo, Israele aveva iniziato a bombardare la città, causando un’evacuazione su larga scala.

Suhaila si era diretta con i suoi parenti a Rafah, più a sud. Sfortunatamente, in mezzo al trambusto generale, era stata separata da loro

Sola per le strade di Rafah, Suhaila non aveva idea di cosa fare o dove andare. Un giovane era venuto in suo aiuto e l’aveva portata in una moschea.

Anch’io mi ero rifugiata nella stessa moschea. È stato lì che Suhaila mi ha raccontato cosa le era successo.

Alla moschea Suhaila si agitava parecchio.

Un’infermiera volontaria di nome Samah aveva notato che la salute di Suhaila stava peggiorando.

Quando a Suhaila era stato offerto del cibo, lei lo aveva rifiutato.

Nel suo stato di angoscia, aveva accusato altri nella moschea di aver tentato di ucciderla.

In un’occasione aveva accettato di mangiare un po’, dopo ore di persuasione. Aveva chiesto una mela e del cioccolato.

Ma nessuno dei due era disponibile nel mercato, e anche se lo fossero stati, sarebbero stati troppo costosi perché i rifugiati potessero permetterseli.

Una mattina presto, Suhaila aveva avuto una sferzata di energia. Aveva chiesto di andare in bagno e di cambiarsi i vestiti.

All’improvviso, aveva iniziato a vomitare.

È arrivata un’ambulanza e aveva portato via Suhaila.

Sulla strada per l’ospedale, Suhaila è morta. Non è stato celebrato alcun funerale.

Alcune persone potrebbero attribuire la morte di Suhaila a “cause naturali”.

O alla sua età.

O alla malattia.

Ma io sono convinta che sia morta di dolore.

È morta in un posto estraneo.

Aveva fame e sete e non aveva nessuno della sua famiglia accanto a lei.

(Eman Hillis è una scrittrice di Gaza)

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

da qui

 

 

Per Marwan Barghouti, eroe palestinese, carcere di massima sicurezza – Eric Salerno

«C’è un uomo che, forse, potrebbe unire le varie fazioni palestinesi in lotta contro l’occupazione israeliana e guidare quel popolo arabo verso la creazione di uno Stato indipendente accanto a Israele. Il nome di Marwan Barghouti è sulla lingua di amici e nemici da molti anni», introduce Eric Salerno, che lo ha conosciuto personalmente.
Il suo nome molte volte citato come possibile leader. L’ANP accusa Israele di mettere in pericolo la sua vita

Crudele accanimento

Quando incontrai Marwan Barghouti, anni fa, era un giovane attivista che sembrava capace di generare una nuova visione della lotta palestinese dominata, allora, dalla vecchia guardia capeggiata da Yasser Arafat, il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Oggi langue in un carcere israeliano. E la settimana scorsa l’Autorità palestinese ha accusato Israele di aver messo in pericolo la sua vita. È stato trasferito in una struttura di massima sicurezza, non può ricevere visite e sarebbe stato torturato dalle sue guardie.

Violenza vendicativa da Non Stato

Sua moglie, l’avvocata Fadwa Ibrahim Barghouti, sostiene che «sarebbe stato picchiato con delle spranghe e ferito sul volto, vicino agli occhi». Le autorità penitenziarie israeliane negano ma di sicuro non gli consentono di ricevere visite o comunicare con l’esterno. Molte volte durante i suoi 22 anni di carcere aveva delineato una formula per unire le varie organizzazioni palestinesi perché si presentavano unire un’eventuale negoziato con Israele.

Divide et impera

«Fino a quando i palestinesi sono divisi tra Hamas, fondamentalisti islamici contrari all’idea stessa di uno stato ebraico e l’Autorità nazionale Palestinese, è inutile, impossibile, parlare di un futuro di pace», è stata la linea di Netanyahu e di altri governanti israeliani. Divide et impera, l’antica formula latina, è sempre valida. Netanyahu ei suoi seguaci avevano favorito la crescita strategica di Hamas nella striscia di Gaza e, in maniera meno riuscita, anche nella Cisgiordania occupata.

Il mostro cresciuto in seno

Oggi Netanyahu parla di un mondo palestinese senza Hamas ma la maggioranza degli osservatori internazionali concordano sul fatto che il movimento islamico, nonostante l’uccisione di migliaia dei suoi militanti e della distruzione della maggior parte del suo arsenale, è ormai parte integrante della società palestinese e lo sarà ancora per decenni.

Netanyahu si ripete

L’altro giorno la delegazione israeliana a Doha per i negoziati indiretti con Hamas è tornata a Tel Aviv mentre a Gaza le forze armate israeliane continuano le operazioni militari soprattutto nelle zone settentrionali della striscia. Netanyahu continua a ripetere che prima o poi ci sarà l’assalto a Rafah e a «quello che resta di Hamas». Parla soltanto di una breve pausa nei combattimenti per motivi umanitari e per la liberazione degli ostaggi israeliani.

Hamas, accordo lontano

«Siamo ancora lontani da un accordo. Israele – sostiene Hamas – non accetta la fine delle operazioni militari; limita a duemila al giorno il ritorno dei gazawi alle loro case o ai ruderi; per ogni ostaggio rilasciato è disposto a liberare soltanto cinque detenuti palestinesi e vuole deportare i detenuti con condanne lunghe fuori dal territorio palestinese». [Ripetiamo, questa prese di posizione precedono la svolta al Consiglio di sicurezza Onu Ndr].

Barghouti dopo 22 anni di carcere

Finora, per quanto emerso dal segreto delle trattative, il nome di Barghouti è stato fatto più volte e, più volte, Israele avrebbe risposto con un secco no a una sua eventuale liberazione. Il timore della moglie e dei dirigenti palestinesi è che dopo 22 anni di detenzione possa morire in carcere come avvenuto in questi ultimi mesi ad altri tredici detenuti per i quali le autorità israeliane hanno dichiarato il decesso ‘per cause mediche’.

In un’istanza inviata al procuratore Avigdor Feldman, Barghouti ha dichiarato di non ricevere cibo in quantità adeguata, di esser costretto a dormire sul pavimento e di esser stato ripetutamente picchiato mentre era bendato, umiliato, trascinato nudo per terra in presenza di altri detenuti.

Più che pena, un martirio crudele

Marwan Barghouti fu arrestato la prima volta a 18 anni, nel 1978, e condannato a sei anni di detenzione. Imparò l’ebraico in carcere, studiò storia e scienze politiche all’università di Bir Zeit, nella Cisgiordania occupata, e fu tra i fondatori di Shabiba, l’organizzazione giovanile di Fatah nei Territori, particolarmente attiva in quell’ateneo negli anni Ottanta.

Emerse come figura carismatica nella Prima intifada (1987-1993) e venne deportato in Giordania nel 1987 con la moglie ei due figli: la famiglia restò in esilio per sette anni e rientrò in Cisgiordania nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

da qui


continua qui

Nessun commento:

Posta un commento