lunedì 2 dicembre 2024

Zelensky ora propone pace all’ombra della Nato. Quella che si poteva avere nel 2022 - Fulvio Scaglione

  

E così il presidente Zelensky ha deciso di abbordare la questione che è ormai diventata ineludibile: trovare un modo per fermare la guerra, prima che l’Ucraina tracolli dopo tre anni di coraggiosa resistenza e sacrifici enormi. E lo ha fatto rinunciando di fatto al sogno che ha animato questa lotta, ovvero “tornare ai confini del 1991”, quindi recuperare il Donbass e la Crimea. Niente più Piano per la Vittoria, a dispetto dei missili a lungo gittata che ora potrebbe usare con l’autorizzazione degli Usa, della Gran Bretagna e della Francia, ma molto realismo. La sua proposta: l’Ucraina nella Nato subito e per i territori occupati dalla Russia si vedrà, si tratterà. Purché si smetta di sparare e di morire, qualunque proposta è buona. Ma l’uscita di Zelensky, e non certo per colpa sua, mette un’infinita malinconia. Perché a questa stessa soluzione si poteva arrivare già nel 2022, quando la guerra aveva solo pochi giorni di vita.

Quasi tre mesi fa, nel silenzio della stampa occidentale, le truppe russe sono arrivate, in territorio ucraino, tanto avanti quanto lo erano nelle primissime settimane dell’invasione del febbraio 2022. E in questi tre mesi, come ben sappiamo, sono avanzate ancora. È piuttosto evidente, quindi, che si può definire questa situazione drammatica: perché se si fosse data una qualche possibilità alle trattative tra Russia e Ucraina che si erano aperte già poco dopo l’inizio dell’invasione, per quanto fosse già allora pesante la condizione degli ucraini e non fosse alle viste (allora) alcuna sanzione nei confronti della Russia colpevole dell’aggressione, ci saremmo risparmiati centinaia di migliaia di morti, distruzioni infinite soprattutto a carico dell’Ucraina, l’escalation militarista che investe anche l’Europa, le minacce atomiche e infinite difficoltà economiche.

È una realtà triste ma innegabile. La gente lo ha capito bene, visto che in tutti i Paesi coinvolti i sondaggi e le ricerche spiegano che i comuni cittadini sono per fermare la guerra. A cominciare ovviamente da Ucraina e Russia (come ha spiegato bene Daria Mihaylova in queste pagine), ma proseguendo con gli Stati Uniti (il 52% chiede di sospendere le forniture di armi all’Ucraina), la Germaniala Francia e così via. I sostenitori della guerra a ogni costo sopravvivono, purtroppo, soprattutto nei Governi, con le conseguenze che vediamo: la maggioranza più risicata di sempre per la Commissione Europea, crisi profondissime per i Governi di Francia e Germania, Regno Unito e così via. E si capisce bene perché: che fine farebbe il potere di deterrenza dell’Occidente se questa guerra si concludesse con l’impressione di una vittoria (o anche solo di una non sconfitta) della Russia? Quante altri potenziali Donbass e Crimee ci sono, oltre che nell’ex Urss (Abkhazia, Ossetia del Sud, Transnistria…), in giro per il mondo?

Come si diceva, già nel marzo del 2022 la scelta era angosciante ma semplice: fermare la guerra e poi cercare una “pace giusta”, oppure proseguire la guerra per imporre una “pace giusta”. Sappiamo bene quale soluzione sia stata scelta e le conseguenze che ha avuto. Di che cosa si discusse allora, tra russi e ucraini, lo hanno spiegato bene sulla rivista Foreign Affairs due importanti studiosi americani, Samuel Charap e Sergey Radchenko. Dopo un primo incontro interlocutorio il 28 febbraio 2022, in cui i russi presentarono condizioni così dure da essere inaccettabili, nei successivi round (cioè mentre falliva sul campo l’obiettivo del Cremlino di sbandare il governo Zelensky e sostituirlo con un governo amico) la trattativa cominciò a prendere senso. Il 3 e 7 marzo le delegazioni si. incontrarono ancora, e il 10 marzo, in Turchia, ci fu il colloquio tra il ministro degli Esteri ucraino Kuleba e il suo omologo russo Lavrov. Poi i colloqui proseguirono in forma indiretta fino al momento, poi risultato decisivo, del 29 marzo, quando a Istanbul le delegazioni si scambiarono una bozza di accordo redatta dagli ucraini e accettata dai russi come positiva base di discussione.

Il succo era questo: l’Ucraina sarebbe diventata un Paese permanentemente neutrale e avrebbe rinunciato all’adesione alla Nato, ma avrebbe potuto liberamente entrare nella Ue (al contrario di quanto voleva la Russia nel 2013-2014, quando il ripensamento del presidente Janukovich sulla Ue scatenò l’Euromaidan). I russi chiedevano che l’esercito ucraino (molto rinforzato durante la presidenza Poroshenko) venisse ridotto a una forza poco più che simbolica (85 mila uomini, qualche centinaio di carri armati e missili a gittata ridotta). L’Ucraina chiedeva ai Paesi occidentali (in primo luogo Usa e Gran Bretagna, ma anche Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia) di impegnarsi a soccorrerla in caso di nuova aggressione: l’equivalente dell’ingresso nella Nato ora ipotizzato.

La soluzione pacifica del problema Crimea veniva rimandata, dando alle parti 15 anni per trovare un accordo: una “concessione” della Russia, che mai prima aveva messo in discussione il proprio controllo sulla penisola. Le più immediate questioni territoriali (ovvero il Donbass) venivano lasciate a trattative dirette tra Zelensky e Putin. Proprio come adesso si ipotizza.

Le cose, poi, nel 2022 andarono come ben sappiamo. Colpa di Zelensky, convinto di poter vincere la guerra? Colpa di Boris Johnson e Joe Biden, che gli promisero aiuti sufficienti a sventare i piani del Cremlino? Colpa dei Paesi che dovevano fare da garanti e non se la sentirono di assumersi un simile obbligo? Colpa dei russi? Non lo sapremo mai. Ma la domanda vera è un’altra: sarebbe stata, quella, una “pace giusta”? Considerato che l’Ucraina era stata aggredita, no. Ma la pace giusta è quella possibile. La pace impossibile è sempre ingiusta. E anche la soluzione ora proposta da Zelensky lo è.

Facciamo l’ipotesi che molti danno per scontata, ovvero che Donald Trump cercherà di “imporre” una trattativa. Qualcuno pensa che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nella Ue sia più vicino di quanto lo fosse nel 2022? Che Zelensky potrà sedersi a un tavolo con Putin e discutere della Crimea? Che il Donbass tornerà sotto il pieno controllo di Kiev? Che Usa, Gran Bretagna e gli altri Paesi siano oggi più disponibili a fornire all’Ucraina quelle garanzie che non fornirono nel 2022?

La risposta è sempre e solo una: spingere sul pedale della guerra è stato un clamoroso errore, la scelta di una strategia fallimentare di cui stanno facendo le spese, ovviamente, soprattutto gli ucraini. Un errore clamoroso soprattutto per chi ritiene, giustamente, che quella russa sia stata (qualunque motivazione possa addurre il Cremlino, a volte anche con ragione) un’aggressione. La cosa fondamentale era fermare l’aggressione. Convincere l’aggredito (magari già convinto di suo: la ricerca Gallupp del marzo 2022 diceva che il 73% degli ucraini si pronunciava per l’idea di combattere) di poter ottenere la rivincita ha prodotto il risultato che vediamo ogni giorno. Chi se ne prenderà la responsabilità?

da qui

domenica 1 dicembre 2024

L’Egitto amarissimo di Laila e Alaa - Enrico Campofreda

 

Laila Soueif ha sessantotto anni. Né tanti né pochi, ma ne dimostra decisamente di più. Il volto è segnato da una vita di lotta iniziata giovanissima, quando aveva sedici anni, e manifestava a piazza a Tahrir contro il regime di Sadat da poco salito al potere. Una protesta che per lei non durò a lungo, visto che i genitori, entrambi docenti universitari, la rintracciarono riconducendola in casa prima che le potesse capitare qualcosa di spiacevole. Laila aveva una passione per la matematica e dai banchi di scuola e poi dell’università l’ha trasferita nella vita lavorativa, entrando anche lei nell’ateneo del Cairo in qualità d’insegnante. Lì aveva conosciuto il futuro marito, Ahmed Seif El-Islam, un attivista comunista anch’egli docente e avvocato. Insieme hanno avuto tre figli Alaa, Sanaa e Mona. Tutti attivisti come i genitori. Il volto di Laila è segnato non tanto dal passare del tempo, ma dalle sofferenze. Dalle vicende familiari frutto dell’impegno per libertà e giustizia. I guai del primogenito Alaa sono arrivati, come per migliaia di giovani protestatari, con le primavere arabe che hanno scosso il Medio Oriente dal dicembre 2010. Nel gennaio 2011 la generazione successiva a Laila era tornata in piazza Tahrir contestando Hosni Mubarak che di lì a qualche settimana abbandonerà un potere durato molto più a lungo di quello del predecessore Anwar Sadat. Tutti presidenti, tutti militari, come l’attuale persecutore di Alaa e Laila: Abdel Fattah al Sisi. Il generalissimo. Il militare egiziano, che fece fuori il presidente laico Mohammad Morsi, si predispone a durare - ad Allah piacendo - più dei sovrani di quel regno militare che ancora s’ostina a definirsi Repubblica d’Egitto. Si cita Sisi e qualsiasi italiano normale pensa a Giulio Regeni, al suo strazio, al suo martirio. Gli italiani di governo invece fanno spallucce. Dicono che non sapevano del suo sequestro, lo fa sotto giuramento l’ex primo Ministro Renzi al processo in corso a Roma contro gli aguzzini del ricercatore friulano, che poi sono fidati servitori del regime di Sisi. Oppure sostengono, come la premier Meloni, che l’Egitto è un Paese sicuro e ci rispediscono chi ne fugge atterrito o affamato. 

 

Basterebbe chiederlo alla professoressa Laila, a suo figlio Alaa cos’è diventato l’Egitto nell’ultimo decennio. E se migliaia di attivisti locali non possono qualificarlo in nessun modo perché sono stati tacitati per sempre (come? alla maniera di Giulio Regeni o anche peggio perché gli scomparsi sono un’infinità) altre sessantamila egiziani e forse più rinchiusi nelle patrie galere certificano a familiari e avvocati, se e quando riescono a ricever visite, i segni di quella normalità: bruciature elettriche e di fiamma ossidrica, lividi e cicatrici sulla pelle e lì dove non vedono ma s’intuiscono, nel profondo dell’anima. Per un crudele e cruento gioco burocratico Alaa viene trattenuto due anni in più. Era stato arrestato nel 2019 con l’accusa di diffondere sui social “false notizie”, e aveva scontato la pena, però a pochi giorni dall’auspicabile liberazione la Corte del Cairo ha comunicato che i due anni trascorsi in prigione in attesa del processo non erano validi e ha riaggiornato la pena, con l’aggiunta di alcuni mesi. Per Alaa la data si sposta a metà del 2027. Da quel momento mamma Laila ha avviato uno sciopero della fame per domandare alle stesse autorità britanniche, che per lei e i figli sono un riferimento visto che hanno anche questa nazionalità, d’intervenire a sostegno di un abuso subìto da un cittadino del Regno Unito. Finora Laila ha ricevuto qualche promessa da Londra, nessuna dal Cairo, eppure le parole non si traducono in nulla. Oggi la docente, l’attivista per i diritti, la madre è al sessantesimo giorno di sciopero della fame. Beve acqua, assume minerali e sali, con un minimo di calorie, un’azione che per la sua età diventa rischiosa. Lei caparbiamente la prosegue ma in una recente intervista a Sky News ha dichiarato: “Personalmente ne ho abbastanza, non posso affrontare condizioni simili e anche Alaa è senza speranze. Il ministro degli Esteri (britannico, ndr) Lammy sostiene che il caso è una priorità governativa da discutere con l’omologo egiziano, non sembra che Il Cairo mostri attenzione né intavoli dialoghi. Spero di ricevere non più assicurazioni sulla vicenda, bensì iniziative concrete. Non voglio collassare o morire”.

https://enricocampofreda.blogspot.com/2024/11/legitto-amarissimo-di-laila-e-alaa.html