Mohamed Mahmoud Ebrahim Shahin viene fermato dalla polizia la mattina del 24 novembre 2025, mentre accompagna i figli a scuola. In poche ore da Torino viene portato nel Cpr di Caltanissetta, dove rimane detenuto in attesa di essere espulso in Egitto, suo paese d’origine. In quanto oppositore del regime di al-Sisi, in caso di deportazione rischia di essere detenuto, torturato, ucciso. Dopo tre settimane, la mattina del 15 dicembre, viene liberato su disposizione della Corte d’Appello del tribunale di Torino, che accoglie il ricorso presentato contro la sua detenzione. Il peggio sembra quindi alle spalle, ma il suo caso non è ancora concluso. Inoltre, quanto avvenuto a Shahin non è un caso isolato, ma indice di una profonda trasformazione nella politica delle espulsioni.
Mohammed Shahin ha quarantasei
anni, ventuno dei quali passati in Italia. Qui si è sposato, ha avuto due figli
e ha ottenuto un permesso di soggiorno di lungo periodo, ma non la
cittadinanza. È l’imam della moschea Omar Ibn al-Khattab, situata
nel cuore del quartiere di San Salvario a Torino, nota per la
promozione di iniziative di dialogo inter-religioso e la cooperazione con la
società civile; negli ultimi due anni è stato una presenza costante nel
movimento cittadino in solidarietà con la Palestina, facendo
propria una prassi non-violenta e sostenendo il dialogo con le istituzioni. Ciò
ha fatto di Shahin una figura pubblica e trasversale, nota in città e altrove,
come testimoniato dalla campagna per la sua immediata liberazione, che ha visto
mobilitarsi movimenti sociali, parte del mondo dell’università e
dell’associazionismo ma anche personalità politiche e religiose. Tuttavia, ciò
non è stato sufficiente a proteggerlo: per il governo, Shahin rappresenta una
minaccia alla sicurezza nazionale, e pertanto deve essere espulso dal paese.
Il decreto di espulsione è stato firmato
dal ministro dell’interno Piantedosi in persona. Il decreto segue un’interrogazione parlamentare promossa da Augusta Montaruli,
deputata torinese di Fratelli d’Italia, nella quale si chiedeva
l’allontanamento dell’imam in virtù della sua pericolosità. Secondo Montaruli
questa sarebbe evidenziata da alcune affermazioni in cui avrebbe giustificato
gli eventi del 7 ottobre 2023. Stando alla Corte d’Appello di Torino, che il 28
novembre ha convalidato il trattenimento dell’imam nel Cpr di Caltanissetta,
tali frasi possono esasperare tensioni sociali, al punto da costituire una
minaccia per la sicurezza della società italiana. “La tutela della libertà di
manifestazione del pensiero – scrive la giudice Maria Cristina Pagano nel
provvedimento citato dal Manifesto – ha sempre un limite non derogabile
nell’esigenza che attraverso il suo esercizio non vengano sacrificati beni
anch’essi voluti garantire dalla Costituzione e che tale deve ritenersi il
mantenimento dell’ordine pubblico”. E poco importa se la procura torinese
avesse già decretato, in seguito a una segnalazione diretta da parte della
Digos, che le parole dell’imam non costituissero una violazione del Codice
penale, archiviando il caso. Oltre a ciò, a riprova della sua
pericolosità, viene citata la sua partecipazione a un blocco stradale, avvenuto
nel corso di una manifestazione in solidarietà alla Palestina, il 17 maggio
2025; vengono sottolineati i suoi rapporti con Gabriele Ibrahim Delnevo,
ventitreenne genovese morto da “foreign fighter” in Siria, ed Elmahdi
Halili, condannato più volte per reati legati al terrorismo di matrice
islamica. Tuttavia, i “rapporti” contestati si limitano a un controllo
occasionale di polizia nel 2012 durante il quale Shahin si trovava assieme a
Delnevo, e a un’intercettazione telefonica del 2018, contestuale alle
indagini su Elmahdi, in cui quest’ultimo suggeriva a un conoscente di recarsi
alla moschea di Omar. Infine, va sottolineato che, almeno in un primo momento,
i fascicoli relativi ai reati citati nel decreto di espulsione erano stati
fatti passare per secretati, “in quanto concernente documentazione classificata
come riservata”. Così si legge nel decreto, e così è stato ribadito dalla
giudice della Corte D’Appello nelle motivazioni sulle quali basa la
decisione di non liberare l’imam. In virtù degli accordi tra Italia ed Egitto,
cui l’Italia attribuisce lo status di “paese sicuro”, le deportazioni verso
l’Egitto sono ormai una prassi consolidata e ben documentata: ogni mese parte da Roma, con scalo a
Palermo, un volo charter scortato dalle forze di polizia e diretto al Cairo.
Nei giorni successivi gli avvocati di
Shahin, Fairus Ahmed Jama e Gianluca Vitale, hanno presentato diversi ricorsi, e il 15 dicembre la Corte
d’Appello di Torino ha accolto il ricorso presentato contro il
trattenimento. Nelle prime ore del pomeriggio Shahin è stato quindi liberato.
Stando all’ordinanza che ne ha disposto la liberazione, firmata dal consigliere
Ludovico Morello, la nuova decisione segue l’acquisizione di nuovi importanti
elementi da parte della corte. Innanzitutto, i procedimenti penali
citati nel decreto di espulsione non risultano essere secretati. Al contrario,
il procedimento relativo alle frasi proferite era stato archiviato, e
dall’esame degli atti relativi al blocco stradale emerge una condotta non
connotata da alcuna violenza o da altri fattori indicativi di pericolosità. La
Corte sottolinea inoltre che le parole pronunciate il 9 ottobre, condivisibili
o meno, sono espressione di pensiero e non possono essere ritenute elemento
fondante il giudizio di pericolosità. In secondo luogo, viene riconosciuto il
“concreto e attivo impegno del trattenuto in ordine alla salvaguardia dei
valori su cui si fonda l’ordinamento dello Stato italiano”. In terzo luogo, si
rileva che i contatti con i soggetti condannati per apologia di terrorismo sono
isolati e datati. In quarto luogo, viene sottolineato che Shahin vive
in Italia da oltre vent’anni, durante i quali si perfettamente inserito nel
tessuto sociale del paese. In definitiva, non ci sono elementi per affermare
che Shahin sia attualmente pericoloso. Ciononostante, le prossime settimane
vedranno rapidamente succedersi diverse udienze: una al Tar del Lazio per la sospensione
del decreto di espulsione (22 dicembre); una alla Corte di Cassazione sul
trattenimento (9 gennaio); una al Tar Piemonte contro la revoca della carta di
soggiorno (14 gennaio). Resta ancora ignota la data dell’udienza del ricorso al
tribunale di Caltanisetta, contro il rigetto della domanda di protezione
internazionale, presentata da Shahin subito dopo l’inizio della detenzione.
PER RAGIONI DI SICUREZZA
La
possibilità che il ministro degli interni disponga l’espulsione amministrativa
di uno straniero per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza è presente
nell’ordinamento italiano da molto tempo. Se prima del ventennio numerose
leggi, regi decreti e regolamenti lasciavano ampia discrezionalità all’autorità
amministrativa, a partire dal 1931 l’espulsione degli stranieri viene regolata
dal Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, articolo 150), tutt’ora in parte vigente.
Sebbene il tema non sia affrontato nella prima riforma organica in materia di
immigrazione, la legge Foschi (legge 30 dicembre 1986, n. 943), la questione delle espulsioni viene
nuovamente affrontata dalla legge Martelli (legge 28 febbraio 1990, n. 39), che a distanza di anni verrà utilizzata
come base per il Testo Unico sull’immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286). Questo
rimane a oggi lo strumento normativo fondamentale sull’argomento, per quanto
soggetto a diversi “aggiustamenti”, come la legge Bossi-Fini del 2002 (decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286)
e il decreto Pisanu (decreto legge 27 luglio 2005, n. 144), che ha definito
le norme in materia di espulsioni degli
stranieri per motivi di prevenzione del terrorismo.
A oggi la questione dell’espulsione
amministrativa “per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato”
rimane quindi regolata al comma 1 nell’articolo 13 del Testo Unico
sull’immigrazione, lo stesso articolo che al comma 2 regola la disposizione
dei “normali” decreti di espulsione da parte dei prefetti nei confronti degli
stranieri privi di regolare permesso di soggiorno. L’ultimo intervento al
riguardo sono state le Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e
protezione internazionale (decreto legge ottobre 2023, n. 133), che però si limita a precisare le
modalità dell’espulsione nel caso di stranieri dotati di permesso di soggiorno
di lungo periodo (articolo 9). Nonostante il succedersi delle norme,
le motivazioni che permettono il ricorso al decreto di espulsione per ragioni
di sicurezza rimangono però estremamente generiche, il ricorso alla misura
ampiamente discrezionale, e molto complicate le possibilità di difesa. Infine,
essendoci in ballo la sicurezza nazionale, i fascicoli relativi ai reati su cui
sono basati i decreti possono essere secretati.
Se nel corso del secondo Novecento le
espulsioni motivate per ragioni di sicurezza sono state utilizzate soprattutto
per allontanare soggetti coinvolti in attività di spionaggio o legati alla
criminalità organizzata, nel corso degli anni Duemila queste sono spesso state
associate al terrorismo di matrice islamica. Secondo una ricostruzione fatta dal Post, tra il 2004 e
il 2014 il governo ha promosso una media di quattordici espulsioni all’anno.
Dal 2014 al 2017 sono state quarantaquattro all’anno, per arrivare a cento nel
2018, settantuno nel 2019 e sessantuno tra luglio 2021 e agosto 2022. Stando
all’ultimo rapporto pubblicato dal Viminale, sono 203 le persone rimpatriate per
motivi di sicurezza da ottobre 2022 a luglio 2025, su
un totale di 1.755 rimpatri tra gennaio 2023 e luglio 2025. Sebbene
i periodi cui si riferiscono i dati sulle espulsioni per pubblica sicurezza e
le espulsioni totali non collimino del tutto, è chiaro che si tratta di una
crescita esponenziale. Questi numeri sono sintomatici di una nuova
funzione assunta dalla macchina delle espulsioni: nel nome della sicurezza,
i Cpr stanno venendo sistematicamente utilizzati per detenere
ed espellere oppositori politici.
Nel contesto italiano alcune vicende
simili a quella di Shahin hanno goduto di attenzione mediatica. Il più noto è
probabilmente il caso di Seif Bensouibat, l’insegnante algerino accusato di aver
espresso supporto ad Hamas in una chat privata, al quale, nel febbraio del
2024, è stato revocato lo status di rifugiato. Dopo aver rischiato l’espulsione
dal Cpr di Ponte Galeria, lo status di Seif è stato però nuovamente
riconosciuto nel novembre 2024. Zulfiqar Khan, cittadino pachistano da quasi trent’anni in Italia e
imam di un centro islamico di Bologna, è stato invece espulso
nell’ottobre 2024 dopo essere stato indagato per istigazione a delinquere per
le sue posizioni su Israele.
La detenzione di soggetti ritenuti
pericolosi all’interno dei Cpr non è però sempre conseguenza di un decreto di
espulsione per ragioni di sicurezza, come reso evidente dal caso di Halili Elmahdi, la stessa persona le cui intercettazioni
sono stata utilizzate per giustificare la detenzione di Shahin. Cittadino
italiano di origini marocchine, Elmahdi è stato condannato più volte per reati
legati al terrorismo di matrice islamica, la prima volta appena ventenne. Nel
2023 viene privato della cittadinanza, una misura resa possibile dal decreto
sicurezza varato da Salvini nel 2018 con il supporto dell’allora capo di
gabinetto del Viminale Matteo Piantedosi (decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113), e una volta finito di scontare la sua
seconda condanna viene trattenuto in un Cpr, nonostante sia nato e cresciuto in
Italia, allo scopo di venire espulso in Marocco. Sebbene il rimpatrio non sia
stato eseguito, al momento del rilascio Elmahdi entra in una condizione di
estrema marginalità, vivendo da senzatetto nelle strade di Torino, per venire nuovamente arrestato per associazione
terroristica internazionale nel maggio 2024 e infine liberato nel luglio 2025, una
volta escluso il reato di terrorismo.
L’aumento delle detenzioni nei Cpr per
ragioni di sicurezza procede parallelo all’aumento dei cittadini stranieri
detenuti nelle più classiche prigioni per reati politici. Emblematici il caso
del palestinese Anan Yaeesh, detenuto nel carcere dell’Aquila da
gennaio e a rischio di estradizione verso Israele, ma anche quelli di Alì Irar
e Mansour Doghmosh, tutti incarcerati in Italia con accuse di terrorismo (270 bis del codice penale), in seguito a mandati di cattura
italo-israeliani. Molto grave anche il caso di Tarek, condannato a quattro anni per resistenza
aggravata dopo essere stato arrestato a Roma durante una manifestazione in solidarietà
alla Palestina, il 5 ottobre 2024.
Guardando al contesto internazionale, ma
limitando l’analisi ai casi che hanno ottenuto un certo grado di visibilità
mediatica, negli ultimi due anni ci sono stati numerosi casi di espulsioni
giustificate per ragioni di sicurezza. A New York, oltre settanta studenti della Columbia
University coinvolti nel movimento in solidarietà alla Palestina sono stati
oggetto di un ampio insieme di provvedimenti, tra cui diversi tentativi di
allontanamento, come nei casi di Mahmoud Khalil, arrestato nel marzo 2025, di
Ranjani Srinivasan, cui è stato revocato il suo visto, e di Lequaa Kordia,
studentessa palestinese originaria di West Bank, arrestata per un visto
scaduto. A Berlino, ad aprile 2025, i cittadini europei
Shane O’Brien, Roberta Murray e Kasia Wlaszczyk e lo statunitense Cooper
Longbottom hanno ricevuto un’ordinanza di espulsione per paventate minacce alla
sicurezza, anche nel loro caso motivate della loro partecipazione al movimento
di solidarietà alla Palestina. Il 14 maggio 2024, ad Atene, la polizia greca ha arrestato ventotto
persone durante lo sgombero della facoltà di Giurisprudenza, occupata in
solidarietà con la Palestina: nove attivisti internazionali, tra cui due
cittadine italiane, sono stati prima trasferiti all’interno di un centro di
detenzione e dopo una reclusione di alcune settimane sono stati tutti liberati
e attendono ancora oggi la conclusione dei procedimenti a proprio carico. Solo
uno di loro, dopo essere stato nuovamente arrestato l’estate successiva, verrà
infine espulso.
La pratica dell’espulsione per motivi di
sicurezza non è tuttavia limitata a coloro che hanno espresso solidarietà con
la causa palestinese, ma è utilizzata anche per colpire i rifugiati politici. È il caso di Baris Erkus, rifugiato politico curdo in Grecia da
otto anni dopo aver lasciato la Turchia, il cui status di protezione
internazionale è in corso di riesame, oppure, sempre in fuga dalla Turchia, di Abdulrahman AlBakr al-Khalidi, attivista saudita per i diritti umani in
detenzione amministrativa da quattro anni nella vicina Bulgaria, segnando il
cupo record della più lunga detenzione amministrativa in Europa.
Già in esilio in Turchia dal 2013,
Abdulrahaman era stato nuovamente costretto a lasciare il paese dove aveva
trovato rifugio dopo il rapimento del suo amico e collaboratore Jamal Khashoggi, assassinato all’interno del consolato
saudita di Istanbul nell’ottobre 2018. Dopo quattro anni di detenzione, il
fascicolo che proverebbe la sua pericolosità rimane ancora secretato.
Infine, l’8 dicembre 2025 il Consiglio
dell’Unione europea ha siglato un nuovo accordo al fine di standardizzare la
politica delle espulsioni per i cosiddetti “cittadini di paesi terzi”,
prevedendo “misure speciali per le persone che rappresentano un rischio per la
sicurezza”. In linea con il nuovo Patto sulle Migrazioni e l’Asilo, operativo da giugno 2026, l’Unione
arricchisce il diritto comunitario con le “buone pratiche” sperimentate dai
propri paesi membri.
CONCLUSIONI
Questa
rapida panoramica mette in evidenza due elementi. In primo luogo, sembra che i
provvedimenti di espulsione prendano di mira alternativamente cittadini
provenienti dal sud globale o cittadini occidentali che abbiano preso parte ai
movimenti in solidarietà alla Palestina. L’impressione è che questi abbiano
oltrepassato un limite invalicabile, superato il quale i privilegi accordati
dalla condizione di cittadini occidentali vengono revocati. In secondo luogo,
buona parte dei casi che hanno ottenuto una qualche visibilità mediatica
riguardano studenti universitari o cittadini occidentali, fornendo un’immagine
distorta di un processo che – in assenza di dati ufficiali, eccetto quelli
relativi al caso italiano – possiamo ipotizzare interessi in larga parte
stranieri in condizione di marginalità.
Per quanto riguarda l’Italia possiamo
invece osservare la configurazione di due binari, l’uno amministrativo e
l’altro penale, dei quali gli organi repressivi possono servirsi quando
intendono procedere alla detenzione o all’espulsione di coloro che sono
etichettati come una minaccia per la sicurezza, propria o dei propri alleati.
Ciò che appare evidente è che ovunque i centri di detenzione amministrativa
stanno assumendo sempre più la funzione di campi di concentramento per
oppositori politici, mettendo nelle stesse celle presunti militanti jihadisti,
attivisti per i diritti umani, ex combattenti, professori, figure religiose,
attivisti pro-pal.
Quel che è successo a Shahin non è
un’eccezione. L’evento eccezionale, piuttosto, è che opinione pubblica, media e
movimenti si siano accorti di quanto accaduto. Se questo isolamento si è rotto
lo dobbiamo alla forza della solidarietà nata in seno al movimento per la
Palestina, che ha portato per la prima volta migliaia di cittadini italiani a
mobilitarsi in difesa di un imam a dispetto dell’accusa di fiancheggiamento al
terrorismo. Non c’è dubbio che senza la rumorosa campagna per la sua immediata
liberazione, e senza la difesa di due legali esperti e immediatamente
disponibili, la vicenda di Shahin sarebbe potuta evolvere
molto diversamente. La mossa di Piantedosi non va quindi letta
come un evento isolato. Arbitrarietà, forzature e complicità tra apparati
esecutivi e amministrativi sono la regola. Il risultato della partita che
rimane da giocare, in ambito giudiziario, dipende in larga misura dalla possibilità
di mobilitare risorse e solidarietà su cui non molti stranieri possono contare.
L’eccezione è la regola, lo è sempre stata, nel governo “dell’emergenza
migranti”. Dentro lo stato democratico, vive un altro stato: lo stato degli
stranieri e dei senza cittadinanza, fatto di leggi e burocrazie autonome, di
prassi arbitrarie e di spazi al di fuori del diritto, retti dalla legge della
forza. Lo si trova alle frontiere, dentro le mura dei Cpr, negli
uffici immigrazione e nelle “zone rosse” pattugliate da polizia e militari che
fanno pendere ogni giorno sui cittadini stranieri la minaccia dell’espulsione e
il ricatto dei documenti. Lo si trova nelle campagne, dove il bracciantato
migrante vive nella segregazione, e nell’economia sommersa delle metropoli e dei
distretti industriali. Questo stato di cittadini senza cittadinanza, su cui
sempre volteggia il sospetto, è la colonia. Quella colonia che ha convissuto e
continua a convivere con i regimi liberali, spesso usando la democrazia stessa
come legittimazione del progetto coloniale. Un nuovo regime di apartheid si sta
consolidando, ai confini d’Europa e al loro interno, e ovunque i centri di
detenzione ed espulsione assumono sempre più la funzione di campi di prigionia
per quei cittadini senza cittadinanza che osano dimostrare il proprio dissenso.
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