Dopo gli anni ’80, il neoliberismo classico ha promosso il mito dello Stato minimo e, su questo mito, ha sostenuto un progetto di economia globale capitalista portato avanti sulla base di due direttrici principali: la deregolazione e la delocalizzazione (affiancate dalla finanziarizzazione dell’economia). Fin da subito, il sistema di istruzione ha iniziato a conoscere, sulla scorta delle indicazioni provenienti dall’OCSE, un processo di torsione verso un modello di quasi-mercato (già sperimentato nel Regno Unito), diretto a cooptare scuola e università all’interno di quel progetto utopico (e ora sappiamo velleitario) di economia della conoscenza, grazie al quale l’Europa sarebbe diventata la società e l’economia più avanzata del pianeta (oggi abbiamo sotto gli occhi l’esito di questa patetica hybris eurocentrica). In realtà, come mostrato da Jessop e Crouch, lo Stato non si è ritirato, ma si è riconfigurato come Stato regolatore, capace di governare il mercato con strumenti di mercato. In Europa, questa logica si è istituzionalizzata e lo Stato (e, soprattutto, quella forma di super-io dello Stato che è la Commissione Europea), avendo rinunciato a pianificare direttamente la produzione o la distribuzione, opera definendo cornici, regole e risorse finanziarie entro le quali gli attori devono competere per ottenere fondi pubblici.
La torsione
neoliberale del sistema educativo italiano ha preso la forma di una
competizione a tutti i livelli, audit permanente, logiche di scelta e di
mercato, managerializzazione dei dirigenti, retorica della “performance”
individuale. Questo dispositivo ha prodotto disuguaglianze strutturali, ansia
sociale e una progressiva perdita di senso del lavoro docente. I sistemi di
qualità, accountability e accreditamento appaiono chiaramente come sistemi di
controllo morale e di mobilitazione politica (vedi Pitzalis, 2016) che hanno costruito
burocrazie parallele in grado di assorbire e distribuire ingenti risorse
economiche, simboliche e di potere.
La
competizione regolata nello Stato neoliberale prometteva attenzione ai processi
e ai risultati, e quindi distribuzione di responsabilità e incentivo
dell’autonomia. Ho scritto altrove come quest’autonomia nella scuola e
nell’università sia stata una falsa promessa e si sia tradotta in forme di
centralismo deresponsabilizzato e depoliticizzato. Un centralismo che dà le
soluzioni, indica gli obiettivi, ma non si prende mai la responsabilità dei
fallimenti. Questi cadono sempre sui “militi ignoti” della scuola e
dell’università, coloro che al fronte fanno le cose nonostante il continuo
lavoro di distrazione (di fondi, di attenzione, di finalità concrete) derivante
dalle policy dell’istruzione. Questo modello sopravvive oggi alla crisi del
progetto neoliberale che lo ha generato.
La crisi del modello neoliberale è iniziata in realtà con l’anno 2000 (con il
crollo delle borse e la bolla speculativa), ma ci sono voluti otto anni perché
il mondo prendesse coscienza del fatto che il capitalismo neoliberale aveva
costruito le condizioni di una crisi economica, finanziaria e geopolitica
difficilmente districabile e della quale gli economisti non avevano previsto né
esiti né vie di uscita («Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno
dei cieli»).
La crisi del
2008 fu ancora più drammatica e rese necessario – prima negli USA di Obama e
poi nell’Europa guidata da Draghi – un ritorno dell’intervento pubblico. Il
famoso “Whatever it takes” di Draghi rappresenta infatti un rovesciamento del
dogma neoliberale. Alla mano invisibile del mercato, che aveva preso a schiaffi
i piccoli risparmiatori e poi gli stessi banchieri, andavano messe le manette.
Questa crisi, le cui conseguenze furono molto dure per paesi come l’Italia (che
paghiamo in termini di mancati scatti stipendiali e di perdita di reddito), ha
prodotto però un cambiamento che abbiamo ancora difficoltà ad afferrare perché
stiamo dando la caccia al fantasma di un progetto politico ed economico oramai
morto.
La crisi del
neoliberismo ha prodotto i suoi mostri, cioè la conversione di una parte delle
vecchie élite neoliberali a un paradigma reazionario, moralistico e
nazionalistico, riesumato senza passare da una critica seria degli effetti
perversi della globalizzazione neoliberale, della finanziarizzazione dei
mercati, della crisi del welfare state e della precarizzazione del lavoro.
Anzi, questi elementi permangono, rafforzati da una logica del controllo e da
un ulteriore indebolimento delle democrazie parlamentari. La svolta reazionaria
delle vecchie élite neoliberali, in tutto il mondo, fa emergere rigurgiti
moralistici, sessisti, nazionalisti (cripto-razzisti, neo-coloniali e
militaristi) delle classi dirigenti occidentali.
Nel sistema
di istruzione questa svolta emerge chiaramente nelle linee guida 2025 per la
scuola primaria, per esempio, con l’esaltazione di una figura docente definita
come “magister” e con quelle retoriche centrate sulla tradizione e sulla
trasmissione verticale dei saperi. A questo rinforzarsi dell’eteronomia
scolastica si aggiunge il progressivo restringimento dell’autonomia delle
università. Questa prende forma nella bozza di riforma Bernini, dove emerge un
rafforzamento del controllo governativo diretto sui CdA delle università e sui
processi di indirizzo. Un nuovo paradigma si sta dunque consolidando e possiamo
definirlo post-liberale, neo-centralistico, iper-normativo.
Tuttavia, questo ritorno all’ordine è velleitario. Non perché sia impossibile
rafforzare la dimensione trasmissiva della scuola, ma perché il contesto nel
quale tenta di affermarsi è radicalmente mutato. La scuola reale e la nostra
esperienza di docenti sono caratterizzate profondamente dalle esperienze della
piattaformizzazione, della frammentazione cognitiva, della crisi del futuro. Le
piattaforme educative e amministrative ridefiniscono tempi, pratiche e metriche
del lavoro docente; inoltre, la scuola, da tempo, non ha più il monopolio
simbolico della trasmissione dei saperi. Altri dispositivi – social media,
influencer educativi, micro-contenuti e, soprattutto, l’intelligenza
artificiale – producono gerarchie di legittimità con cui l’insegnante deve
oggettivamente competere. L’orizzonte temporale è percepito come precario e
questo senso di crisi è acuito dalle incertezze che assediano il presente.
Dunque, la crisi di autorevolezza delle istituzioni educative (il grande
cruccio e feticcio dei reazionari) non può essere superata ripristinando
l’autorità per decreto. L’autorevolezza delle istituzioni può essere costruita
solo attraverso pratiche di senso condivise.
In questo
scenario, il ritorno del “magister” rischia di essere soltanto una mera
retorica identitaria, una risposta nostalgica davanti a trasformazioni che sono
strutturali (digitali, economiche, cognitive). Tra le righe emerge una
confusione tra autorità e autoritarismo, e l’illusione senile di poter
ricostruire la prima invocando il secondo.
Sul piano
universitario, l’accentramento politico della governance non intercetta la
mutazione del campo transnazionale. La ricerca e la didattica sono già
incorporate in logiche globali di piattaforma, nelle metriche dei ranking,
nella competizione per fondi europei. Governare “a monte” non ricostruisce
autonomia “a valle”, ma la rende ancora più debole. In tutto questo, la
passività degli atenei in questi processi è però il dato più sconfortante.
Sullo sfondo
troviamo dunque l’equivoco che si possa rispondere alla crisi neoliberale della
scuola e dell’università con un ritorno centralista anziché con una
ridefinizione della sua missione pubblica. La crisi attuale, infatti, non è
legata a un eccesso di autonomia, ma a un modello che ha dissolto i legami,
precarizzato gli attori, mercificato i processi.
Il nodo è
dunque un altro: scuola e università hanno bisogno di riconoscersi prima di
tutto come comunità educanti, non come sistemi gerarchici finalizzati alla
produzione di outcome misurabili. Alla crisi del futuro occorre rispondere con
una rinnovata capacità di progettazione culturale, e non con una maggiore
sorveglianza amministrativa. In particolare, come ho scritto altrove, scuola e
università abbisognano di professionalità riflessive, non di docenti-funzionari
ridotti a funzionari della rendicontazione e dell’accreditamento.
Il paradigma
che si sta affacciando, a metà tra nostalgie autoritarie e retoriche
dell’ordine, non è una soluzione, ma una reazione senile, scomposta e
disperata. Nasce dall’ignoranza di ciò che la scuola neoliberale ha già
prodotto nella scuola e nell’università reali, imponendo una logica di governance
algoritmica che ha spostato il potere dalle istituzioni agli standard tecnici.
Oggi non è
pensabile che si possa restaurare il passato, però possiamo immaginare una
scuola capace di produrre competenze critiche sulle piattaforme, costruire
comunità professionali, progettare autonomia come capacità collettiva, generare
sapere pubblico in modo democratico.
Se il neoliberismo ha dissolto i legami, il post-liberalismo nostalgico rischia
di irrigidirli senza ricostruirli.
Occorre opporre a questo movimento reazionario un paradigma comunitario e
cooperativo, fondato su fiducia, ricerca e cura educativa.
Il progetto
di un avvenire sostenibile e inclusivo non ha più bisogno di dirigenti
scolastici e rettori universitari che governino sulla base di una logica economica,
ma che abbiano come missione la cura dell’istituzione come bene comune. Questo
avvenire non chiede un insegnante-magister che impartisca un sapere
sclerotizzato dall’alto, ma un insegnante-intellettuale che costruisca senso
nel cambiamento. Il resto è fumo ideologico, che aggiungerà un senso di
ridicolo alla tragedia della crisi del neoliberismo.
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