lunedì 29 dicembre 2025

L’ora triste dell’istruzione post-liberale - Marco Pitzalis

Dopo gli anni ’80, il neoliberismo classico ha promosso il mito dello Stato minimo e, su questo mito, ha sostenuto un progetto di economia globale capitalista portato avanti sulla base di due direttrici principali: la deregolazione e la delocalizzazione (affiancate dalla finanziarizzazione dell’economia). Fin da subito, il sistema di istruzione ha iniziato a conoscere, sulla scorta delle indicazioni provenienti dall’OCSE, un processo di torsione verso un modello di quasi-mercato (già sperimentato nel Regno Unito), diretto a cooptare scuola e università all’interno di quel progetto utopico (e ora sappiamo velleitario) di economia della conoscenza, grazie al quale l’Europa sarebbe diventata la società e l’economia più avanzata del pianeta (oggi abbiamo sotto gli occhi l’esito di questa patetica hybris eurocentrica). In realtà, come mostrato da Jessop e Crouch, lo Stato non si è ritirato, ma si è riconfigurato come Stato regolatore, capace di governare il mercato con strumenti di mercato. In Europa, questa logica si è istituzionalizzata e lo Stato (e, soprattutto, quella forma di super-io dello Stato che è la Commissione Europea), avendo rinunciato a pianificare direttamente la produzione o la distribuzione, opera definendo cornici, regole e risorse finanziarie entro le quali gli attori devono competere per ottenere fondi pubblici. 

La torsione neoliberale del sistema educativo italiano ha preso la forma di una competizione a tutti i livelli, audit permanente, logiche di scelta e di mercato, managerializzazione dei dirigenti, retorica della “performance” individuale. Questo dispositivo ha prodotto disuguaglianze strutturali, ansia sociale e una progressiva perdita di senso del lavoro docente. I sistemi di qualità, accountability e accreditamento appaiono chiaramente come sistemi di controllo morale e di mobilitazione politica (vedi Pitzalis, 2016) che hanno costruito burocrazie parallele in grado di assorbire e distribuire ingenti risorse economiche, simboliche e di potere.

La competizione regolata nello Stato neoliberale prometteva attenzione ai processi e ai risultati, e quindi distribuzione di responsabilità e incentivo dell’autonomia. Ho scritto altrove come quest’autonomia nella scuola e nell’università sia stata una falsa promessa e si sia tradotta in forme di centralismo deresponsabilizzato e depoliticizzato. Un centralismo che dà le soluzioni, indica gli obiettivi, ma non si prende mai la responsabilità dei fallimenti. Questi cadono sempre sui “militi ignoti” della scuola e dell’università, coloro che al fronte fanno le cose nonostante il continuo lavoro di distrazione (di fondi, di attenzione, di finalità concrete) derivante dalle policy dell’istruzione. Questo modello sopravvive oggi alla crisi del progetto neoliberale che lo ha generato.
La crisi del modello neoliberale è iniziata in realtà con l’anno 2000 (con il crollo delle borse e la bolla speculativa), ma ci sono voluti otto anni perché il mondo prendesse coscienza del fatto che il capitalismo neoliberale aveva costruito le condizioni di una crisi economica, finanziaria e geopolitica difficilmente districabile e della quale gli economisti non avevano previsto né esiti né vie di uscita («Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli»).

La crisi del 2008 fu ancora più drammatica e rese necessario – prima negli USA di Obama e poi nell’Europa guidata da Draghi – un ritorno dell’intervento pubblico. Il famoso “Whatever it takes” di Draghi rappresenta infatti un rovesciamento del dogma neoliberale. Alla mano invisibile del mercato, che aveva preso a schiaffi i piccoli risparmiatori e poi gli stessi banchieri, andavano messe le manette.
Questa crisi, le cui conseguenze furono molto dure per paesi come l’Italia (che paghiamo in termini di mancati scatti stipendiali e di perdita di reddito), ha prodotto però un cambiamento che abbiamo ancora difficoltà ad afferrare perché stiamo dando la caccia al fantasma di un progetto politico ed economico oramai morto.

La crisi del neoliberismo ha prodotto i suoi mostri, cioè la conversione di una parte delle vecchie élite neoliberali a un paradigma reazionario, moralistico e nazionalistico, riesumato senza passare da una critica seria degli effetti perversi della globalizzazione neoliberale, della finanziarizzazione dei mercati, della crisi del welfare state e della precarizzazione del lavoro. Anzi, questi elementi permangono, rafforzati da una logica del controllo e da un ulteriore indebolimento delle democrazie parlamentari. La svolta reazionaria delle vecchie élite neoliberali, in tutto il mondo, fa emergere rigurgiti moralistici, sessisti, nazionalisti (cripto-razzisti, neo-coloniali e militaristi) delle classi dirigenti occidentali.

Nel sistema di istruzione questa svolta emerge chiaramente nelle linee guida 2025 per la scuola primaria, per esempio, con l’esaltazione di una figura docente definita come “magister” e con quelle retoriche centrate sulla tradizione e sulla trasmissione verticale dei saperi. A questo rinforzarsi dell’eteronomia scolastica si aggiunge il progressivo restringimento dell’autonomia delle università. Questa prende forma nella bozza di riforma Bernini, dove emerge un rafforzamento del controllo governativo diretto sui CdA delle università e sui processi di indirizzo. Un nuovo paradigma si sta dunque consolidando e possiamo definirlo post-liberale, neo-centralistico, iper-normativo.
Tuttavia, questo ritorno all’ordine è velleitario. Non perché sia impossibile rafforzare la dimensione trasmissiva della scuola, ma perché il contesto nel quale tenta di affermarsi è radicalmente mutato. La scuola reale e la nostra esperienza di docenti sono caratterizzate profondamente dalle esperienze della piattaformizzazione, della frammentazione cognitiva, della crisi del futuro. Le piattaforme educative e amministrative ridefiniscono tempi, pratiche e metriche del lavoro docente; inoltre, la scuola, da tempo, non ha più il monopolio simbolico della trasmissione dei saperi. Altri dispositivi – social media, influencer educativi, micro-contenuti e, soprattutto, l’intelligenza artificiale – producono gerarchie di legittimità con cui l’insegnante deve oggettivamente competere. L’orizzonte temporale è percepito come precario e questo senso di crisi è acuito dalle incertezze che assediano il presente. Dunque, la crisi di autorevolezza delle istituzioni educative (il grande cruccio e feticcio dei reazionari) non può essere superata ripristinando l’autorità per decreto. L’autorevolezza delle istituzioni può essere costruita solo attraverso pratiche di senso condivise.

In questo scenario, il ritorno del “magister” rischia di essere soltanto una mera retorica identitaria, una risposta nostalgica davanti a trasformazioni che sono strutturali (digitali, economiche, cognitive). Tra le righe emerge una confusione tra autorità e autoritarismo, e l’illusione senile di poter ricostruire la prima invocando il secondo.

Sul piano universitario, l’accentramento politico della governance non intercetta la mutazione del campo transnazionale. La ricerca e la didattica sono già incorporate in logiche globali di piattaforma, nelle metriche dei ranking, nella competizione per fondi europei. Governare “a monte” non ricostruisce autonomia “a valle”, ma la rende ancora più debole. In tutto questo, la passività degli atenei in questi processi è però il dato più sconfortante.

Sullo sfondo troviamo dunque l’equivoco che si possa rispondere alla crisi neoliberale della scuola e dell’università con un ritorno centralista anziché con una ridefinizione della sua missione pubblica. La crisi attuale, infatti, non è legata a un eccesso di autonomia, ma a un modello che ha dissolto i legami, precarizzato gli attori, mercificato i processi.

Il nodo è dunque un altro: scuola e università hanno bisogno di riconoscersi prima di tutto come comunità educanti, non come sistemi gerarchici finalizzati alla produzione di outcome misurabili. Alla crisi del futuro occorre rispondere con una rinnovata capacità di progettazione culturale, e non con una maggiore sorveglianza amministrativa. In particolare, come ho scritto altrove, scuola e università abbisognano di professionalità riflessive, non di docenti-funzionari ridotti a funzionari della rendicontazione e dell’accreditamento.

Il paradigma che si sta affacciando, a metà tra nostalgie autoritarie e retoriche dell’ordine, non è una soluzione, ma una reazione senile, scomposta e disperata. Nasce dall’ignoranza di ciò che la scuola neoliberale ha già prodotto nella scuola e nell’università reali, imponendo una logica di governance algoritmica che ha spostato il potere dalle istituzioni agli standard tecnici.

Oggi non è pensabile che si possa restaurare il passato, però possiamo immaginare una scuola capace di produrre competenze critiche sulle piattaforme, costruire comunità professionali, progettare autonomia come capacità collettiva, generare sapere pubblico in modo democratico.
Se il neoliberismo ha dissolto i legami, il post-liberalismo nostalgico rischia di irrigidirli senza ricostruirli.
Occorre opporre a questo movimento reazionario un paradigma comunitario e cooperativo, fondato su fiducia, ricerca e cura educativa.

Il progetto di un avvenire sostenibile e inclusivo non ha più bisogno di dirigenti scolastici e rettori universitari che governino sulla base di una logica economica, ma che abbiano come missione la cura dell’istituzione come bene comune. Questo avvenire non chiede un insegnante-magister che impartisca un sapere sclerotizzato dall’alto, ma un insegnante-intellettuale che costruisca senso nel cambiamento. Il resto è fumo ideologico, che aggiungerà un senso di ridicolo alla tragedia della crisi del neoliberismo.

da qui

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