È morto un giovane migrante algerino in un
magazzino abbandonato del Porto Vecchio di Trieste. È morto mentre, poche ore
prima, era iniziato l’ennesimo sgombero dei luoghi dove da mesi — in realtà, da
anni — vivono uomini rimasti fuori da ogni sistema di accoglienza. È morto nel
silenzio, nel freddo, nel vuoto. E ancora una volta, a Trieste, la linea tra
vita e invisibilità si è spezzata senza che nessuno intervenisse in tempo.
Quest’uomo era una delle tante persone arrivate in città attraverso la rotta
balcanica: chilometri a piedi, respingimenti illegali, notti nei boschi,
violenze lungo i confini. Chi arriva a Trieste è spesso esausto, ferito,
traumatizzato. Eppure la prima accoglienza reale non è garantita dalle
istituzioni, ma da associazioni e volontari come Linea d’Ombra, che da anni
cura ferite, distribuisce scarpe, ascolta storie di sopravvivenza. Una realtà
che la politica ha spesso ostacolato, accusato, minacciato — anziché
sostenerla.
I magazzini del Porto Vecchio sono
diventati rifugio per chi non ha altro. Luoghi in cui si ripara il corpo ma non
la dignità: coperte sporche, freddo, assenza di servizi, buio. Edifici che nessuno
cura, che si riempiono di vite sospese nel tentativo di restare vivi. È qui che
lui ha trascorso le ultime ore della sua vita. Mentre fuori, la città accendeva
le luci di Natale. Lo sgombero era in corso: forze dell’ordine, protezione
civile, identificazioni in massa, trasferimenti improvvisi. La macchina
amministrativa si era messa in moto, ma non per garantire diritti: per
“liberare” un’area. E proprio in questo contesto, nel pieno dell’operazione,
qualcuno è rimasto indietro. Solo. Invisibile. Non sappiamo se sia morto di
freddo, di stanchezza o di una condizione medica mai curata. Sappiamo però che
non aveva un posto dove stare. Questo basta.
Non è sufficiente dire che non c’erano
segni di violenza. Perché la violenza, qui, non è un colpo o una ferita. È
l’abbandono. È un sistema che decide che alcuni esseri umani non avranno un
letto, un tetto, una cura, una possibilità. È un’idea di società in cui chi è
migrante senza documenti può essere lasciato dormire in un capannone senza
riscaldamento, mentre l’amministrazione cittadina si preoccupa più del decoro
che delle persone.
La politica, tutta — dal livello nazionale
a quello locale — continua a trattare l’accoglienza come un disturbo, non come
un dovere costituzionale. Continua a parlare di ordine pubblico invece che di
diritti. Continua a organizzare sgomberi senza alternative immediate, come se
bastasse spostare un problema per risolverlo. Ma il problema non viene
spostato: viene aggravato. Fino a diventare tragedia. L’articolo 2 della
Costituzione parla di diritti inviolabili dell’uomo. L’articolo 3 impone di
rimuovere gli ostacoli che limitano la dignità. L’articolo 10 garantisce il
diritto d’asilo. L’articolo 32 tutela la salute. Tutto questo è stato negato a
un giovane che, come tanti, aveva affrontato un viaggio durissimo per salvarsi
la vita. Era arrivato in Italia nella speranza di essere protetto. Invece ha
trovato una porta chiusa dopo l’altra, fino all’ultima: quella di un magazzino
freddo dove il suo corpo è stato scoperto da un connazionale. Questa morte non
è “un incidente”. Non è “fatalità”. È la conseguenza diretta di una politica
che esclude, di istituzioni che non garantiscono diritti, di un sistema che
considera alcune vite sacrificabili. È una responsabilità che ricade su chi
governa, su chi amministra, su chi sceglie di ignorare invece di intervenire.
Raccontare ciò che è accaduto significa
restituire dignità a un uomo che non l’ha avuta in vita. Significa ricordare
che in Italia si può morire di emarginazione. Significa dire chiaramente che
finché non cambierà il modo in cui trattiamo gli ultimi, finché continueremo a
confondere sicurezza con repressione e accoglienza con debolezza, finché il
diritto rimarrà una parola svuotata, tragedie come questa non saranno eccezioni
ma conseguenze.
E allora questa morte deve interrogarci.
Deve farci vergognare. Deve spingerci a pretendere che lo Stato rispetti la
Costituzione che dice di servire. Deve farci dire, senza più paura e senza più
giri di parole, che nessuno dovrebbe morire così.
Nessuno.
Mai più.
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