domenica 7 dicembre 2025

Trieste, dove si può morire di emarginazione - Alekos Prete


È morto un giovane migrante algerino in un magazzino abbandonato del Porto Vecchio di Trieste. È morto mentre, poche ore prima, era iniziato l’ennesimo sgombero dei luoghi dove da mesi — in realtà, da anni — vivono uomini rimasti fuori da ogni sistema di accoglienza. È morto nel silenzio, nel freddo, nel vuoto. E ancora una volta, a Trieste, la linea tra vita e invisibilità si è spezzata senza che nessuno intervenisse in tempo. Quest’uomo era una delle tante persone arrivate in città attraverso la rotta balcanica: chilometri a piedi, respingimenti illegali, notti nei boschi, violenze lungo i confini. Chi arriva a Trieste è spesso esausto, ferito, traumatizzato. Eppure la prima accoglienza reale non è garantita dalle istituzioni, ma da associazioni e volontari come Linea d’Ombra, che da anni cura ferite, distribuisce scarpe, ascolta storie di sopravvivenza. Una realtà che la politica ha spesso ostacolato, accusato, minacciato — anziché sostenerla.

I magazzini del Porto Vecchio sono diventati rifugio per chi non ha altro. Luoghi in cui si ripara il corpo ma non la dignità: coperte sporche, freddo, assenza di servizi, buio. Edifici che nessuno cura, che si riempiono di vite sospese nel tentativo di restare vivi. È qui che lui ha trascorso le ultime ore della sua vita. Mentre fuori, la città accendeva le luci di Natale. Lo sgombero era in corso: forze dell’ordine, protezione civile, identificazioni in massa, trasferimenti improvvisi. La macchina amministrativa si era messa in moto, ma non per garantire diritti: per “liberare” un’area. E proprio in questo contesto, nel pieno dell’operazione, qualcuno è rimasto indietro. Solo. Invisibile. Non sappiamo se sia morto di freddo, di stanchezza o di una condizione medica mai curata. Sappiamo però che non aveva un posto dove stare. Questo basta.

Non è sufficiente dire che non c’erano segni di violenza. Perché la violenza, qui, non è un colpo o una ferita. È l’abbandono. È un sistema che decide che alcuni esseri umani non avranno un letto, un tetto, una cura, una possibilità. È un’idea di società in cui chi è migrante senza documenti può essere lasciato dormire in un capannone senza riscaldamento, mentre l’amministrazione cittadina si preoccupa più del decoro che delle persone.

La politica, tutta — dal livello nazionale a quello locale — continua a trattare l’accoglienza come un disturbo, non come un dovere costituzionale. Continua a parlare di ordine pubblico invece che di diritti. Continua a organizzare sgomberi senza alternative immediate, come se bastasse spostare un problema per risolverlo. Ma il problema non viene spostato: viene aggravato. Fino a diventare tragedia. L’articolo 2 della Costituzione parla di diritti inviolabili dell’uomo. L’articolo 3 impone di rimuovere gli ostacoli che limitano la dignità. L’articolo 10 garantisce il diritto d’asilo. L’articolo 32 tutela la salute. Tutto questo è stato negato a un giovane che, come tanti, aveva affrontato un viaggio durissimo per salvarsi la vita. Era arrivato in Italia nella speranza di essere protetto. Invece ha trovato una porta chiusa dopo l’altra, fino all’ultima: quella di un magazzino freddo dove il suo corpo è stato scoperto da un connazionale. Questa morte non è “un incidente”. Non è “fatalità”. È la conseguenza diretta di una politica che esclude, di istituzioni che non garantiscono diritti, di un sistema che considera alcune vite sacrificabili. È una responsabilità che ricade su chi governa, su chi amministra, su chi sceglie di ignorare invece di intervenire.

Raccontare ciò che è accaduto significa restituire dignità a un uomo che non l’ha avuta in vita. Significa ricordare che in Italia si può morire di emarginazione. Significa dire chiaramente che finché non cambierà il modo in cui trattiamo gli ultimi, finché continueremo a confondere sicurezza con repressione e accoglienza con debolezza, finché il diritto rimarrà una parola svuotata, tragedie come questa non saranno eccezioni ma conseguenze.

E allora questa morte deve interrogarci. Deve farci vergognare. Deve spingerci a pretendere che lo Stato rispetti la Costituzione che dice di servire. Deve farci dire, senza più paura e senza più giri di parole, che nessuno dovrebbe morire così.

Nessuno.

Mai più.

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