sabato 27 giugno 2020

STATUE E MONUMENTI: CRIMINI, OBLIO, SENSO COMUNE



Statue e monumenti, soluzione alla tedesca? - Claudio Geymonat (*)
In Germania molte opere d’arte discusse e discutibili sono affiancate da pannelli che ne spiegano il contesto e l’origine, nel tentativo non semplice di contestualizzarne la genesi
Fra iconoclastia e tutela ad ogni costo delle statue in quanto rappresentazione della storia collettiva, anche se spesso senza la S maisucola, la Germania da tempo ha scelto una via mediana, che pur non esente a intervalli regolari da critiche, può rappresentare una concreta modalità di gestione delle diverse tensioni. 
Da tempo a fianco di alcuni monumenti e statue i cui soggetti sono stati protagonisti di vicende anche tragiche del passato sono state apposte delle targhe esplicative, che riportano spiegazioni utili a contestualizzare i protagonisti e le vicende rappresentate. Non una giustificazione di alcunché, ma un aiuto a comprendere perché in un dato periodo storico si era sentita la necessità di innalzare una testimonianza concreta a questo o a quel personaggio.
Non tutto è stato ovviamente salvato nel tempo: le opere dedicate ai terribili anni del nazismo sono state in larga parte abbattute, ma col passare degli anni alcune strutture sono state risparmiate, in primis per la loro funzionalità, come il centro congressi di Norimberga, teatro delle oceaniche adunate del reich, mentre le recenti scoperte di campane con frasi o simboli che si rifanno all’identità nazista sono state o spostate in musei accompagnate da targhe esplicative o eliminate, segnale di differenti tensioni su temi che toccano la carne viva del passato tedesco, seppur con una intensità di dibattito decisamente attenuata rispetto a un tempo. L’idea oggi è per lo più che il rischio di un’idolatria postuma sia scongiurata. Quanto questa visione, e previsione, sia corretta, viene spesso da dubitarne.
Stessi dibattiti attorno ai cosiddetti “Judensau”, bassorilievi antisemiti datati Medioevo (anno 1305 quello sulla chiesa di Wittenberg ad esempio), che rappresentano una scrofa che allatta dei giovani ebrei mentre un rabbino è intento a scrutare le natiche dell’animale. Oggi una simile opera ci fa sobbalzare sulla sedia, o almeno dovrebbe. A più riprese in questi anni sono state intentate delle cause per giungere alla loro rimozione (sono una trentina in Germania e un paio in Francia), ma ancora nei giorni scorsi un tribunale ne ha rigettato l’ultima in ordine di tempo, con la motivazione che la scultura è parte di un monumento censito come storico a rilevanza nazionale, per cui non sottoponibile a revisioni di sorta, e aggiungendo che la targa esplicativa (collocata nel 1988) è sufficiente per contestualizzare il suo messaggio offensivo.
Le reazioni indignate continuano a essere molte e migliaia di firme sta collezionando una apposita petizione on line lanciata oramai alcuni anni fa che chiede la rimozione delle Judensau, così come fanno a gran voce il consiglio parrocchiale e lo stesso pastore della chiesa.
Altro aspetto è quello dei monumenti legati al passato coloniale tedesco: anche in questo caso il commissario culturale evangelico Johann Hinrich Claussen ha supplicato di lasciarli il ​​più possibile in piedi e di commentarli storicamente e artisticamente. «È importante ripensare la presentazione insieme, perché molte persone vivono in Germania e hanno una storia di migrazione dalle ex aree coloniali», ha detto Claussen all’Evangelical Press Service (Epd). «Finora, i monumenti coloniali non sono stati al centro dell’attenzione e in questi ultimi anni finalmente qualcosa sta cambiando».
«Abbiamo un grande compito educativo davanti a noi» ha proseguito Claussen. «I monumenti potrebbero svolgere un ruolo importante in questo contesto. Portano un tema scomodo nello spazio pubblico, in modo problematico. Ci sono molti modi comprovati e creativi per fare corretta informazione a riguardo».
In considerazione della richiesta da parte di alcuni gruppi interessati di abolire monumenti o altre forme di memoria come i nomi delle strade, che sono visti in relazione alle accuse di antisemitismo, razzismo o sessismo, Claussen ha dichiarato: «Dobbiamo decidere caso per caso. A volte tali monumenti sono semplicemente sbagliati. e stupidi, altri sono veramente delle ferite, altri vengono attaccati a torto». 
L’associazione Berlin Postkolonial da vari anni sta tentando di far cambiare molti nomi delle vie della capitale tedesca e di altre città. L’ Afrikanisches Viertel di Berlino, il quartiere africano, nei nomi delle sue vie riflette il coinvolgimento coloniale tedesco a cavallo fra XIX e XX secolo: la Wissmannstraße, deriva dall’esploratore Hermann von Wissmann, inviato dal Re Leopoldo II di Belgio in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo vista la sua abilità nel piegare interi villaggi al volere Europeo, bruciandoli; la Lüderitzstraße da Adolf Lüderitz, mercante e personaggio politico nella colonia dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest, corrispondente oggi allo stato della Namibia, sfruttò e prese il controllo delle risorse e terre dei locali. Come riporta il portale Berlino Magazine tutt’oggi in Namibia esiste la cittadina di Lüderitz, soprannominata anche la “Monaco del Deserto”. Stesso discorso per Gustav Nachtingal, Carl Peters o Carl Hagenbeck che commerciava leoni e tigri per il circo di P.T. Barnum e progettò di allestire lo zoo come vetrina per gli animali provenienti dai possedimenti africani della Germania. Seguendo il modello del parco esistente ad Amburgo, il sito avrebbe probabilmente anche ospitato uno zoo umano in cui esibire popolazioni non europee come se fossero una specie di fauna selvatica. Quello zoo non si è mai aperto, ma la sua concezione si rifletteva nei nomi delle strade vicine. Ancora oggi, ci si ritrova a passeggiare lungo Togostrasse, attraversando la Kamerunerstrasse per imbattersi nel piccolo parco sulla Kongostrasse
Dibattiti su dibattiti ma i nomi delle vie sono ancora quelli.
La damnatio memoriae non l’abbiamo certo inventata nel XXI secolo e le soluzioni non appaiono semplici, anche in Italia. Come ricordava il pastore Peter Ciaccio, guardiamo al dibattito anche acceso in corso nelle altre nazioni con in fondo un certo distacco, e non sappiamo cogliere che «ci sono, infatti, ancora strade, gallerie, ponti, scuole, caserme, ospedali, addirittura la Biblioteca Nazionale di Napoli, che sono intitolati a Vittorio Emanuele III. Questo nome è legato alle Leggi Razziali: Vittorio Emanuele III fu il sovrano che, firmandole e promulgandole, tradì quei cittadini ebrei delle cui vite era il massimo responsabile in terra.
È un momento buio nella nostra storia, forse il momento più buio del già oscuro Ventennio fascista. Le Leggi Razziali declassarono a nemici della razza italica — qualunque cosa questa espressione volesse dire — uomini, donne e bambini ebrei, che erano fino a quel momento sudditi e cittadini della monarchia, persone che contribuivano al destino del nostro paese.
Ancora oggi, a 75 anni dalla liberazione, il nome di Vittorio Emanuele III appare su decine, forse centinaia di luoghi pubblici: sarebbe ora che quel nome fosse sostituito con i nomi di ben altri italiani, magari proprio di ebrei espulsi dalla vita pubblica italiana a causa di quelle leggi.
Non si tratta di rimuovere la storia o di buttare giù monumenti, quanto piuttosto di prendere atto della storia, di come sono andate le cose. Si tratta di rendere giustizia alla storia, alle cittadine e e ai cittadini ebrei italiani che persero ogni diritto in maniera arbitraria da un giorno all’altro. Sarebbe un gesto di riparazione importante dopo che tanti italiani non ebrei approfittarono come dei rapaci nel ricoprire i posti di lavoro che gli italiani ebrei furono costretti a lasciare liberi, nelle università, nei tribunali, nell’esercito. Sarebbe un importante atto di riconciliazione nazionale. Sarebbe una battaglia che potremmo fare insieme come chiese e comunità religiose, come associazioni laiche che promuovono un’Italia dove non ci sia più spazio per il razzismo. Sarebbe una possibilità di azione comune, di unità».
(*) ripreso da riforma.it

Montanelli, non chiamateli errori: erano crimini - Nadira Haraigue (**)
 Nessuno schiavo è più infelice di quello che mette al mondo figli destinati a essere schiavi.” (Esopo)
Il tema non è distruggere, rimuovere o salvare una statua perché quelle, aldilà del fatto assolutamente soggettivo che possano piacere o meno, non ci aiuta a guardare la realtà nel suo complesso. Una statua è una semplificazione; l’idealizzazione dei valori che un certo personaggio ha rappresentato che, per sua natura fredda ed asettica, non può cogliere la complessità dell’esistenza soggettiva. Ma l’uomo, evidentemente, ha bisogno di simboli. 
Nella vita, è necessario sapere mettere insieme sia la professionalità e quello che rappresenta, che la morale e l’etica. In politica invece, è utile saper mettere insieme ciò che è in linea con i nostri valori e ciò che non lo è. Altrimenti riabilitiamo il “ha fatto anche cose buone”, o “Italiani brava gente”, senza fare mai davvero i conti con le violenze, i soprusi ed il razzismo del nostro passato coloniale; e poiché non siamo qui a redimere le persone né i popoli, ciò che si è fatto nella vita e i segni che si sono lasciati nella storia, nel bene e nel male, rimangono. Non si può cancellare i capitoli del nostro passato che ci piacciono meno. Ognuno di noi, come individuo e come parte di un collettivo, si porta dietro un’eredità, un lascito del passato che non è possibile abbandonare per strada. Come uno zaino o, a volte, un fardello.
Se dobbiamo parlare dell’uomo Montanelli, è indispensabile precisare che non possiamo semplicemente perdonare tutto o, peggio ancora, inserire tutto in un contesto storico per trovare una scusante. Nella vita esistono i crimini ed esistono gli errori. Abusare di una bambina di dodici anni (a dodici anni si è ancora bambini) dopo averla comprata per “two cents” (e il riferimento non è assolutamente casuale) e chiamata “animaletto docile”, non è un errore, ma un crimine. Perché basato su un presupposto preciso, quello relativo alla superiorità razziale e di genere. D’altronde lo stesso Montanelli diceva: “non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà”.
Tre uomini bianchi e una donna nera. Un sorriso beffardo sulla bocca di uno di loro mentre la vittima urla e si dibatte tra le mani dei suoi carnefici, invano. È il famoso dipinto «Le viol de la négresse» dell’artista fiammingo Christiaen van Couwenbergh (XVII secolo), che descrive gli orrori del sistema colonialista e schiavista. Ci dimentichiamo o ci conviene dimenticare la violenza coloniale espressa tramite gli stupri. Gli inglesi, i francesi, gli italiani facevano spesso ricorso a queste pratiche sugli africani e, se allora non scioccava perché “si usava così”, giustificarlo oggi è inaccettabile. Contestualizzarlo significa giustificarlo e significa anche esserne complici o, semplicemente, girare lo sguardo da un’altra parte.
Nelle colonie in Africa in generale e nel Corno d’Africa in particolare, i popoli sono stati vittime di atrocità come deportazioni, incendi di villaggi, stupri e torture. Le donne “indigene” sono state particolarmente colpite perché considerate inferiori sia per la razza che per il genere e c’è poco da definire “animaletto docile” una bambina perché la superiorità del maschio bianco la si dimostrava con la forza e con la violenza ma nascosta dietro un piccolo compenso per scaricarsi la coscienza pensando di “aiutare i famigliari”.
Le differenti forme di violenza contro le donne africane si sommavano insidiosamente in un contesto nazionalista, razzista e maschilista che non è estraneo all’influenza di immagini stereotipate del colonialismo dei secoli passati come descrivere le colonie come territori esotici ed erotici che ha caratterizzato il colonialismo fascista in Africa. La colonia dipinta come spazio vergine da scoprire e da conquistare, un nuovo mondo da penetrare. Il discorso coloniale italiano, impregnato di queste immagini, faceva ricorso spesso a delle espressioni suggerite dall’associazione della colonia al corpo delle donne. L’erotizzazione delle colonie è stata inculcata nella mente del colonizzatore fino al XX secolo ed è stata, consciamente o inconsciamente, assimilata dai coloni. Schiavizzare le popolazioni, toglierne l’identità, seviziare, umiliare, stuprare e distruggere.
Le diverse forme di violenza perpetrata sulle ragazzine e le donne africane rivelano comportamenti tipici dei colonizzatori bianchi. Fin dall’inizio della politica coloniale mussoliniana, l’Italia si è inspirata al principio legato al ruolo del Paese portatore di civiltà come lo sono state le altre potenze imperialiste in Africa, sottolineando la sua volontà di impegnarsi in un processo di liberazione dalla schiavitù dei popoli. La schiavitù non fu mai abolita e i popoli mai liberati. Fu solo un passaggio di proprietà da un imperialista ad un altro.
Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina. Quando staremo vicino a te, noi te daremo un’altra legge e un altro Re. La legge nostra è schiavitù d’amore, ma è libertà de vita e de pensiere.
La sposa bambina di Montanelli assume il profilo della Faccetta Nera di Micheli, canzone che era invisa al governo fascista, perché inneggiava alla mescolanza tra razze ma adorata dai coloni italiani perché, in essa, vedevano riconosciuto il proprio ruolo di civilizzatori e ci nascondevano i loro crimini. Non basta prendere le distanze da Mussolini e dal fascismo. Siamo stati un popolo razzista, suprematista e fautore della retorica del dominatore bianco. Soltanto elaborando gli errori del passato potremo eliminare definitivamente il nazionalismo ed il sovranismo dal nostro patrimonio sociale. È facile dire semplicemente che Mussolini era cattivo. È più complesso riconoscere dei tratti culturali che ci hanno definiti come popolo. Non esistono soltanto le colpe individuali, ma anche le responsabilità collettive. Montanelli e Mussolini sono stati chiamati a rispondere dei propri atti di violenza la cui colpa è ricaduta solo e soltanto su di loro. La responsabilità collettiva dello zeitgeist italiano di inizio 900, invece, ricade su tutti noi, che abbiamo il dovere di riconoscere e porre rimedio agli errori del nostro passato, come popolo e come civiltà.
Montanelli non sì è mai pentito e non ha nemmeno messo in discussione il proprio passato razzista, non ha fatto autocritica, non ha riconosciuto i propri crimini. In breve, aveva sfogato sul corpicino di una bambina i suoi istinti più primitivi e ne parlava con una sconcertante facilità. Guardando con condiscendenza al proprio passato ha riferito al pubblico e ai suoi lettori di essere stato un dominatore buono, amato ed adorato a tal punto dal suo animaletto, da aver condizionato la scelta del nome del figlio di quest’ultimo.
Come può un uomo istruito, un intellettuale, trovare qualcosa di attraente nel corpicino di una bambina ancora priva di forme? Come può, un uomo occidentale ed evoluto, parlare di lei come fosse priva di anima, di paure e di sentimenti? A quelle bambine lasciate pure incinte, hanno annientato ed annullato tutto. Per il semplice motivo che per secoli, il continente africano è stato considerato, ed è tutt’ora considerato, una sorgente di materie prime e schiavi da sfruttare e gettare nell’indifferenziata del mar mediterraneo.
Indro Montanelli era in Africa ai tempi del fascismo ma questi metodi sono stati usati fino a sessanta anni fa quando i coloni erano ancora padroni in terre indigene e durante le guerre di liberazione. Lo stupro come tortura e come tentativo di dimostrare la propria dominazione sul corpo di quelle donne che hanno osato sfidare il bianco per l’autodeterminazione del proprio paese. Lo stupro come punizione per dimostrare la propria superiorità come uomini bianchi. Lo stupro per dimostrare l’ancestrale convinzione della superiorità dell’uomo sulla donna. Lo stupro delle bambine invece è da relegare ad un’altra sfera. È pedofilia e non ci sarebbe nemmeno da discuterne.
A coloro che giustificano Montanelli con la scusa che negli anni trenta si faceva così, bisognerebbe ricordare che negli anni sessanta, scriveva, commentando le rivolte per l’iscrizione di un afroamericano all’università di Oxford: “Per quanto la sollevazione segregazionista fosse un errore, tuttavia questo errore e questo sopruso sono stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo è legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca”. E sempre negli anni sessanta, quando un popolo nordafricano era in guerra contro il colonialismo francese per la propria indipendenza e per cancellare gli abusi, soprusi e stupri che i coloni perpetravano, Montanelli rilasciava un’intervista a Le Figaro Littéraire in cui diceva: “Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani.”
La statua di porta Venezia è dedicata al Montanelli giornalista o al Montanelli razzista? Siamo disposti a perdonare i crimini e le violenze di un uomo per il suo talento e la sua libertà di pensiero?
Parlare della statua sì o no è anacronistico. La statua fu una decisione del Sindaco Albertini e, allora, non ci furono tutte queste polemiche. Non a questo livello. Parlarne oggi ha avuto il clamoroso effetto di spostare lo sguardo da un fatto grave come l’uccisione di Floyd e del razzismo in generale su una questione poco rilevante come una statua. Ma ha avuto l’effetto di fare uscire allo scoperto coloro che, pur di attaccare l’asino dove dice il padrone e nel grottesco tentativo di difendere la figura del giornalista, di giustificare lo stupro, l’acquisto delle spose e la pedofilia.
E questo è inaccettabile.
(**) pubblicato il 22 giugno su “La voce metropolitana” e ripreso da “R-esistiamo” – del gruppo “DEPORTATI MAI PIU’ – dove continua a svilupparsi un dibattito estremamente interessante (e documentato) sulla questione Montanelli e sulle molte connessioni storiche.

Eurodeputata Fofana denuncia al Parlamento europeo la violenza della polizia (con video) - Doriana Goracci (***)




"La Vita dei Neri Conta", ha proclamato al Parlamento europeo l’ eurodeputata tedesca dei Verdi Europei, Pierrette Herzberger-Fofana nata a Bamako,capitale del Mali,71enne: “Quando ho detto al poliziotto che ero un membro del Parlamento europeo, non mi ha creduta”.

Questo e altro -da ascoltare e vedere nel video,- ha dichiarato Pierrette Herzberger-Fofana, mercoledì 17 giugno nella sessione plenaria del Parlamento europeo, dopo aver presentato una denuncia come “vittima della violenza della polizia” il giorno dopo l’umiliante trattamento avuto.
Lei, eurodeputata tedesca dei Verdi, davanti al Parlamento europeo ha dichiarato di essere stata vittima della violenza della polizia a Bruxelles mentre stava fotografando con  il suo smartphone,un intervento che considerava un abuso.Ha desiderato condannare l’ “atto discriminatorio con tendenza razzista” che ha subito la non più giovane signora quando ha lasciato la Gare du Nord a Bruxelles: “Ho visto nove agenti di polizia che molestavano due giovani neri.”L’eurodeputata ha spiegato che aveva il telefono in mano, ha scattato una foto della scena,e che farlo era legale: “La polizia mi ha preso il telefono dalle mani. Quattro dei nove poliziotti armati mi hanno spinto brutalmente contro il muro. Hanno preso violentemente la mia borsa. Mi hanno messo al muro a gambe divaricate ” e secondo la sua versione, contestata dalla polizia belga, quest’ultima non ha creduto alla sua funzione di deputato al Parlamento europeo e ha richiesto la sua carta di soggiorno in Belgio malgrado abbia prodotto il passaporto tedesco con il pass del Parlamento europeo.
Il presidente del parlamento David Sassoli le ha assicurato il sostegno delle istituzioni e l’ha invitata a chiarire le circostanze al fine di chiedere una spiegazione alle autorità belghe e  ha inviato una lettera al primo ministro belga Sophie Wilmès chiedendole di adottare “misure immediate e necessarie” e condannando la violenza della polizia:
“Come presidente di questa istituzione e in nome di tutti i parlamentari europei, condanno fermamente tutti gli usi eccessivi della violenza, in particolare da parte della polizia”.
“Il colore della pelle della nostra collega non è estraneo al fatto stesso che è stata arrestata e alla brutalità e alla mancanza di rispetto che ha sofferto” ha dichiarato Philippe Lamberts, copresidente del gruppo politico (Verts-ALE) a cui appartiene Pierrette Herzberger-Fofana.
La polizia di Bruxelles ha negato di aver usato la violenza e ha riferito di comportamenti “aggressivi” della stessa che hanno portato alla stesura di un rapporto per “disprezzo” nei loro confronti : ”Voleva interferire nell’intervento, stava girando la scena e inizialmente si è rifiutata di identificarsi ha dichiarato Audrey Dereymaeker, portavoce della zona di polizia di Bruxelles-Nord. “È vero anche che c’è stata una ricerca di sicurezza con una breve privazione della libertà, nel tempo di verificare la sua identità, e seguire la solita procedura da una poliziotta.”
Ha spiegato che il deputato in realtà aveva “il diritto di filmare l’intervento”: “Ma lì, è stata coinvolta nell’intervento perché la polizia interviene e interferisce per effettuare un controllo di identità. “Ha aggiunto che è stato redatto un documento per “le parole pronunciate dal membro dell’ Europarlamento e il modo in cui si è rivolta alla polizia che hanno portato il magistrato a chiedere alla polizia stessa di redigere una risposta”.
Descrive questa esperienza come “traumatica e umiliante”. E ritiene che abbia un’eco particolare per ciò che sta accadendo nel mondo dalla morte di George Floyd negli Stati Uniti. Pierrette Herzberger-Fofana invita il Parlamento europeo ad adottare “misure concrete per un buon numero di persone che non sono qui e che non sono state in grado di sfuggire alla violenza della polizia”.
L’avvocato di Pierrette Herzberger-Fofanan, Alexis Deswaef, ha confermato che è stata presentata una regolare denuncia.
In questo modo la deputata ha voluto anche stabilire un collegamento con la mobilitazione contro la violenza della polizia in seguito alla morte di George Floyd negli Stati Uniti, anche durante un dibattito sull’argomento che stava per aprirsi nell’emiciclo. Michel Wieviorka, sociologo, si augura che “Questa mobilitazione planetaria contro la violenza della polizia e il razzismo, possa spostare le sue linee di azione se riesce a mantenere il suo carattere universalista”.
Il Parlamento europeo è stato coinvolto nel movimento globale contro il razzismo quando venerdì sera adottando una risoluzione che dichiara il traffico di schiavi “un crimine contro l’umanità” e viene usato usa lo slogan “Black Lives Matter La vita dei neri contaLa vita dei neri conta “, riprendendo lo slogan “Black Lives Matter” del movimento mondiale partito dagli Stati Uniti contro il razzismo e la violenza della polizia.
Anche i deputati europei dichiarano in questa risoluzione, adottata con 493 voti a favore, 104 contrari e 67 astensioni, che il traffico di schiavi è “un crimine contro l’umanità”. Questa risoluzione è una risposta diretta alle proteste che si sono moltiplicate dopo la morte di George Floyd, morto asfissiato durante il suo arresto da parte della polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti.Nel suo testo, il Parlamento “condanna fermamente la morte spaventosa di George Floyd negli Stati Uniti, così come altri omicidi simili in altre parti del mondo”. Mostra il suo sostegno alle recenti manifestazioni contro il razzismo e la discriminazione e condanna il “suprematismo bianco in tutte le sue forme”.
Nota bene: Gli eurodeputati della Lega e di Fratelli d’Italia hanno votato contro la risoluzione al Parlamento europeo che condanna ogni forma di razzismo dopo la morte di George Floyd. A favore della risoluzione gli europarlamentari del Pd, del M5S, Forza Italia e Italia Viva.
Ringrazio l’amica Marcelline Bangoura, cittadina italiana nata in Guinea che mi ha inviato il video che allego e per il quale ho scritto questo post. La stessa eurodeputata il 13 febbraio 2020 aveva portato a Strasburgo, un documento sulle violenze eseguite sui manifestanti proprio in Guinea, nel quale concludeva così: “È importante che l’Unione europea sviluppi bene il nostro partenariato con l’Africa, qualifichi e moltiplichi le nostre relazioni con attori diversificati, per sostenere lo stato di diritto, i diritti umani e il cosiddetto processo democratico e inclusivo in patria. e con i nostri partner in Africa.”
Su Facebook la signora Pierrette Herzberger-Fofana scrive: “A tutti coloro che hanno inviato un messaggio di sostegno e solidarietà; Grazie! Insieme combatteremo contro la violenza della polizia. – abbiamo bisogno di giustizia per tutti!”
Ringrazio anche io e l’abbraccio – Doriana Goracci

N.B. Pierrette Herzberger-Fofana, nata a Bamako il 20 marzo del 1949, cresciuta in Senegal, ottenne una laurea a Parigi in sociolinguistica tedesca e presso l’università di Treviri in letteratura, presso l’università Friedrich-Alexander di Erlangen-Norimberga un dottorato in scienze politiche; svolse la professione di lettrice presso le scuole superiori di Erlangen e in alcune università. Dagli anni 90 promuove varie campagne per tutelare i diritti umani in Germania e in altre nazioni, tra cui il Senegal. In particolar modo, ha avviato campagne contro le mutilazioni genitali femminili, il razzismo, per la tutela dei diritti delle donne e degli immigrati. E’ madre di tre figli. Alle elezioni europee del 2019, viene eletta europarlamentare con il partito Alleanza 90/I Verdi. Ricopre l’incarico di vicepresidente della delegazione per le relazioni con il parlamento panafricano e della commissione per lo sviluppo. Durante la sua attività parlamentare, ha chiesto l’intervento dell’UE a sostegno della Nigeria, per garantire la sicurezza nel paese, colpito dagli attacchi di Boko Haram a danno delle comunità locali per motivi religiosi, e per il problema della malnutrizione infantile. Ha, inoltre, preso posizione contro gli atti di violenza perpetrati in Guinea nel febbraio del 2020.



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