venerdì 26 giugno 2020

Il silenzio dello Stato - Bridget Ohabuche



La violenza sulle donne nere, oltre a Montanelli

Non è un caso sapere che il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha rifiutato di rimuovere la statua dell’giornalista fascista Indro Montanelli, affermando che “noi tutti facciamo degli errori”, perché è sempre stato un'ipocrita antirazzista, oppure il commento di Di Maio pubblicato su giornale la Repubblica: “Nessuno ha il diritto di rimuoverla” e altri vergognosi commenti fatti da giornalisti su questo caso senza sollevare il motivo per cui le donne chiedono la rimozione della statua.

Ciò che mi stupisce è lo Stato che rifiuta di accogliere l’occasione di rimediare i suoi crimini e riconoscere le infinite violenze commesse sulle donne nere durante la colonizzazione in Africa. Solo pochi giorni fa, sono state organizzate delle proteste in alcune città italiane contro il razzismo sistematico negli Stati Uniti e l’indignazione dei politici italiani ma senza indignarsi di ciò che succede in Italia. Il fatto che la storia di Desta — una ragazzina eritrea di 12 anni comprata da Montanelli per farne sua moglie, all’epoca del colonialismo in Africa — viene considerato come un caso estraneo o un problema di Montanelli e non dello Stato in sè.

Il comportamento degli italiani nello scenario coloniale è stato caratterizzato da violenze sessuali atroci, crimini e sopraffazione che ha causato dei danni psicologici difficili da rimediare. L’utilizzo di razzismo, classe e violenza di genere come metodi di oppressione che fino ad oggi si riflette nella società e sulla percezione della donna nera. Esattamente quello che è accaduto alla bambina eritrea Desta che è soltanto una tra un milione di altre donne violentate.
Un triplice stigmatizzazione, il risultato del patriarcato coloniale razzista che, attraverso metodi violenti, aveva messo in atto questa, fino alla sua ‘istituzionalizzazione” che ancora relega la donna nera al gradino più basso della scala sociale e alla demoralizzazione e disumanizzazione.

La sistematicità della violenza sessuale nel contesto coloniale italiano, non ha soltanto distrutto l’integrità sessuale delle donne nere, ma ha anche portato alla costruzione di stereotipi fortemente sessisti e razzisti, che hanno provocato una svalutazione della “black-womanhood” e “femminilità” nella società italiana contemporanea, favorendo la cristallizzazione dell’immagine della donna nera come sessualmente permissiva, selvaggia, servile, passiva, matriarca castrante e dissoluta. Un metodo di controllo del patriarcato capitalista bianco sullo statuto sociale delle donne nere che continuiamo a rivedere nella nostra vita quotidiana e di cui noi donne nere siamo costrette a convivere.

Tuttavia, i passi compiuti negli ultimi decenni per raccogliere informazioni sulle violenze di genere per merito degli storici, restano molte lacune nella ricostruzione di quanto realmente successo, sia per le resistenze ancora presenti a rinunciare a un’immagine positiva della colonizzazione italiana, sia per la precisa volontà di occultare l’opera di repressione. Non solo molte fonti archivistiche sono tuttora indisponibili, ma negli archivi ministeriali e militari la documentazione concernente molti dei fatti indicati è scarsa perché dell’argomento si parlava e si scriveva il meno possibile. Un ferreo sistema di censura impediva all’opinione pubblica italiana e internazionale di conoscere ciò che veniva perpetrato nelle colonie. In tale scenario, uno degli aspetti su cui è più difficile reperire informazioni è la violenza subita dalle donne africane, nonostante negli ultimi anni siano comparsi alcuni preziosi lavori che si soffermano, in un’ottica di genere, sulla condizione femminile nell’Africa occupata dagli italiani (Barrera, 1996, 2002; Poidimani, 2006; Srgoni, 1998, 2001; Stefani, 2007).

Tali lavori analizzano soprattutto due versanti: la rappresentazione delle donne nell’ immaginario culturale degli italiani e le relazioni sessuali tra donne africane e colonizzatori italiani. Per quanto riguarda il primo aspetto, gli studi sottolineano come gli italiani, almeno fino al momento della conquista dell’Etiopia, fossero in linea con la “porno-tropics tradition” (McClintock, 1995), imperniata sulla metafora della Venere nera, che riduceva l’immagine della donna africana alle sole dimensioni dell’esotismo e dell’erotismo. Alla donna nera veniva riconosciuta come unica identità quella sessuale. Ne derivava una sorta di “harem coloniale” (Alloula, 1986; si veda anche Gautier, 2003) che aveva la funzione di rendere desiderabile ai lavoratori italiani il trasferimento nelle colonie. Dopo la fondazione dell’impero, quando l’accento fu posto sulla lotta al meticciato, il regime mise la sordina a questa raffigurazione. L’immagine della Venere nera fu sostituita da rappresentazioni di tipo etnografico, che ponevano in risalto tratti fisici ritenuti segno di inferiorità, allo scopo di riaffermare la “naturale” superiorità degli europei e la legittimità della loro colonizzazione. Per quanto riguarda il secondo aspetto — le relazioni sessuali tra donne africane e colonizzatori italiani — fin dal lavoro pionieristico di Gabriella Campassi (1983), nel quale il possesso del corpo dei sudditi delle colonie era interpretato come metafora del possesso territoriale, gli studi hanno dedicato molto spazio ai rapporti di “Madamato” (“relazione temporanea, ma non occasionale tra un cittadino e una suddita indigena”, S rgoni, 1998, pag. 74), che connotano tutta la prima fase dell’occupazione italiana, fino alla brusca rottura operata dalla politica fascista in concomitanza con la proclamazione dell’impero.

Da quel momento vennero implementati una serie di dispositivi giuridici miranti a controllare il comportamento di italiani e “sudditi” per riaffermare il prestigio dei bianchi. Furono vietate le relazioni coniugali ed extraconiugali tra “razze” diverse, proibita la legittimazione e l’adozione di figli nati dall’unione di “cittadini” con “sudditi”, instaurata una capillare segregazione razziale. I “meticci” furono ricacciati nella comunità indigena e ogni istituzione precedentemente creata per la loro assistenza fu posta fuori legge. Obiettivo di tali misure era la volontà di rafforzare la piramide etnica e di non consentire, al suo interno, alcuna “zona grigia”, per garantire alla “razza italiana” un posto di spicco tra i colonizzatori.

La delegittimazione della loro immagine, la costrizione nelle pratiche di madamato e prostituzione non furono per le sole violenze alle quali le donne africane furono sottoposte. Con anziani e bambini, perirono nei massacri, nella guerra con i gas, nell’incendio di interi villaggi, furono deportate in campi che meritano la denominazione di sterminio più che di concentramento. Come è noto, fu proprio sullo scenario coloniale che furono messe a punto quelle tecniche di violenza contro i civili impiegate poi in tutti i conflitti del Novecento.
Sia nella memorialistica, sia nella letteratura storica, per i riferimenti alle violenze contro le donne nere sono sempre episodici, le vittime femminili vengono citate a margine, mancano studi che facciano luce sulle vicende che le riguardano. Tuttavia, alcune testimonianze sui campi di concentramento in Libia e nel Corno d’Africa fanno cenno alla condizione femminile. Nelle duemila pagine del diario, il colonnello Eugenio Mazzucchetti descrive le condizioni di donne e bambini, detenuti in tende “stracciate e scosse dal vento”, condizioni che causarono la morte della metà dei prigionieri. Oltre a queste atrocità, di cui furono vittime come parte della popolazione civile, le donne nere furono fatte segno di violenze specifiche, che derivarono dalla combinazione di una triplice stigmatizzazione: di razza, di classe, di genere. Si tratta delle violenze più difficili da documentare e quantificare.
Secondo Chiara Volpato, nel suo articolo “la violenza contro le donne nelle colonie italiane”, spiega che non esistono ancora lavori specifici sull’argomento; sia nei documenti analizzati dagli storici sia nelle pagine dei testimoni dell’epoca sono citati una serie di casi che sono interpretabili come tracce, indizi, di una realtà ben più vasta e che possono costituire il punto di partenza per l’indagine di quello che è, con tutta probabilità, un universo sommerso. Le tracce sono infatti concordi nell’indicare che le pratiche di sopruso e violenza erano largamente diffuse e restavano il più delle volte impunite.
Le donne erano continuamente sottoposte a vessazioni e insidie da parte degli italiani. Nel 1897, ad esempio, durante la spedizione di Bottego, il gruppo che accompagnava l’esploratore, oltre a eccidi, incendi, saccheggi, compì una serie di stupri (Vannutelli e Citerni, 1899; Del Boca, 1991). Hiwet Ogba Georgis, un’eritrea intervistata sull’epoca coloniale, ha raccontato che le donne che lavoravano per gli italiani erano terrorizzate dalle continue molestie sessuali (Wilson, 1991). Diverse fonti riferiscono raggiri commessi a scopo sessuale. S rgoni (1998) espone vari casi: la denuncia degli inganni (false cerimonie nuziali, organizzate per far credere alle africane che le loro unioni con gli italiani fossero legalmente riconosciute) fatta da Lincoln De Castro (1910), un medico vissuto a lungo in Abissinia; il raggiro compiuto dall’esploratore Gustavo Bianchi (1886), che racconta con fierezza la sua impresa, uno stupro operato attraverso l’inganno della vittima e della sua famiglia; le parole di Alberto Pollera (1922, pag. 79), che vale la pena di citare nella loro interezza:
“La legge indigena ammette la ricerca della paternità; anzi questo è uno dei cardini di quel diritto; la legge italiana la vieta; e basandosi su questo contrasto di diritto, molti Italiani, approfittando della ignoranza delle indigene su questo punto, ne fanno facilmente delle concubine, per abbandonarle quando ne abbiano prole”.

Ferdinando Martini, scrittore, parlamentare, governatore civile dell’Eritrea dal 1897 al 1907, ministro delle colonie nel biennio 1915–16, riporta nel suo diario, pubblicato in quattro volumi tra il 1942 e il 1943, il caso di un ufficiale che aveva portato via dalla missione che la ospitava una ragazzina per farne la sua concubina e di altri occupati “a tirar su bambine a minuzzoli di pane” per conseguire lo stesso scopo. Nelle interviste raccolte da Le Houérou (1994) tra i reduci d’Africa si trovano conferme di queste pratiche; uno degli intervistati dichiara, ad esempio, che la colonia era “un paradiso per gli uomini anziani” che potevano avere rapporti con bambine di dodici anni.
Altre informazioni si possono trarre dai lavori di S rgoni (1998) e Barrera (1996), che hanno passato in rassegna le sentenze emesse dai tribunali di Addis Abeba. S rgoni (1998) analizza, ad esempio, due processi per stupro. Nel primo — “stupro violento” — la vittima, Desta Basià Ailù, è una bambina di nove anni, segregata contro la sua volontà, per diversi giorni, nell’abitazione dell’imputato. Quest’ultimo viene processato per violenza carnale, non per sequestro di persona, e ottiene le attenuanti sulla base del fatto che si trattava di una bambina abbandonata e quindi, secondo una traduzione italiana del “Fetha Negast”, testo che racchiudeva i costumi penali abissini, poteva essere presa in casa da chiunque. Il secondo caso concerne lo stupro di una ragazza di tredici anni, Lomi, che aveva anche denunciato di essere stata, dopo la violenza, legata “per punizione”. L’imputato fu in prima istanza assolto perché i giudici italiani dichiararono che a tredici anni un’abissina era “sessualmente maggiorenne”. Successivamente, fu condannato dalla Corte di Appello per non essersi comportato secondo i dettami della” missione civilizzatrice della razza superiore”.

Perché tanto silenzio e occultamento delle violenze compiute sulle donne africane?
Le ragioni sono varie perché da un lato, la conoscenza delle violenze di genere risente del generale ritardo dell’indagine storica sulle vicende coloniali, indagine che, come sopra accennato, è stata soggetta a censure, disattenzioni, volontà politica di non fare i conti con il passato. Solo recentemente è stata posta in discussione la pervicace volontà di rimozione delle vicende coloniali che ha contrassegnato il panorama politico-sociale italiano del dopoguerra. La ricostruzione dell’identità collettiva, dopo la sconfitta bellica e l’onta dell’alleanza con il nazismo, si è imperniata sul mito auto-assolutorio degli italiani brava-gente, un mito che, enfatizzando l’immagine degli italiani come colonizzatori dal volto umano, ha ostacolato la riflessione sugli orrori commessi (Volpato, Durante, Cantone, 2007). Una seconda ragione è legata alla generale scarsità di ricerche sulla storia delle donne in Africa prima, durante, dopo la colonizzazione. Poco si conosce della loro esperienza, dei loro vissuti. Per quanto riguarda, poi, la storia delle vicende coloniali italiane, l’assenza delle voci femminili è quasi assoluta. La voce delle donne africane non compare mai nei documenti ufficiali, dai quali è peraltro assente.
Anche chi si è occupato di storia orale ha faticato a raccogliere voci femminili. Tra le 34 interviste raccolte da Taddia (1996) in Eritrea ed Etiopia, che ci raccontano la colonizzazione italiana dalla prospettiva dei colonizzati, nessuna è stata fatta a donne. Solo Barrera (1996, 2002) ha cercato la testimonianza delle donne africane sui temi qui indagati. Le interviste effettuate sono per poche; offrono indicazioni preziose, ma dovrebbero essere integrate e approfondite da ricerche di più ampio respiro. Il silenzio sulle violenze nei confronti delle donne nere si inserisce nel più generale silenzio sulle violenze di genere. In un bel libro, Un silenzio assordante, Patrizia Romito (2005) si è occupata dell’occultamento delle violenze perpetrate su donne e minori analizzando le strategie e le tattiche messe a punto a tale scopo.

Le strategie sono manovre articolate e complesse per nascondere la violenza maschile e mantenere inalterato lo status quo; la strategia per eccellenza è la negazione. Le tattiche sono, invece, strumenti non specifici della violenza contro le donne, usati in modo trasversale all’interno delle singole strategie: l’eufemizzazione, la disumanizzazione, la colpevolizzazione, la psicologizzazione, la naturalizzazione, la distinzione.
La lezione di Romito si presta bene al nostro discorso: per occultare la violenza contro le donne africane è stata impiegata soprattutto la strategia della negazione che si è avvalsa, di volta in volta, di tecniche di eufemizzazione, naturalizzazione, colpevolizzazione, disumanizzazione. Anche chi si è occupato di storia orale ha faticato a raccogliere voci femminili. Tra le 34 interviste raccolte da Taddia (1996) in Eritrea ed Etiopia, che ci raccontano la colonizzazione italiana dalla prospettiva dei colonizzati, nessuna è stata fatta a donne. Solo Barrera (1996, 2002) ha cercato la testimonianza delle donne africane sui temi qui indagati. Le interviste effettuate sono per poche; offrono indicazioni preziose, ma dovrebbero essere integrate e approfondite da ricerche di più ampio respiro. Il silenzio su queste violenze si inserisce nel più generale silenzio sulle violenze di genere.

Queste strategie hanno portato ai diversi pregiudizi e stereopitizzazione nei confronti degli africani. Il giudizio sociale italiano sugli africani durante il periodo coloniale è così negativo che i processi di stereotipizzazione e pregiudizio posti in atto costituiscono delle vere e proprie strategie delegittimanti. In psicologia sociale si definisce delegittimazione, la categorizzazione di un gruppo in categorie sociali estremamente negative, che lo pongono fuori dalla cerchia dei gruppi umani con cui è normale intrattenere rapporti. Tale esclusione è segnata da emozioni negative e governata da precise norme sociali. I risultati di questi si rivelano nell’immagine mediatica negativa degli africani. Gli africani vengono considerati un gruppo di basso status, da sfruttare come forza lavoro e accusati di debolezza intellettuale, scarsa moralità, incapacità di assimilare la cultura europea(come la cultura superiore); considerati “primitivi”, venivano paragonati ad animali. Il pregiudizio che oscilla tra paternalismo e disprezzo.
Quando si mostravano sottomessi, incarnavano la figura del suddito fedele, verso il quale gli italiani potevano orgogliosamente assumere il “fardello dell’uomo bianco”. Quando, al contrario, non accettavano il dominio italiano, diventavano “ribelli”, “selvaggi”, “belve” prive di intelligenza e calore, target ideali del pregiudizio sprezzante. I meticci, invece, erano oggetto di un pregiudizio univalente di disprezzo. Considerati un gruppo di infimo status, con il quale gli italiani non avevano interesse a stringere relazioni, venivano dipinti come incompetenti, privi di calore, ostili, ripugnanti, inferiori persino agli animali; paragonati ai bolscevichi e agli ebrei, erano ritenuti una minaccia per la purezza razziale europea.
Per concludere, la violenza perpetrata contro le donne africane è ancora un fenomeno particolarmente difficile da indagare a causa della generale scarsità di ricerche sulla loro storia, durante e dopo la colonizzazione e fino ad oggi stesso, nonché delle teorie e dei modelli socio-psicologici che possono contribuire a la comprensione dei fenomeni di violenza collettiva e genocidio che sono stati commessi e in che modo influiscono sulla vita di molti afro-discendenti nell’attuale società italiana.

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