martedì 2 giugno 2020

Alessandro Portelli, Andrea Bocconi e Ilhan Omar sull'assassinio di George Floyd

La civiltà del ginocchio sul collo - Alessandro Portelli

C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio sul collo della vittima a Minneapolis – San Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante o il rinoceronte ucciso in safari… Figure della vittoria della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio … E del bianco sul nero.
Così deve essersi sentito il poliziotto Dereck Chauvin, domatore sul corpo prostrato di George Floyd in mezzo alla strada davanti a tutti. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e il più simbolico dei diritti: il respiro, vita del corpo e soffio dello spirito. A Minneapolis, la civiltà è la bestia, l’ordine è selvaggio, la legge è l’arbitrio, l’umanità è soffocata e soppressa. Jack London lo chiamava il Tallone di ferro.
Stavolta è un ginocchio, a New York al collo di Eric Garner era un braccio; ma la sostanza è la stessa. Anche per questo in strada non sono scesi solo i fratelli e le sorelle afroamericani, i più prossimi alla vittima, ma anche tanti di quelli – bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia. Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere. Il respiro spezzato di George Floyd e di Eric Garner è anche una figura della loro voce negata.
È una parte di America senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza quella che è esplosa in tutto il paese. Lo stato è in mano a forze che lo pensano come potere di dominio senza responsabilità di governo; quando il paese diventa ingovernabile sanno solo minacciare sparatorie ed evocare «cani feroci» da scagliare addosso ai manifestanti – salvo nascondersi nel bunker come un dittatorello spaventato dai suoi stessi sudditi.
Peraltro, la vigliaccheria è funzionale anche a un consapevole disegno politico: drammatizzare la situazione, accentuare il conflitto, radicalizzare le aree di consenso su cui si basa il sostegno elettorale di Trump, far dimenticare la disastrosa gestione dell’emergenza sanitaria, cogliere l’occasione per criminalizzare il dissenso. C’è un’intenzionale parallelismo fra il gesto di Trump di scendere nel bunker e quello del vicepresidente Cheney dopo l’11 settembre: come dire che questa crisi è la stessa di allora (e i «terroristi» sono gli «antifa») e legittima la stessa politica securitaria, le stesse violazioni e sospensioni della democrazia di allora.
Né l’alternativa possono essere le parole flebili, convenzionali, di prammatica (e soprattutto: parole, in un momento che avrebbe bisogno di azioni, di gesti significativi) che sono venute da Biden e del partito cosiddetto democratico, che peraltro di scheletri nell’armadio ne ha fin troppi.
Fino a una settimana fa, la più plausibile candidata democratica alla vicepresidenza era Amy Klobuchar, ex pubblico ministero della contea di Minneapolis, che in quanto tale aveva lasciato correre, e anzi appoggiato, l’aggressività endemica della polizia ed era perfino accusata di aver lasciato indenne in un caso precedente lo stesso Derek Chauvin. Anche se è ormai chiaro che non sarà lei la prescelta, l’avere solo pensato a lei per la vicepresidenza (e quindi in futuro anche per una possibile candidatura presidenziale) ci dice quanto questi temi fossero estranei alla visione della leadership democratica.
La sola opposizione in questo momento sta nelle strade. La «violenza» non piace a nessuno; ma se i senza parola non avessero alzato la voce Dereck Chauvin l’avrebbe fatta franca come sempre e come tutti gli altri; e se non avessero parlato con il fuoco nelle strade, le istituzioni si sarebbero limitate a licenziarlo ma non l’avrebbero, troppo tardi, incriminato. Tutti applaudivano quando un grande scrittore come James Baldwin, sugli echi biblici di un grande spiritual, ammoniva: la prossima volta il fuoco.
Bene, la prossima volta è questa, il commissariato di polizia a Minneapolis brucia davvero. E ora che le parole di Baldwin diventano fatti, tutti a stigmatizzare la violenza come se non li avessero avvertiti prima, invece di domandarsi che cosa potevamo fare perché non fosse ancora una volta inevitabile e che cosa dovremo fare, quando i fuochi sembreranno spegnersi, perché non sia necessario che divampino un’altra volta.
Per fortuna, nelle strade d’America c’è stato anche il gesto concreto di un’altra opposizione, che segna davvero una novità storica – e viene da gruppi imprevisti di lavoratori. Hanno cominciato gli autisti degli autobus di Minneapolis, rifiutandosi di potare in carcere i manifestanti arrestati. Ma il messaggio più potente viene propria da dentro quello che sarebbe il campo avverso: sono i poliziotti che si uniscono ai cortei dei manifestanti, che solidarizzano con la protesta, che dicono basta alla solidarietà a priori con i propri colleghi picchiatori e assassini.
Mi colpisce che gli episodi più clamorosi vengano da realtà con un forte potere simbolico: Camden, New Jersey (città di Walt Whitman, poeta della democrazia, e periferia disastrata), Flint, Michigan (la città operaia della General Motors e Michael Moore, avvelenata dagli scarichi industriali nelle acque col silenzio del governo federale), e soprattutto Ferguson, Missouri, la città dove l’assassinio di Michael Brown e la repressione militare della protesta hanno aperto nel 2014 una nuova fase che culmina (per ora) con gli eventi di oggi.
A Ferguson, la polizia era armata come un esercito di occupazione, e addestrata a pensare ai manifestanti, letteralmente, come «nemici». Che poliziotti di Ferguson si inginocchino in omaggio a un afroamericano ammazzato da uno come loro significa che c’è un limite a tutto, che questo limite è stato oltrepassato, e che qualche coscienza comincia a cambiare. Forse non basta, ma non era mai successo prima. Forse, adesso che il drago si scuote, anche San Giorgio comincia ad avere qualche dubbio.



George Floyd, ho letto la perizia dell’autopsia: certi referti sono cortine fumogene - Andrea Bocconi



Come psicologo devo stare molto attento non solo a quello che dicono le parole, ma anche a quello che celano, e al sottotesto, ovvero a tutti gli impliciti del discorso. Sono andato a controllare il testo in inglese dell’autopsia preliminare di George Floyd. La traduzione apparsa sui giornali italiani mi sembra fedele.
Il medico legale scrive che non ci sarebbero evidenze fisiche che possano supportare una diagnosi di strangolamento o asfissia traumatica. È una formula anodina, che non esclude del tutto, ma sottolinea che non ci sono prove. La domanda che sorge è: se non è morto per quel ginocchio sul collo per nove minuti, che gli faceva dire “non respiro”, di che è morto?

La risposta è ricca di ipotesi. La combinazione di tre elementi: essere fermati dalla polizia, patologie pregresse, una sostanza intossicante presente nel corpo di Floyd. La prima mi preoccupa particolarmente: se mi ferma la polizia effettivamente provo un certo batticuore, anche se ho tutto in regola. Immagino di non essere l’unico. Se poi uno soffre di ipertensione (e qua non si dice se Floyd ne soffriva, come tanti dopo i quaranta in forma lieve, media, gravissima) la situazione si aggrava: il mio batticuore potrebbe diventare un infarto. Quanto poi alla sostanza intossicante, quale era? Aveva bevuto un whisky? Si era fatto una canna? Aveva preso anfetamine? Dove è la perizia tossicologica?
Qua le parole sono state scelte con cura, per non dire, per suggerire la disgrazia, il caso sfortunato, per spacciare per rilievi scientifici, tatti, quelle che sono solo ipotesi, le più favorevoli per la polizia. Certi referti sono cortine fumogene, lo abbiamo visto anche in Italia, vedi il caso Cucchi.
Peccato per il poliziotto che ci siano i video, altrimenti si poteva sostenere che era morto di spavento: questi neri son molto emotivi, si sa. Ci sta, perché la polizia americana tende ad avere il grilletto facile con i neri. Ne uccide un numero sei volte superiore a quello dei bianchi. Chi non si spaventerebbe ad essere fermato dalla polizia di Minneapolis, che ha una pessima reputazione di razzismo?
Lo dice Marlon James, scrittore vincitore del Booker Prize che in quella strada di Minneapolis ha vissuto, nell’intervista su Republica di sabato. Ma è afroamericano. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più del medico legale. Tiro a indovinare: non è nero.

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