domenica 7 febbraio 2021

Roberto Saviano scrive ad Ahmet Altan

 

Caro Ahmet,


Sono 
1.585 giorni (calcolati al 2/2/2021) che sei in carcere in Turchia, dal 23 settembre 2016.

La tua colpa? Essere uno scrittore.

1.585 giorni, non anni ma giorni: misurare il tempo della detenzione in anni dà l’impressione che sia un tempo veloce e invece no, il tempo trascorso in carcere andrebbe conteggiato in minuti, in secondi, perfino negli attimi del respiro. Andrebbe calcolato in luce sottratta, in metri quadri che mancano.

Ecco, Ahmet, quando ti penso in carcere non tralascio nulla di quello che ti viene sottratto. Qui fuori, fuori e a distanza, è così semplice raccontare il motivo della tua condanna: perché hai scritto romanzi, perché hai espresso le tue opinioni in articoli, perché lo hai fatto su Taraf, il quotidiano che hai fondato nel 2007, in modo tutti potessero leggere e capire. Nessun sotterfugio, nessuna frase sibillina, tutto manifesto: articoli e libri pubblicati. Idee, fatti, teorie, alle quali si poteva rispondere con altre idee, altri fatti, altre teorie. E invece no: ti hanno tolto la libertà. Per fermare le tue parole, ti hanno chiuso in una cella. Non immaginano, loro, che una cella al più ferma i corpi, ma non ha potere sulle parole.

Le proteste del mondo accademico

Ti scrivo dalle pagine del Corriere della Sera, perché ormai le lettere nel carcere di Silivri a stento ti arrivano. Le mie parole verrebbero passate al vaglio, fermate e private del diritto che hanno di giungere al loro destinatario. Ho deciso di scriverti adesso perché immagino che il nuovo corso negli Stati Uniti, inaugurato da Joe Biden, potrebbe riportare attenzione su Fethullah Gülen, il nemico di sempre, il nemico che Erdoğan aveva momentaneamente accantonato, il nemico a cui attribuire presunti sodali da arrestare, nuove minacce da sventare con l’arma della repressione interna. Ti scrivo adesso perché il mondo accademico e i giovani universitari sono in fermento; protestano perché la cultura sia laica, libera dai condizionamenti della politica. Ti scrivo adesso perché anche loro vengono arrestati, anche a loro viene negato il diritto di esprimersi liberamente. E ti scrivo adesso perché non mi rassegno che possa essere così facile incarcerare uno scrittore mentre il regime turco continua indisturbato la sua vita.

Nel 2018 ti condannano all’ergastolo per – dicono — aver «favorito il golpe» attraverso «messaggi subliminali». Poi cadono i capi d’imputazione più gravi e la pena viene ridotta a 10 anni e mezzo cui si aggiungono, il 7 gennaio 2020, altri 5 anni e 11 mesi per «offese al presidente» e «propaganda del terrorismo». Un sistema da incubo, un sistema che si chiama Turchia. E tu riesci a resistere, Ahmet? Noi non abbiamo niente, questo lo so bene: non abbiamo armi, non muoviamo capitali, non siamo potenti. Abbiamo solo le nostre idee e le nostre parole, ma io non mi rassegno, Ahmet. Non mi rassegno e mi pongo una domanda semplice, alla quale tu avrai già trovato una risposta: come può essere che le tue parole abbiano spaventato a tal punto Erdoğan – che è potente, che dispone della forza di oltre 700mila militari – da decidere di destinarti alla galera senza alcuna possibilità di appello? Come può essere che le autorità turche, pur di tenerti in carcere, si siano coperte di ridicolo formulando e avallando le accuse più assurde? Dall’«invio di messaggi subliminali evocativi di colpo di stato» ad «aver tentato di rovesciare il governo della Turchia», dalla presunta «appartenenza a una organizzazione terroristica» all’ultima formulazione: «aver fornito aiuto a un’organizzazione terroristica senza esserne membro». La verità è che non esiste alcun capo d’imputazione credibile per quello che ti stanno facendo, non esiste alcun motivo valido per la detenzione preventiva cui sei stato sottoposto, per i processi farsa che hai affrontato e per le condanne che restano a tuo carico.

L’accusa di aver mandato messaggi subliminali, perché poche ore prima dal fallito golpe del luglio 2016 eri ospite in tv insieme a tuo fratello Mehmet Altan, è un’idiozia, come possono averla appoggiata un governo e tribunali, istituzioni che dovrebbero tenere alla propria credibilità, magari anche al cospetto di osservatori stranieri? O forse sanno che gli osservatori stranieri osservano poco? Che sono inspiegabilmente distratti? E di cosa ti accusano esattamente? Di avere espresso attraverso i tuoi scritti delle intenzioni? Di aver diffuso messaggi? Ma cosa fa esattamente uno scrittore quando racconta, un giornalista quando mette in fila gli eventi? Il messaggio che il potere chiama «subliminale» è la traccia dell’emozione accanto all’idea, e quando emozione e idea si saldano, allora le parole diventano importanti, direi imprescindibili. Per questo ti hanno voluto fermare.

Alla fine, vedi, ci sono arrivato anch’io. Le tue parole sono troppo pericolose perché possa essertene concesso l’uso. E sono pericolose perché complesse, perché rivolte a tutti, anche a chi non la pensa come te. Pericolose perché mostri il potere per quello che è: il nulla, il vuoto, l’arbitrio che però, assurdamente, conserva la possibilità di agire e reprimere, di schiacciare l’individuo.
Altan con la figlia (Getty)

Come tuo padre e come Puškin

Caro Ahmet, immagino starai sorridendo nel vedere il mio rumoroso e impacciato affanno mentre racconto ciò che ti è accaduto. Non sono riuscito mai a far mia la tua lezione, la tua e di tuo padre: sottrarsi al copione, non lasciarci portare dall’onda. Lo so, se qualcosa può sconvolgere la nostra vita, siamo noi a permetterlo comportandoci secondo le attese. Tuo padre ti aveva insegnato la regola quasi cinquant’anni fa. Anche lui giornalista, i militari entrarono in casa vostra e tuo padre offrì del tè a chi perquisiva. Poi, mentre ammanettato lo portavano via, si girò verso te, tuo fratello e tua madre con un grande sorriso. «La realtà – hai scritto – non può sopraffarmi. Io sono più forte della realtà». In questi casi citi, del nostro amato Puškin, il racconto che preferiamo più d’ogni altro, «La pistolettata». Quando nel duello Silvio ha l’arma puntata sul cuore del suo avversario ma questi seguita a mangiare ciliegie, più Silvio chiede attenzione e impegno perché sta per sparare e potrebbe ucciderlo, più lo sfidante dà mostra di tenere molto alle ciliegie e poco alla propria vita. Il colpo non verrà mai esploso perché ha disatteso, il duellante, le regole del gioco. Così inviti ad agire, come Borges che al ladro che intima «la borsa o la vita» dice: offri la vita, spariglia, sovverti, non agire secondo attese. Quando ti hanno arrestato, sia la prima volta che la seconda volta, hai fatto a pezzi il clima di terrore e paura che gli uomini mandati da Erdoğan avevano imposto, aprendoti in un sorriso, come hai scritto nel tuo libro «Non rivedrò più il mondo», pagine che voglio proteggere dandole a più persone possibili, moltiplicando le tue parole grazie alle uniche persone che possono davvero impedire a ogni cella di rinchiudersi: i lettori. Incarni davvero, Ahmet, il principio di Epitteto: quando il nostro corpo è schiavo, è lì che la nostra mentre può restare libera. Tu ci stai riuscendo.

Quando a novembre 2019 ti hanno liberato per qualche giorno, probabilmente sperando che scappassi, trovammo il modo di vederci su Skype… non ho mai dimenticato quell’incontro. E se non sei andato via, se non ci hai nemmeno pensato, è perché ti è sempre stata chiara la differenza che esiste tra denunciare e testimoniare: si denuncia con le parole, si testimonia con il corpo. E il regime turco può trasformarsi non denunciando ma testimoniando, ossia portando sul proprio corpo le contraddizioni del potere. È di questi giorni la notizia della protesta a Istanbul degli studenti dell’Università del Bosforo contro la nomina per decreto presidenziale di Melih Bulu a rettore, una nomina solo politica dal momento che Bulu è un politico vicino a Erdoğan. Il 29 gennaio un gruppo di studenti ha allestito una mostra con foto e disegni sul tema della libertà di espressione, dei diritti di genere, della pace. Hanno disegnato un arcobaleno, simbolo del movimento pacifista mondiale e della comunità Lgbt su una foto della Kaaba, l’edificio più sacro dell’Islam. Quegli studenti sono stati arrestati con l’accusa di «insulto ai valori religiosi» reato che, assicurano i loro avvocati, nel codice penale turco nemmeno esiste. Arrestati per aver disegnato un arcobaleno, arrestati per una mostra sulla libertà d’espressione, arrestati perché vogliono, chiedono e pretendono che le università siano indipendenti dal potere politico.

E ancora altri studenti arrestati (159, di cui 98 rilasciati poche ore dopo); anche loro, Ahmet, come te, reagiscono con la gioia. La loro protesta è piena di musica e di balli, quanto stride tutto questo con i tetri palazzi del potere, grotteschi, ottusi. E mentre il ministro dell’Interno turco li definisce «deviati» e «pervertiti», mentre il governo turco minaccia, incarcera, processa, punisce, noi stiamo qui a guardare, noi che, da quando è esplosa la pandemia abbiamo disegnato arcobaleni ovunque, siamo immobili osservatori dell’ennesimo atto autoritario che lede i diritti di ciascuno di noi, privando voi, della libertà. In Turchia sono stati incarcerati 200 giornalisti negli ultimi 5 anni, giornalisti di ogni età e orientamento politico e se tutto questo è potuto accadere è perché noi siamo stati e siamo indifferenti. Da quando ti conosco, con le tue parole e attraverso i tuoi libri, mi hai insegnato che l’individuo fa la differenza. Un gesto di bene non è inutile, un gesto crudele non è ininfluente. Come quella donna che, mentre ti facevano la radiografia, per immotivata cattiveria non acconsentì che ti fossero tolte le manette. Il poliziotto stava per aprirle, ma lei disse che no, non ce n’era bisogno: «Gliele lasci!». Perché tanta crudeltà? Come è possibile? Un po’ di pace ai polsi perché negarla? Questi gesti nascono dall’abitudine alla crudeltà, addirittura dalla necessità che esista un luogo, una prassi, un recinto possibilmente lontano dai nostri occhi dove si possa lasciar spazio a cattiveria e vendetta, perché è crudeltà e vendetta che merita chi ci finisce, qualunque sia il motivo.Altan con la figlia (Getty)

Il carcere del pensiero

Senza troppi giri di parole: il carcere rappresenta la nostra quota di vendetta, una quota di crudeltà che siamo addirittura fieri di rivendicare. «Se stanno dentro è perché hanno sbagliato»: con questa frase giustifichiamo tutto ciò che può capitare a chi è detenuto. «Se stai in carcere è perché hai sbagliato, e se hai sbagliato il tuo destino non è affare mio» è un assioma che vale per qualunque detenuto, di qualunque nazionalità, quali che siano le condizioni della detenzione. E qui dovrebbe intervenire il racconto, ma per far cosa? Per spiegare che il carcere non deve soddisfare la sete di vendetta quanto piuttosto assolvere a una funzione che è essenziale: reinserire chi ha commesso un reato nella società. Ma se il carcere assolve alla quota di crudeltà a cui riteniamo di aver diritto, come la mettiamo quando il carcere viene utilizzato per silenziare la dissidenza? Per bloccare gli oppositori politici? Per fermare, come nel tuo caso, Ahmet, il pensiero libero? La soglia del carcere, prima ancora che essere una soglia fisica delimitata da cancelli, lucchetti, guardie armate e telecamere, è una soglia mentale: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E tra i dentro e il fuori, fa comodo che non vi sia dialogo, che i rapporti siano sempre mediati. Esistono dei codici, e la quota di vendetta che teniamo a preservare ci impedisce di vedere quanto quei codici siano essi stessi parte della segregazione, ci impedisce di vedere quanto tra il dentro e il fuori non esista soluzione di continuità.

Poniamocela, una volta per tutte, questa domanda. Non discutiamone con altri, ma ragioniamoci in solitudine cosicché nessuno possa giudicarci: cosa simboleggia il carcere? La nostra vittoria, la vittoria dell’uomo sull’uomo, la vittoria di chi sta fuori su chi sta dentro. La vittoria di chi «merita» di stare fuori su chi «merita» di stare dentro. Come quando da bambini vedevamo altri bambini puniti per qualche malefatta: la sensazione era quella del pericolo scampato, di leggerezza nel vedere i colpevoli presi a occupare la casella dei colpevoli. Eh sì, perché è un posto che sullo scacchiere non può restare vuoto troppo a lungo. E quindi sapere che esiste un carcere, e che tu ne sei fuori, non ti fa semplicemente sentire a posto con la coscienza, ti dà la patente per fregartene.

Il primo atto, dunque, che possiamo fare è non essere indifferenti, accorgerci del male perché abituarsi al male al punto da non riconoscerlo, non averne il disgusto e tenerlo lì come possibilità perenne, è la vittoria finale del disumano. In carcere hai visto corpi picchiati, costretti alla solitudine, rattrappiti dalla vergogna, perché tra le più insopportabili torture ci sono quelle che ti costringono a denunciare innocenti, accusare persone che non conosci. Hai raccontato di un ragazzo costretto a denunciare dei curdi, dei curdi a caso, dei curdi qualsiasi, persone che nemmeno conosceva… serviva la sua testimonianza per poter intervenire in un villaggio. Il ragazzo sapeva che se avesse pronunciato il nome di chi non gli aveva fatto nulla, e nulla aveva commesso, sarebbe probabilmente uscito di prigione, ma rifiutò: «non posso fare il nome di nessuno, non posso essere cosi vile»...

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e leggete le poche e straordinarie pagine di 


Ritratto dell'atto di accusa come pornografia giudiziaria - Ahmet Altan


«Vostro Onore, il misero surrogato di atto d’accusa presentato contro di me, privo non solo di intelligenza ma anche di rispetto per la legge, è troppo debole per sostenere il peso immenso della sentenza di ergastolo con applicazione delle relative aggravanti richiesta dal pubblico ministero, e non merita una difesa seria». Inizia così il libro Ritratto dell’atto d’accusa come pornografia giudiziaria che lo scrittore turco Ahmet Altan, 67 anni, ha scritto dalla cella del carcere di Silivri dove è rinchiuso da 17 mesi insieme al fratello Mehmet, alla giornalista Nazli Ilack,74 anni e veterana della stampa turca, e altri quattro reporter. Domani il giudice, cui si rivolge Altan in un dialogo immaginario, emetterà il verdetto. È il primo di una serie contro i rappresentanti della stampa accusati di essere dei gulenisti e aver fatto parte del fallito golpe del 15 luglio 2016. A nulla è valsa la mobilitazione internazionale lanciata in questi mesi per la loro liberazione da Free Turkey Media che comprende tra gli altri Reporters Sans Frontieres, gli italiani di Articolo 21 e l’associazione dei Cento Autori. A nulla è valsa la sentenza della Corte Costituzionale che aveva disposto la scarcerazione degli imputati perché erano stati violati i loro diritti umani. «Nel momento in cui li condanneranno sarà decretata la morte dello stato di diritto in Turchia. Nessuno avrà più alibi» commenta amara Antonella Napoli, coordinatrice di Free Turkey Media. Altan e compagni sono accusati di aver inviato dei «messaggi subliminali» nei giorni precedenti al golpe per favorire la sua riuscita. «A parte qualche mio articolo e un’unica apparizione in tv, l’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di stato», spiega lapidario lo scrittore nel suo libro.

da qui


Una condanna a vita per Ahmet Altan

Il 2 ottobre la corte d’appello di Istanbul ha confermato la condanna all’ergastolo per sei sospettati di terrorismo, tra cui i giornalisti Ahmet e Mehmet Altan, arrestati nel settembre del 2016. L’accusa per tutti è di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale e di avere legami con l’organizzazione gulenista Fetö, che Ankara ritiene responsabile del fallito golpe del luglio 2016. Dal carcere Ahmet Altan ha scritto alcune memorie raccolte nel libro Non rivedrò più il mondo (Solferino). Eccone un estratto.


“Un oggetto in movimento non si trova né dove è, né dove non è”, sostiene Zenone nel suo famoso paradosso. Fin da ragazzo ho pensato che questo paradosso si addica più alla letteratura o agli scrittori che alla fisica.

Scrivo queste parole da una cella in carcere.

Aggiungete le parole “Scrivo queste parole da una cella in carcere” a qualsiasi racconto e aggiungerete tensione e vitalità, una voce inquietante che arriva da un mondo buio e misterioso, la resistenza coraggiosa di una persona fortemente svantaggiata e una mal dissimulata richiesta di pietà.

È una frase pericolosa, che si può usare per sfruttare i sentimenti delle persone. E gli scrittori non sempre evitano di usare le frasi in modo da asservirle ai loro interessi, quando c’è in gioco la possibilità di toccare i sentimenti delle persone. Capire che questa è la loro intenzione può essere sufficiente perché il lettore provi pietà per l’autore di quella frase.

Ma aspettate. Prima di suonare le trombe della pietà nei miei confronti, ascoltate quello che ho da dirvi.

Sì, sono una persona chiusa in un carcere di massima sicurezza in mezzo al deserto.

Sì, sono chiuso in una cella la cui porta si apre e si chiude con uno sferragliare di metallo.

Sì, mi passano i pasti attraverso un buco in mezzo alla porta.

Sì, perfino la sommità del cortile di pietra in cui cammino su e giù è coperta da una gabbia di acciaio.

Sì, non ho il permesso di vedere altre persone che non siano i miei avvocati e i miei figli.

Sì, mi è vietato spedire anche solo due righe ai miei cari.

Sì, ogni volta che devo andare in ospedale prendono delle manette da un mucchio di ferraglia e me le infilano ai polsi.

Sì, ogni volta che mi tirano fuori dalla cella ordini come “alza le braccia, togliti le scarpe” mi colpiscono come schiaffi.

Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.

Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere

Nelle mattine d’estate, quando i primi raggi del sole passano tra le nude sbarre della finestra e colpiscono il mio cuscino come lame di luce, sento i canti gioiosi degli uccelli di passo che hanno fatto il nido sotto le volte del cortile, e gli strani scricchiolii prodotti dai passi dei prigionieri negli altri cortili, come se schiacciassero sotto ai piedi bottiglie d’acqua vuote.

Mi sveglio con l’impressione di vivere ancora nella villa con giardino della mia infanzia o, per chissà quale ragione, e davvero ignoro la ragione di questo fatto, in uno di quegli alberghi affacciati sulle garrule strade francesi nel film Irma la dolce.

Quando mi sveglio con la pioggia d’autunno che cade sulle sbarre della finestra, sopportando la furia dei venti settentrionali, inizio la giornata sulle rive del Danubio, in un albergo con delle torce sulla facciata che vengono accese ogni sera. Quando mi sveglio col sussurro della neve che penetra dalle sbarre della finestra, in inverno, incomincio la giornata nella dacia con la finestra sulla facciata in cui ha trovato rifugio il dottor Živago.

Finora non mi sono mai svegliato in carcere, neanche una volta.

Di notte, le mie avventure sono animate da un’attività ancora maggiore. Vago fra le isole della Thailandia, gli hotel di Londra, le strade di Amsterdam, i segreti labirinti di Parigi, i ristoranti sulla costa di Istanbul, i piccoli parchi nascosti fra le vie di New York, le cittadine dell’Alaska con le loro strade innevate.

Potete incontrarmi lungo i fiumi dell’Amazzonia, sulle spiagge del Messico, nelle savane africane. Parlo tutto il giorno con persone che nessuno vede e sente, persone che non esistono e non esisteranno fino al giorno in cui io ne parlerò. Le ascolto mentre conversano fra loro. Vivo i loro amori, le loro avventure, le loro speranze, preoccupazioni e gioie. A volte rido camminando nel cortile perché origlio le loro conversazioni, che sono piuttosto divertenti. Non voglio fissarle sulla carta in carcere, perciò scrivo tutto questo nelle pieghe del mio cervello, con l’inchiostro della memoria.

So di essere uno schizofrenico, finché queste persone restano nella mia mente. So anche di essere uno scrittore, quando queste persone si trovano infine sulle pagine di un libro. Provo piacere nell’oscillare tra schizofrenia e letteratura. Salgo come fumo e lascio il carcere con queste persone che esistono nella mia mente. Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere.

Sono uno scrittore.

Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.

Dovunque mi rinchiudiate, io viaggerò per il mondo sulle ali infinite della mia mente.

Inoltre ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare: la maggior parte non li ho mai incontrati.

Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sulle pianure, le sorgenti, le foreste, i mari, le città e le loro strade.

Viaggio per tutto il mondo da una cella in carcere.

Come potete ben capire, io possiedo un’arroganza divina; non lo si ammette spesso, ma è propria degli scrittori ed è passata di generazione in generazione da migliaia di anni. Io possiedo una sicurezza che cresce come una perla fra le robuste valve della letteratura. Io possiedo una immunità garantita dall’armatura di acciaio dei miei libri.

Scrivo queste parole da una cella in carcere.

Ma non sono in carcere.

Sono uno scrittore.

Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.

Potete mettermi in carcere, ma non potete tenermi in carcere.

Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.

da qui

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