lunedì 1 febbraio 2021

viaggio di lavoro per gli zapatisti in Europa

 

Gli zapatisti sbarcano in Europa: cosa dobbiamo aspettarci - Riccardo Bottazzo

Che poi, il subcomandante insurgente Marcos ce lo aveva sempre detto, no? Ce l’aveva ben chiaro in testa, il sub, sotto quel suo passamontagna nero e quel suo cappello alla cubana. Ce l’aveva chiaro in testa sin da quella volta che si era affacciato dal municipio occupato di San Cristobal De Las Casas, per gradare “Ya basta”. Per urlare a tutto il Messico che i popoli indigeni ne avevano abbastanza di sfruttamento e umiliazioni. Per annunciare a tutti i potenti della terra che, se la scelta era tra morire di fame in una baraccopoli o morire combattendo, loro, i tzotzil, i tzeltal e tutti gli altri popoli nativi del Chiapas, avrebbero scelto di morire combattendo.

Era l’alba del 1 gennaio del 1994 e il mondo assistenza stupefatto all’inaspettata e determinata rivolta degli indigeni del Chiapas. Ma Marcos sapeva bene che la rivolta partorita tra le fitte boscaglie tropicali della selva Lacandona, nella selva Lacandona sarebbe anche morta se i popoli indigeni non avessero saputo creare nuove categorie di pensiero e dipingere con i colori dell’immaginazione e del coraggio quell’otro mundo posible capace di rovesciare la narrazione storica di violenza e conquista cominciata con l’arrivo di Hernán Cortés.

Per quanto determinata, la rivoluzione zapatista sarebbe nata e morta come tante altre rivoluzioni, se gli insorti del Chiapas non avessero saputo spiegare a tutto il pianeta terra che la “quarta guerra mondiale” intrapresa dal capitalismo, con le sue logiche di mercificazione di beni comuni, non ha come vittime solo gli ultimi della terra, i popoli indigeni, ma l’intera umanità. Perché siamo tutti indigeni della terra. Il Chiapas, lo sapeva bene Marcos, si salva solo se cambia il Messico. E il Messico cambia solo se cambiano gli Stati Uniti, se cambia l’Europa. Se cambia il pianeta Terra.

Vista da questa prospettiva, c’era da aspettarselo che, prima o poi, gli indigeni ribelli sarebbero sbarcati in Europa, ripercorrendo al contrario – tanto nello spazio geografico che in quello dell’utopia – quelle rotte che nel ‘500 furono percorse dalle caravelle in armi dei conquistadores. Degli invasori.

E se è vero che c’era da aspettarselo, è anche vero che nessuno se lo aspettava, qui, nel Vecchio Continente. Soprattutto in momenti come questi in cui la nostra massima preoccupazione è il colore della nostra Regione. Anche i cambiamento climatici, vera emergenza del pianeta, sono passati nell’agenda di domani o di chissà quando. Ma loro, gli zapatisti, sono fatti così. Maestri nel rovesciare le logiche comuni, artisti nel costruire narrazioni rivoluzionarie, imprevedibili nel gettare anima e corazón oltre gli ostacoli. Rivoluzionari sempre e comunque.

Puoi credere, o anche vantarti, di conoscerli bene, perché hai fatto sette viaggi nei loro caracoles, ma stai sicuro che loro riusciranno comunque a stupirti, rilanciando la posta quando tu pensi di stare per perdere, ed alzando sempre un po’ più su di qualche tacca l’asticella del conflitto sociale, prima di saltarci sopra a la testa in avanti.

 

Gli zapatisti sbarcano in Europa

E così è stato con quei sei comunicati firmati da Moisés, il subcomandante insurgente succeduto a Marcos, in cui veniva annunciato che, questa estate, l’Ezln (Ejército Zapatista de Liberación Nacional) sarebbe sbarcato in Europa. Il primo comunicato è stato lanciato nel 27esimo anniversario della ribellione, il primo gennaio 2021, il sesto nell’ottobre del 2020. Come dite? No, le date le ho scritte giuste. I compas hanno cominciato dall’ultimo e han finito col primo. Marcos, o quell’altro tizio di Nazareth, adesso non ricordo, ha sempre detto che “i primi saranno gli ultimi” e che “saranno los de abajo ad ereditare la terra”. Come dite adesso? Ho fatto confusioni con le citazioni? Va bene, scusate tanto ma non statemi sempre a criticare!

 

Fatto sta che una delegazione dell’Ezln sta già facendo i bagagli per saltare al di qua dell’oceano. Ho scritto “delegazione” ma si tratta di un mezzo battaglione: 160 insurgentes, tra uomini e donne. Il variegato arcipelago dei movimenti sociali e ambientali di tutta Europa, Fridays For Future in testa, è saltato in ebollizione sin dal primo, scusate, dall’ultimo comunicato in cui Moisés annunciavano l’avventura. Avventura loro ma anche nostra! Vi lascio immaginare il casino organizzativo tra le centinaia di organizzazioni di sostegno alla rivoluzione zapatista attive in tutta Europa per preparare l’accoglienza! Anche perché i compas del Chiapas sono fatti a modo loro e non è facile gestirli per una mentalità europea. Volete un esempio? Alla domanda “Cosa volete fare in Europa?” hanno risposto: “Cosa volete che facciamo in Europa?” Ve l’avevo detto o no, che sono maestri nello spiazzare l’interlocutore ribaltandogli il ragionamento? Se poi considerate che metà di loro non è mai uscita dal Chiapas e l’altra metà non ha mai messo il naso fuori della selva Lacandona, potete immaginare quando ci sarà di divertirsi nell’accompagnarli per le nostre città!

 

Il “tour”

Adesso come adesso, le certezze sul loro viaggio sono poche: arriveranno in Europa ai primi di luglio e si divideranno in varie delegazioni. Per prima cosa saliranno a nord per incontrare i movimenti ambientalisti dei paesi scandinavi (e vi dico già che gli zapatisti ad Helsinki io non me li voglio perdere per nulla al mondo). Poi scenderanno nel Mediterraneo dove percorreranno, via nave, le rotte migranti. Il 20 luglio, saranno a Genova, che è anche la città di Cristoforo Colombo, per commemorare la morte di Carlo Giuliani. Il 13 agosto, giorno in cui gli invasori spagnoli rasero al suolo Tenochtitlán, sfileranno a Madrid per ribadire che i popoli indigeni saranno anche stati conquistati ma non sono mai stati sconfitti. La delegazione rimarrà nel Vecchio Continente perlomeno sino al 12 ottobre per la manifestazione conclusiva. E non voglio offendere le vostre competenze storiche ricordandovi cosa successe in quel giorno, in una spiaggia dell’isola di San Salvador, nell’anno del signore 1492. Il resto dell’avventura zapatista in Europa è tutto da costruire e da miracolare.

Ed un miracolo, col loro arrivo, ce lo hanno già regalato, gli zapatisti. Sono riusciti a riunire in un unico tavolo – e scrivo “tavolo” per dire decine di google groups, centinaia di riunioni video e un numero spropositato di chat WhatsApp e Telegram – tutto quel variegato arcipelago ambientalista e movimentista che, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, è sempre stato più portato per le divisioni ed i litigi che per far fronte comune. E siccome lo sanno anche loro, gli zapatisti, come gira la “rivoluzione” alle nostre latitudini, hanno preferito chiarire la questione sin dal primo, che poi è l’ultimo, proclama.

“Ci differenziano e ci allontanano terre, cieli, montagne, valli, steppe, giungle, deserti, oceani, laghi, fiumi, torrenti, lagune, razze, culture, lingue, storie, età, geografie, identità sessuali e non, radici, confini, forme di organizzazione, classi sociali, potere d’acquisto, prestigio sociale, fama, popolarità, seguaci, likes, valute, grado di scolarizzazione, modi di essere, mestieri, virtù, difetti, pro, contro, ma, eppure, rivalità, inimicizie, concezioni, argomentazioni, contro argomentazioni, dibattiti, controversie, denunce, accuse, disprezzo, fobie, filiazioni, elogi, ripudi, fischi, applausi, divinità, demoni, dogmi, eresie, simpatie, antipatie, modi, e un lungo eccetera che ci rende diversi e, non di rado, contrari.

 

Solo una cosa ci unisce: che facciamo nostri i dolori della terra”. Traduzione for dummies o per chi, al contrario degli zapatisti, apprezza il dono della sintesi: “Vedete di non rompere troppo le scatole che c’è un bel po’ di lavoro da sbrigare”.

di lavoro da sbrigare ce n’è parecchio per salvare questa nostra casa che sta bruciando. I cambiamenti climatici, ultimo atto della guerra che il capitalismo ha mosso al vivente, hanno scombinato le carte in tavola. Oggi, un radicale rovesciamento di valori nella società e nell’economia è ancora più urgente rispetto ai giorni eroici di quel “Ya basta” lanciato da un balcone sullo zocalo di San Cristobal.

Se, soltanto 27 anni fa, erano principalmente i popoli indigeni a dover lottare per il diritto di sopravvivere nella loro terra, oggi tocca all’intera umanità mobilitarsi per un definitivo cambiamento di rotta capace di chiudere per sempre i rubinetti delle multinazionali del fossile da cui si nutre il capitalismo. L’unica cosa da fare è darsi da fare, prima che sia troppo tardi. E, naturalmente, Que Viva Zapata!

 

Post scriptum: Greta y Marcos?

Ho scritto questo articolo tutto d’un fiato e solo ora che sono arrivato alla fine mi rendo conto di non aver risposto ad una domanda che, ne sono sicuro, avrebbero voluto farmi coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi. “Nella delegazione zapatista che sbarcherà in Europa ci sarà anche lui? Marcos o, come si chiama adesso, il comandante Galeano?”

Vi confesso che non ho avuto il coraggio di chiederlo agli zapatisti. Anche perché so bene cosa mi avrebbero risposto. “Ma come? Son 27 anni che giriamo col passamontagna proprio per rimarcare che siamo tutti uguali e tu ci fai questa domanda? Sarai anche venuto sette volte nei nostri caracoles ma non hai imparato proprio niente!” E ci avrebbero pure ragione! Ma io che sono un’anima semplice non posso fare a meno di sognare che, da qualche parte in Svezia, Marcos e Greta si incontreranno per parlare di come spegnere l’incendio che sta devastando la terra-madre-casa dell’umanità. E sono anche convinto che Marcos-Galeano scenderà in Italia. C’è una leggenda a proposito. Leggenda nel senso che la racconta lo stesso Marcos che, per l’appunto, è leggenda. Quando partì per il Chiapas a fare la rivoluzione, Marcos salutò sua madre avvisandola di non aspettarlo a cena per un po’ di tempo perché sarebbe andato all’estero. Alla domanda “Ma si può sapere dove vai?”, il sub, che non voleva darle preoccupazioni, rispose: “In Italia, a fare la televisione”. Che vi devo dire? Io lo aspetto già nella mia Venezia! In fondo, prima o poi, passano tutti per piazza San… Marco.

da qui


La scommessa zapatista - Christian Peverieri

L’alba del nuovo anno di ventisette anni fa ci sorprese con una notizia incredibile. Ancora frastornati dai festeggiamenti, ci svegliammo con le immagini provenienti da San Cristóbal de las Casas, nello stato più povero del Messico, il Chiapas, dove piccoli uomini di mais che non conoscevamo, che non esistevano, si erano sollevati in armi contro i potenti della terra, con pochi fucili, qualche bastone e machete e con molte parole. Dissero di essere indigeni zapatisti, orgogliosi discendenti delle popolazioni maya e fieri prosecutori dell’opera rivoluzionaria di Emiliano Zapata. Al grido di “democracia, justicia, libertad”, dopo dieci lunghi anni di preparazione nella clandestinità, uscivano allo scoperto, coi volti coperti da passamontagna per farsi vedere, dichiarando guerra all’oblio e allo sfruttamento a cui erano stati costretti e incatenati dalla conquista spagnola in avanti.

La storia di quei giorni epici e degli anni successivi, ormai la conosciamo bene grazie ai libri, ai saggi, agli articoli che ne hanno raccontato le gesta, ma soprattutto grazie ai comunicati che lo stesso movimento zapatista ha reso pubblici, prima a firma del fu Subcomandante Marcos e, in tempi più recenti, a firma dei Subcomandanti Moisés e Galeano, ma sempre comunque espressione della volontà comunitaria. Di questa incredibile storia di rabbia degna da un po’ di tempo non se ne parla più con lo stupore e l’ammirazione che invece meriterebbe. Negli ultimi anni c’è stato chi ha detto che gli zapatisti non esistono più, qualcun altro che si sono venduti, altri ancora che nei loro territori stanno peggio di 27 anni fa, altri infine che questo movimento è stato solo un’illusione. 

Noi che da più di cinque lustri camminiamo domandando assieme a loro, sappiamo bene che non è così. Conosciamo bene l’incredibile capacità di questi piccoli uomini di mais di resistere a repressione e guerra a bassa intensità – che mai hanno abbandonato quelle terre – e di rispondere colpo su colpo ai potenti del malgoverno, siano essi “capataz” violenti e criminali o siano essi “capataz” più moderati ma non per questo meno pericolosi. Conosciamo bene la capacità di tradurre in fatti concreti quanto proclamato nei loro comunicati. Conosciamo bene tutto questo perché quelle terre assediate ma libere dove gli zapatisti hanno costruito autonomia, giustizia e dignità, le abbiamo calpestate infangandoci gli stivali, condividendo pozol e café de olla, huevos e sopitas, sogni e utopie. Con umiltà ci siamo messi in ascolto, abbiamo imparato a camminare domandando, osservato e accompagnato la crescita di un movimento guerrigliero capace di sorprendere tutti, capace di disinteressarsi al Palazzo d’Inverno e di costruire realmente altro potere: quello delle comunità per le comunità che insieme si auto sostengono e costruiscono il proprio futuro senza servi né padroni.

Qualche anno fa, durante un festival internazionale l’allora tenente colonnello Moisés e il fu Subcomandante Marcos spiegarono che «la concezione iniziale dell’EZLN era quella tradizionale dei movimenti di liberazione dell’America Latina: un piccolo gruppo di illuminati che si alza in armi contro il governo. Successe però che questo progetto fu sconfitto quando ci confrontammo con le comunità e ci rendemmo conto non solo che non ci capivano ma che la loro proposta era migliore. Non stavamo insegnando a nessuno a resistere. Ci stavamo convertendo in alunni di questa scuola di resistenza di chi lo faceva da cinque secoli. Da un movimento che pianificava di servirsi delle masse, dei proletari, dei contadini, degli studenti, per arrivare al potere e dirigerlo, ci stavamo convertendo, gradualmente, in un esercito che doveva servire le comunità».

Oggi, grazie a questa visione, il movimento zapatista è più forte e organizzato che mai. L’esercito, già molti anni fa, ha saputo mettersi da parte e servire le comunità garantendone esclusivamente la sicurezza, mentre le generazioni successive ai primi “insurgentes” hanno preso in mano la gestione dei territori ribelli e autonomi e sono coloro che concretamente amministrano le comunità stesse, dalla salute all’educazione, dalla giustizia al lavoro comunitario, dimostrando che questo movimento ha un futuro lungo e prospero davanti a sé e che non sarà il nuovo accerchiamento militare promosso dal presidente progressista López Obrador, a porre fine a questa esperienza radicata e radicale.

Giovani, giovanissimi, molti dei quali nati dopo il 1° gennaio 1994, tutti cresciuti en rebeldìa, oggi sono dunque “promotori di salute”, “promotori di educazione” o membri delle Juntas del Buen Gobierno. Sono loro, in maggioranza mujeres rebeldes, che la prossima primavera attraverseranno il “grande charco” per arrivare fin qui, nel vecchio continente,  per “incontrare ciò che ci rende uguali” ai tanti e alle tante che in questa geografia lottano contro il sistema capitalista. Perché, come annunciato nel comunicato di lancio di questa avventura, “Una montagna in alto mare”, «bisogna riprendere le strade, sì, ma per lottare. Perché, come abbiamo detto prima, la vita, la lotta per la vita, non è una questione individuale, ma collettiva. Ora si vede che non è neppure una questione di nazionalità, è mondiale».

Senza dubbio per realizzare questa nuova impresa sarà necessario superare molti ostacoli, burocratici, economici e logistici, ma la scommessa zapatista, è qualcosa di più del “vediamo se riusciamo ad arrivare in Europa”. È una scommessa che parla di rete di relazioni, di intrecciare resistenze e ribellioni anticapitaliste, antirazziste e antipatriarcali. È una scommessa che parla al cuore di chi non si rassegna a veder precipitare il nostro mondo verso l’abisso, a chi crede, come dicono gli zapatisti, che vivere significhi lottare. È una scommessa che ha già trovato pronti moltissimi collettivi, organizzazioni e singoli italiani ed europei che in queste ultime settimane si sono attivati e incontrati virtualmente per accogliere la delegazione zapatista. Una scommessa che spetta anche a noi tutte e tutti far diventare realtà facendo diventare l’arrivo degli zapatisti il motore di nuove resistenze, di nuove ribellioni e di nuovi mondi.

L’alba di un nuovo anno sta arrivando. Un anno che sarà migliore di quello precedente solo se lo affronteremo vivendo, vale a dire lottando. Ora è tempo di celebrare un nuovo anniversario del “levantamiento” con l’emozione con cui si guarda sempre ai ricordi del passato, ma con lo sguardo e i cuori rivolti al futuro, a quel futuro che vogliamo fortissimamente costruire insieme la prossima estate. La scommessa è lanciata. Chi accetta la sfida?

da qui

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