Il pianeta
risuona tamburi di guerra da ogni direzione dell’orizzonte. In Ucraina
tredicimila civili cancellati dal fuoco; a Gaza cinquantasette mila vite spente
come candele nella corrente in ventuno mesi d’assedio; dal Sudan quattro
milioni di corpi in marcia alla ricerca di un fazzoletto d’ombra; in Myanmar
tre milioni e mezzo di volti dispersi fra cenere e giungla; e, sopra tutti, una
città invisibile che non smette di crescere: centoventidue milioni di profughi
lanciati nel vento come semi. Questi numeri – li sentite pulsare? – dovrebbero
gelare il sangue, ma sfumeranno come bruma se non accostiamo l’orecchio al
battito che custodiscono. Ogni cifra è una fronte che scotta, una fotografia
sbiadita stretta in un pugno, una voce che domanda solo un minuto senza sirene.
A voi che
impugnate le leve del potere – Governi in doppiopetto, consigli
d’amministrazione oliati come ingranaggi, alleanze militari dalla voce di
metallo – dico che il Vangelo non fa sconti né ammorbidisce la verità.
Non domanda tessere, non pretende incenso: impone di riconoscere l’uomo quando
lo si vede, di chiamare male ciò che schiaccia l’uomo. «Avevo fame e mi avete
dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto» non è un soprammobile pio:
è norma primaria scritta con il polso di Dio. Non esistono clausole, non c’è
piè di pagina abbastanza piccolo per nascondere l’egoismo. Se volete
essere guida e non timone allo sbaraglio, fermate i convogli carichi di morte
prima che varchino l’ultima dogana; smontate i macchinari che colano piombo
e forgiatene aratri, tubature, banchi di scuola. Portate i bilanci di guerra
sulla cattedra di un maestro stanco: trasformate milioni stanziati per
missili in sale parto illuminate, ambulanze capaci di raggiungere finanche le
sofferenze più remote.
E voi che
sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e
grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un
ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il
bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate –
se ci riuscite – la locuzione “obiettivi strategici”. Il Vangelo – per
chi crede e per chi non crede – è uno specchio impietoso: riflette ciò che è
umano, denuncia ciò che è disumano. Se un progetto schiaccia l’innocente, è
disumano. Se una legge non protegge il debole, è disumana. Se un profitto
cresce sul dolore di chi non ha voce, è disumano. E se non volete farlo
per Dio, fatelo almeno per quel poco di umano che ancora ci tiene in piedi.
Quando i
cieli si riempiono di missili, guardate i bambini che contano i buchi nel
soffitto invece delle stelle. Guardate il soldato ventenne spedito a morire per
uno slogan. Guardate i chirurghi che operano al buio in un ospedale sventrato.
Il Vangelo non accetta i vostri comunicati “tecnici”. Scrosta ogni vernice di
patria o interesse e ci lascia davanti all’unica realtà: carne ferita, vite
spezzate. Non chiamate “danni collaterali” le madri che scavano tra le
macerie. Non chiamate “interferenze strategiche” i ragazzi cui avete rubato il
futuro. Non chiamate “operazioni speciali” i crateri lasciati dai droni.
Togliete
pure il nome di Dio se vi spaventa; chiamatelo coscienza, onestà, vergogna. Ma
ascoltatelo: la guerra è l’unico affare in cui investiamo la nostra umanità per
ricavarne cenere. Ogni proiettile è già previsto nei fogli di calcolo
di chi guadagna sulle macerie. L’umano muore due volte: quando esplode la
bomba e quando il suo valore viene tradotto in utile. Finché una bomba
varrà più di un abbraccio, saremo smarriti. Finché le armi detteranno l’agenda,
la pace sembrerà follia. Perciò, spegnete i cannoni. Fate tacere i
titoli di borsa che crescono sul dolore. Restituite al silenzio l’alba di
un giorno che non macchi di sangue le strade. Tutto il resto – confini,
strategie, bandiere gonfiate dalla propaganda – è nebbia destinata a
svanire. Rimarrà solo una domanda: «Ho salvato o ho ucciso l’umanità
che mi era stata affidata?». Che la risposta non sia un’altra sirena nella
notte. Convertite i piani di battaglia in piani di semina, i discorsi di
potenza in discorsi di cura. Sedete accanto alle madri che frugano tra le
macerie per salvare un peluche: scoprirete che la strategia suprema
è impedire a un bambino di perdere l’infanzia. Portate l’odore delle pietre
bruciate nei vostri palazzi: impregni i tappeti, ricordi a ogni passo che
nessuno si salva da solo e che l’unica rotta sicura è riportare ogni uomo a
casa integro nel corpo e nel cuore.
A noi,
popolo che legge, spetta il dovere di non arrenderci. La pace germoglia in salotto – un
divano che si allunga; in cucina – una pentola che raddoppia; in strada – una
mano che si tende. Gesti umili, ostinati: “tu vali” sussurrato a chi il mondo
scarta. Il seme di senape è minimo, ma diventa albero. Così il Vangelo:
duro come pietra, tenero come il primo vagito. Chiede scelta netta: costruttori
di vita o complici del male. Terze vie non esistono.
Piega,
Cristo, l’orgoglio dei potenti, invita chi forgia armi a piegare il ferro in
vanghe, chiama ogni coscienza a spalancarsi e difendere il fragile con la
testardaggine di chi sa che il bene è moneta che non svaluta. Ogni
minuto di ritardo incide un nuovo nome sul marmo. Che questa pagina –
spoglia di retorica, ruvida di Vangelo – diventi specchio: chi vi si guarda
decida se restare servo della violenza o farsi servo dei fratelli.
Dio del
respiro negato,
strappa il tavolo ai signori che vendono il mondo a colpi di vertice.
Capovolgi le loro carte di ferro:
che il piombo sparso torni zolla,
che il bilancio armato diventi culla.
Offri ai potenti lo specchio che non sanno rompere:
il volto di un bambino senza notte,
il tremito di un medico rimasto senza luce.
Fa’ che non possano distogliere lo sguardo
finché il privilegio diventa vergogna
e la vergogna si fa giustizia.
Ricorda-ci che la carne vale più dell’emblema,
che chi fa profitto sul sangue scava la propria fossa,
che l’alba non appartiene a chi ha cannoni
ma a chi custodisce un abbraccio.
Taci le sirene, piega le bandiere gonfie di rumore,
e ridonaci un silenzio capace di far fiorire il futuro.
Amen
* L’autore è
cardinale e arcivescovo metropolita di Napoli.
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